Lusso
Il termine lusso deriva dal latino luxus, che indica sovrabbondanza, eccesso. Parlare di l. significa dunque riferirsi a qualcosa di non necessario, che va al di là di ciò che è sufficiente o in qualche modo adeguato alle normali occorrenze della vita. Il lussuoso ha a che fare con ciò che appare inutile, superfluo e per ciò stesso vizioso. Se la questione è dunque quella dell'eccesso, il punto è se l'inessenziale e il surplus indichino ciò di cui tutti potrebbero fare a meno o se invece la brama per l'inessenziale rappresenti un tratto fondamentale e costitutivo dell'essere umano.
Lusso, ostentazione e decadenza
Nel suo capolavoro La scienza nuova (1725) G. Vico evidenzia come sia proprio il l. sfrenato a determinare un'inesorabile decadenza negli stati dell'età degli uomini, che tornano a sperimentare una vera e propria infanzia disponendosi a vivere ogni volta un nuovo inizio della dialettica storica. L'umanità decade dunque a causa del vizio dell'eccesso; il l. sfrenato conduce a una concreta perdita di sé, tanto ineludibile quanto deplorevole, tanto malaugurata, quanto inevitabile. D'altro canto, la storia è fatta della continua irruzione di immancabili ricorsi. L'uomo non può non essere ciò che è, ossia non può che cedere alla seduzione dell'eccesso, ogni guadagno mostrandosi ai suoi occhi come insufficiente.
Già all'epoca della cosiddetta protopolis (8° sec. a.C. circa) vigeva tra gli aristocratici, intenti a emulare il mondo miceneo descritto da Omero, uno stile di vita che si traduceva nel desiderio e nella produzione di oggetti di lusso. Tuttavia, il ricorso al l. sfrenato - quasi sempre in corrispondenza con la radicalizzazione di una crisi in atto - comporta l'immancabile inscrizione nell'alveo di un'ineludibile decadenza. Infatti, è quando la realtà diviene un ostacolo che ci si rivolge all'immaginario, alla pura esibizione di un surplus che invero non esiste, se per esistere si intende servire a qualcosa, avere una causa e uno scopo. Il l. è dunque, per definizione, il perfettamente inutile. Da tale punto di vista tutta la grande arte può essere intesa come l'espressione di una sacra superfluità, perfetto oblio della pesantezza del reale.
Se il l. è sintomo di decadenza incipiente, ciò accade poiché la sua esibizione si costituisce innanzitutto come inganno nei confronti dell'essere umano, come attestazione della più radicale incapacità di esistere, e quindi di corrispondere ai compiti e agli scopi prefissi. Forse ci si abbandona al l. quasi per stordirsi con la pura parvenza: il l. è dunque inganno sofistico che seduce, e può anche attrarre, incantare, ma la sua efficacia è comunque blanda, poiché illusoria.
Le forme e i modi del l., e i suoi simboli, cambiano continuamente nella storia, ma ciò che non cambia è appunto il bisogno di ostentare, di esibire quel di più che viene comunemente vissuto come un lusso. Tale bisogno, tuttavia, dice già di per sé stesso che non si è affatto ciò che si vuol far credere; l'ostentazione del l. è in questo senso sempre sintomo di debolezza e fragilità. Non a caso si ostentano l. e ricchezza eccedenti là dove si teme la fine incipiente, per es. nella Versailles di Luigi xiv, o nell'estetismo esasperato di tanti artisti o scrittori di fine Ottocento. Là dove la morte già si annuncia e nulla sembra avere più senso, ci si abbandona al l., all'eccesso, ossia al vuoto apparire in cui l'essere si è ormai, per dirla con G.W.F. Hegel, negato.
A ogni modo, il l. sfrenato di cui Re Sole diventò emblema parlava di un mondo destinato a finire; ma alla spietata critica rivolta da J.-J. Rousseau al l. in quanto sintomo di decadenza e di disuguaglianza va sin d'ora contrapposta la riflessione hegeliana, secondo la quale sarebbe errato ritenere libero dai bisogni l'uomo allo stato di natura. Per Hegel infatti ciò significherebbe fare dell'uomo un semplice animale, dotato di una limitata cerchia di mezzi e modi per l'appagamento dei suoi bisogni, anch'essi limitati.
In verità la natura umana appare agli occhi di Hegel assolutamente straordinaria: ché, anche nella dipendenza, l'uomo è spinto a oltrepassare il proprio limite, manifestando per ciò stesso la propria originaria universalità. E questo avviene proprio mediante la moltiplicazione dei bisogni e dei mezzi, e, in secondo luogo, mediante la scomposizione e differenziazione del bisogno concreto in singole parti e singoli lati, che divengono così bisogni particolarizzati e quindi sicuramente più astratti. In conformità a quella tendenza alla moltiplicazione e specificazione indeterminata di bisogni, mezzi e godimenti, che, proprio non avendo limite alcuno, ossia dispiegandosi secondo una processualità infinita, esprime per il filosofo tedesco la quintessenza di quella che può essere definita una irrefrenabile tendenza al lusso. Anche se tutto ciò ha come contraltare, sempre ai suoi occhi, un aumento altrettanto infinito della dipendenza e dello stato di necessità. In conformità a una dialettica che Hegel articola nelle pagine dei Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821).
Oltre il principio di utilità
Nel saggio su La notion de dépense (1933) G. Bataille mette in evidenza come "l'attività umana non è interamente riducibile a processi di produzione e di conservazione, e il consumo deve essere diviso in due parti distinte. La prima, riducibile, è rappresentata dall'uso del minimo necessario", mentre la seconda è costituita dalle "spese cosiddette improduttive: il lusso, i lutti, le guerre, i culti, [...] i giochi, gli spettacoli, le arti, l'attività sessuale perversa (cioè deviata dalla finalità genitale) rappresentano altrettante attività che, almeno nelle condizioni primitive, hanno il loro fine in sé stesse" (trad. it. 1992, p. 6). In questa prospettiva, Bataille rileva l'insufficienza del principio classico dell'utilità, e, facendosi forte delle intuizioni elaborate da M. Mauss in relazione alla sua teoria del dono (Essai sur le don, 1923), rivendica la necessità di un consumo rapido e violento delle risorse.
Già Platone, nella Repubblica, nel disegnare l'origine dello Stato - ossia la sua natura tutta economica, fondata sulla necessità di soddisfare i bisogni naturali dell'uomo e della comunità - e nel condannare la soddisfazione dei beni non strettamente necessari, rintraccia la genesi del l. nei progressivi aumento e complicazione di quei bisogni che vanno oltre l'iniziale naturalità, trasformando una città sana in una città opulenta, ossia "affetta da infiammazioni" (ii, 372 e-373 d).
Come già evidenziato (v. sopra: Lusso, ostentazione e decadenza), la realtà fa da ostacolo, e fa da ostacolo nella misura in cui la complessità dell'organizzazione sociale comporta un aumento esponenziale dei bisogni e della difficoltà di soddisfarli tutti. Inoltre, ancora altri bisogni emergeranno, e sembrerà irrinunciabile il soddisfarli, in un processo che non può che tendere all'infinito. Proprio per questo motivo l'essere umano si sarebbe ingegnato nell'escogitare continuamente nuove rappresentazioni del godimento; come accade nel sogno e nei suoi soddisfacimenti allucinatori.
Il lusso quale messa in questione dell'ordine costituito
Questo anelito è vissuto dalla società degli esseri umani come un pericolo; perciò l'ordo comune deve misurarne la crescita, ossia controllarne lo sviluppo e l'articolazione. Non è un caso che a Roma, sin dall'età arcaica, si provasse ad arginare sia il l. sia le manifestazioni eccessive in occasione dei funerali, come dimostrano le Leggi delle xii Tavole, in particolare le disposizioni della x, che limitavano le spese per i funerali, vietando l'uso di oro e il l. nell'abbigliamento, come anche l'usanza femminile di graffiarsi le guance e di intonare lamentazioni durante la sepoltura.
Nonostante tali strategie di controllo, il funerale romano in età medio/tardo-repubblicana era di solito sufficientemente sontuoso. Le limitazioni del l. e della sua esibizione costituivano anche uno strumento di discriminazione nei confronti delle donne con i ripetuti provvedimenti contro il l. delle matrone. D'altro canto, furono le donne a scendere in piazza nel 195 a.C. per chiedere l'abrogazione della lex Oppia, che imponeva una maggiore austerità ai costumi femminili. In questo senso, il gusto per il l. e lo sfarzo caratterizzarono il mondo romano in tutto l'arco dell'antichità.
Il l. non può non inquietare l'ordine costituito. Se per un verso esso sembra infatti alimentato dalla stessa classe dominante al fine di ribadire la propria distanza incolmabile dal resto della popolazione, in verità la sua perfetta gratuità, la sua inutilizzabilità e la sua indecifrabile eccedenza mettono in questione quella stessa distanza, e quindi la sua supposta inamovibilità. Il l. mette in luce la perfetta infondatezza di tale scarto, ossia di quella rigida dipendenza. E dunque l'infondatezza dell'ordine costituito in quanto tale, mostrando la sua radicale irriconducibilità a qualsivoglia valore o ragione necessitante. Separa infatti il comune dall'eccezionale e può agevolare il costituirsi di una società assolutamente ateleologica, nel cui orizzonte nessun bene materiale potrebbe più valere in vista di un fine determinato (come, per es., la salvezza, l'eternizzazione, oppure altro) che non sia quello dell'accumulazione del capitale, nonché della sua irrefrenabile crescita. Un fine che 'non è', dunque, qualcosa d'altro rispetto a questo o quel bene concreto e fisicamente esperibile, quanto, piuttosto, il semplice accumulo dei beni e del valore da essi rappresentato.
Lusso e capitalismo
Per questi motivi il l., agli occhi di W. Sombart, che si occupò di questo tema nel corso della prima metà del 20° sec. (Luxus und Kapitalismus, 1913), appare come la condizione necessaria e sufficiente per la nascita e la crescita del sistema economico capitalistico; una tesi che sarebbe apparsa alternativa rispetto a quella di K. Marx, che riconduce l'avvento del capitalismo all'ampliamento geografico dei mercati, ma anche rispetto a quella di M. Weber, che connette lo spirito del capitalismo alla rigida matrice calvinista (Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1904-05). Secondo Sombart, invece, è il l. il presupposto per la nascita di un sistema che proprio nell'accumulo tendenzialmente infinito e sostanzialmente immotivato, voluto di per sé stesso, avrebbe ritrovato il proprio cuore più autentico. Il gusto della voluttà e dell'eccesso viene goduto nello spreco di sé e dei propri averi, mai banalmente accumulati e reinvestiti in vista di una qualche possibile salvezza (o come prova di una salvezza invero già ottenuta, in conformità allo spirito calvinista), e neppure di una maggior tranquillità o di una maggiore securitas personale. Perché lo spreco e l'eccesso di consumo - un consumo smodato che diventa pura dissipazione - si concretano nell'esperienza di una superfluità sussistente di per sé, e dunque perfettamente ipostatizzata.
Dunque, se il l. contribuì in maniera essenziale allo sviluppo della civiltà capitalistica, il suo irrefrenabile costituirsi sarebbe comunque apparso con sempre maggior chiarezza come già in sé necessario. Non a caso tra il 17° e il 18° sec. tale vizio cominciò a trovare ancora una volta diritto di cittadinanza, e non venne più proibito. Lo riconobbero da un lato Montesquieu, secondo cui nelle grandi monarchie moderne il l. produce effetti positivi (De l'esprit des lois, 1748, viii, 1-4; trad. it. 1989) e dall'altro Voltaire, che definisce il l. come "superfluo assai necessario" (sia nella sua Défense du mondain, ou L'apologie du luxe, 1737, sia nel Dictionnaire philosophique, 1764). D. Hume, infine, considerava il l., anche se cattivo (distingueva infatti un l. buono da un l. cattivo), sicuramente preferibile alla pigrizia (Of commerce, in Political discourses, 1752).
L'aria cominciava dunque a farsi diversa; dagli antichi inviti all'astinenza che avevano caratterizzato tanto severo rigorismo ellenistico ci si diresse verso un'etica della dissipazione e del l. immotivati; goduti proprio nella loro radicale irragionevolezza, ossia nella loro perfetta gratuità. Puro dono della fortuna che sembrava ormai impossibile rifiutarsi di esperire sino in fondo, il l. sembrava ormai consentire all'essere umano di riattingere il fondo nascosto del proprio destino, perché sua e solo sua doveva rivelarsi quella sete di spreco, di surplus, che il postilluminismo aveva cominciato a tematizzare anche in sede più specificamente speculativa. Dapprima I. Kant poi in forma ancora più radicale lo stesso J.G. Fichte, infatti, disegnarono i contorni di un complesso impianto categoriale che da ultimo non avrebbe fatto altro che mettere a nudo l'originaria insensatezza propria di ogni umana esistenza, e quindi di ogni conoscenza.
bibliografia
Agalma, 2002, 2, nr. monografico: Il lusso, oscuro oggetto del desiderio.
P. Calefato, Lusso, Roma 2003.
Disciplinare il lusso. La legislazione suntuaria in Italia e in Europa tra Medioevo ed Età moderna, a cura di M.G. Muzzarelli, A. Campanili, Roma 2003.