Lutto
Il termine lutto (derivato dalla radice del verbo latino lugeo, "piangere") designa a un tempo la situazione di chi ha perduto una persona amata, il lento e doloroso processo di accettazione e interiorizzazione di un decesso, che in psicoanalisi viene definito il 'lavoro del lutto', e l'insieme di segni esteriori, culturalmente codificati, adottati in occasione della morte di qualcuno. Il lavoro del lutto Dal punto di vista psicologico, il lutto si può descrivere come una reazione complessa, individuale o di gruppo, dinanzi alla separazione o alla perdita dell'oggetto d'amore percepita e vissuta come irrecuperabile. Il riferimento ultimo ma anche il prototipo di questa reazione, come già osservava Freud (1917), è il lutto di fronte alla perdita per eccellenza: la morte. La psicoanalisi ha approfondito questa tematica al fine di coglierne il significato esistenziale e il ruolo che riveste lungo il ciclo della vita, evidenziando nell'ambiguità la peculiare caratteristica e al tempo stesso il nodo conflittuale del lutto e trovando conferma alle sue ipotesi, almeno per l'area culturale dell'Occidente, anche in studi di carattere storico-antropologico. La tipica conformazione psicodinamica del lutto, vissuto come esperienza conflittuale, apparentemente inspiegabile, tra rimpianto e senso di sollievo, nostalgia, amore e rabbia di fronte alla perdita dell'oggetto d'amore, richiede che vengano presi in considerazione e interpretati i processi psichici, soprattutto inconsci, alla base della personalità umana. In questa prospettiva la psicoanalisi ha riconosciuto, nella capacità di affrontare e di vivere il lutto, una delle esperienze critiche fondamentali del processo di maturazione umana. È però opportuno prendere atto che nel contesto odierno della cosiddetta cultura tecnologica la prospettiva psicoanalitica si presenta ostica. Infatti, nel sentire contemporaneo si evidenzia la tendenza alla rimozione della morte, peraltro contestuale alla traumaticità, per un verso, e alla banalizzazione, dall'altro, con cui vengono vissute le molteplici forme di separazione e perdita degli oggetti d'amore. Ciò precisato, si può definire come maturativo quel processo di elaborazione del lutto mediante il quale una persona riesce a ristrutturare la propria identità, acquisendo la capacità di confrontarsi con le separazioni e la morte (operazione, questa, che non può mai essere data per scontata e risolta una volta per tutte), nonché reagendo alle specifiche sollecitazioni indotte dall'esperienza della perdita dell'oggetto d'amore in modo adeguato a ricostruire una relazione interiorizzata. Quest'ultima, fondata su un nuovo assetto della sinergia tra memoria ed emotività, consente al soggetto di ristrutturare anche la propria identità, 'di ridefinirsi' prendendo coscienza e accettando la nuova situazione e riorganizzando gli 'oggetti interni', fino a poter vivere nella propria realtà psichica una nuova relazione con l'oggetto d'amore perduto (per es. il congiunto defunto). L'aspetto che caratterizza il lutto per la morte di una persona, e consente in certa misura di distinguerne le diverse scansioni, è rappresentato dalla distanza esistente tra la realtà soggettiva della relazione e il processo di adattamento a una nuova modalità di rapporto con il defunto. Questo processo dipende non solo dalla personalità del singolo, ma anche dall'incidenza dei modelli socioculturali coscienti (fra i quali sono inclusi quelli di derivazione filosofica e religiosa), dai sedimenti culturali inconsci, dall'emergere incontrollato di pensieri e sentimenti, dalla plasticità dei meccanismi di difesa. Il processo ha come fine ultimo la canalizzazione dell'energia psichica verso quella ristrutturazione dell'identità e della relazione di cui si è accennato sopra. M.J. Horowitz (1990) nel suo modello del processo del lutto distingue diverse fasi, di seguito illustrate. a) Fase del lamento o del grido. Descrive la manifestazione di sentimenti ed emozioni apparentemente privi di senso, immediati, direttamente leggibili come risultati di un trauma: il tutto con quell'assenza di razionalità (in termini freudiani: di 'processo secondario') che è appunto tipica del lamento o del grido. Questa fase è associata molto spesso a manifestazioni più o meno esplicite di depressione. La prima risposta immediata dinanzi alla constatazione della morte di una persona fa emergere con forza sentimenti ed emozioni allo stato grezzo, come paura, rabbia, sorpresa, incredulità, impotenza, ribellione o anche sollievo, senso di rilassamento e di riposo. Molto spesso a questa fase sono associate manifestazioni di tipo psicosomatico che sottolineano il conflitto tra il livello cosciente del soggetto, il quale si sente obbligato a rispondere alle aspettative socioculturali (mantenere un certo autocontrollo, esprimere sentimenti e contenuti ritenuti appropriati, privilegiare la comunicazione verbale), e i sentimenti inconsci che il soggetto stesso si trova a sperimentare e di cui prova meraviglia. Se, infatti, dinanzi alla morte un certo grado di depressione o di malinconia è 'culturalmente' dato per scontato e quindi accettato anche a livello personale, l'avvertire altri tipi di emozioni, a volte contraddittorie rispetto alle proprie aspettative, genera uno stato di sconcerto e la sensazione di non essere più in grado di comprendere sé stessi o di dominarsi. Vi può essere la constatazione, ancorché confusa, che il tipo di relazione che si pensava di aver avuto con la persona morta è diverso dal tipo di rapporto che invece è memorizzato a livello profondo. Se questo confronto fornisce due modelli di relazione distanti oppure conflittuali, emergono allora intense reazioni di angoscia, che attivano diversi processi di difesa e di adattamento. b) Fase del diniego. Le difese che si mobilitano in occasione del lutto sono finalizzate alla riduzione della tempesta emotiva e all'integrazione di vissuti e comportamenti in funzione dell'omeostasi della personalità. Esse sono costituite dall'inibizione di specifiche aree emotive, come pure di quelle reazioni di lamento e di allarme tipiche del primo impatto dinanzi alla morte. L'insieme di questi processi tende al diniego dell'evento 'morte' per ridurre così la sofferenza; ha una finalità adattiva al servizio dell'Io, in quanto consente lo stabilirsi di un livello cognitivo-emotivo più favorevole alla ristrutturazione dell'identità. In caso di fallimento si può avere una reazione di disadattamento, la quale consiste nel rimandare indefinitamente l'accettazione della perdita e quindi l'elaborazione del lutto. Un fattore che è opportuno tenere presente per la sua rilevanza è la tendenza della memoria a richiamare i ricordi in modo selettivo, nel senso che alcuni di essi si ripresentano con forza e con modalità quasi compulsiva - per es. un certo incontro con la persona morta, particolarmente se seguito da sensazioni di aver omesso o evitato di fare qualche cosa ritenuta possibile o dovuta - mentre altri ricordi, che pure giocano un ruolo rilevante nella persistenza di certe emozioni, vengono percepiti confusamente oppure repressi. c) Fase dell'intrusione. Dopo un periodo che può andare da pochi giorni a qualche mese, la persona avverte, spesso sorprendendosene, un flusso emotivo dotato di propulsione autonoma, che, anche se contrastato dalla 'volontà', penetra tuttavia nella mente, in modo da essere vissuto appunto come una sorta di intrusione nella coscienza. È, questo, un processo caratterizzato da un graduale ripercorrere, alla luce della perdita dovuta alla morte, i ricordi che hanno contraddistinto la relazione con la persona scomparsa, sia in ciò che è stato realmente vissuto, sia sotto l'aspetto dei desideri non realizzati. Questa fase presenta due aspetti critici. Innanzitutto il rischio di percepirsi all'improvviso come impotenti e indifesi dinanzi alla morte e il conseguente senso di svuotamento del significato della propria vita o di particolari aspetti di essa. Ricorrono spesso fantasie sulla possibilità che tutto torni come prima oppure il desiderio illusorio di essersi sbagliati. Solamente in una fase successiva emerge faticosamente l'idea che si tratta di un desiderio impossibile e che la realtà non esclude la possibilità di trovare nuovi significati all'esperienza di perdita che si sta vivendo. In secondo luogo, mentre la forza di alcune difese si attenua, si ripresentano pensieri in cui il soggetto si arrovella su chi ha la responsabilità o la colpa di quanto è avvenuto, di che cosa si sarebbe potuto fare per evitarlo, che solitamente comportano un porsi interrogativi 'esistenziali' sul senso non solo di quanto avvenuto ma della vita nella sua globalità. d) Fase dell'elaborazione. Nel flusso ricorrente di immagini più o meno sfocate del passato, nel succedersi di risposte e adattamenti parziali, il soggetto, a un certo punto, avverte una differenza qualitativa nei propri vissuti, che è dovuta al graduale cambiamento della configurazione dei ricordi del defunto. Il lavoro di elaborazione dei ricordi modifica il vissuto della relazione con la persona morta, passando da modalità di pensiero primario - prevalentemente inconsce ed emotive - a quelle del pensiero secondario, più graduali e consapevoli. Schematicamente, la presa di coscienza del fatto concreto della morte conduce a un certo livello di accettazione della realtà e alla ristrutturazione della propria identità; costringe a rivedere i propri modelli ideali di autonomia, forza, debolezza, attaccamento nei confronti di altre figure e di sé stessi. Bene e male, giusto e ingiusto, amore e odio, partecipazione e indifferenza sono i temi che più frequentemente vengono a far parte di questa dinamica introspettiva. Il processo implica un'evoluzione nel livello di analisi della realtà, di decisione tra ciò che è vero e ciò che è fantastico, quindi l'abbandono dei desideri illusori, e la discriminazione tra presente e passato. È questo, idealmente, il salto evolutivo che l'elaborazione della reazione alla separazione e alla perdita dovrebbe sollecitare. Nel corso del lavoro del lutto, uno dei fattori che rendono più faticoso sia il suo completamento sia la sua evoluzione in senso maturativo è dato dalla particolare difficoltà di percepire in modo netto lo spessore e l'ampiezza del reale livello di legame affettivo o di 'attaccamento' e, conseguentemente, di valutare l'intensità della perdita: per es. quanto si sia trattato di rapporti reali oppure 'fantastici', di relazioni autentiche oppure di proiezioni unilaterali. Ricordi di momenti affettivi o sentimentali intensi possono essere rivissuti in una oscillazione che, per un verso, ne esalta la bellezza, l'intensità, il grado di comunicazione intima raggiunta, per l'altro, ne fa emergere gli aspetti negativi, quali il sospetto che il legame sia stato vissuto in modo unilaterale, frutto più di condiscendenza, da un lato, e di egoismo, dall'altro, che di un rapporto autentico. Per non parlare dei possibili dubbi relativamente ai risvolti morali e al giudizio che viene dato sugli atteggiamenti, le qualità oppure altre caratteristiche della persona morta e, in conseguenza, proprie. In questa continua oscillazione del processo del lutto tra i diversi stati d'animo e i fattori che abbiamo descritto consiste appunto la sua ambivalenza, che, come è stato richiamato fin dall'inizio, è uno dei nodi cruciali dell'investimento psichico in senso maturativo. Il vissuto di ambivalenza viene reso più logorante dal fatto che il pensare, influenzato dall'emotività e ostacolato dalla conflittualità, diviene complesso, tortuoso e, al tempo stesso, contraddittorio, fino a mettere in questione la sicurezza dell'identità personale. In questo stato di cose la coscienza diventa incapace di svolgere le sue competenze decisionali a causa dell'azione di meccanismi di difesa, quali il diniego, la regressione, la scotomizzazione, il rifiuto, l'isolamento e la formazione reattiva. La complessità e l'intensità dell'ambivalenza determinano un indebolimento dell'Io e richiedono una grande capacità di riorientare pensieri e sentimenti confrontandoli con l'analisi della realtà, sia personale sia dei riferimenti ideali scelti coscientemente. In particolare si tratta di elaborare le proprie reazioni e di renderle il più possibile coscienti, in modo da poter 'decidere di accettare' la morte come perdita permanente e irrevocabile e, al tempo stesso, avere la capacità di interiorizzare un nuovo livello di rapporto con la persona morta, che può realizzarsi solo nella sfera del simbolico, costruendo appunto un diverso e nuovo modello di relazione del tutto peculiare: l'interiorizzazione. Questa modalità implica una reale trasformazione che non riguarda solo il ripensare e riformulare le caratteristiche del defunto, distinguendo tra quelle più epidermiche e quelle interiorizzate a livello più profondo, ma esige necessariamente una modifica della percezione di sé, che comprende l'atteggiamento di fronte alla 'propria' morte. A queste dinamiche strettamente personali vanno aggiunti diversi fattori che incidono sul vissuto del lutto. Innanzitutto le circostanze della morte: infatti il tasso di violenza inerente ad alcune forme di morte (per es., omicidio, suicidio, incidente stradale), e il vissuto di distruttività che vi si associa, costituiscono fattori particolarmente destabilizzanti in quanto feriscono il narcisismo sano della personalità e ne minano le sicurezze di base. Così la morte dovuta a malattia, per l'andamento clinico della stessa, la sofferenza che comporta, il senso di impotenza che vi si accompagna, determina vissuti e reazioni chiaramente diversi rispetto a una morte che, per l'età della persona e per le circostanze, viene ritenuta un fenomeno 'naturale', a cui si è non solo preparati da tempo, ma che si realizza senza l'intervento di fattori particolarmente stressanti. Va inoltre considerata la variabile costituita dal fatto di essere stati presenti all'evento, oppure di esserne stati informati senza che si sia avuta la possibilità di giungere in tempo. Nel caso di morte di uno dei partner di una coppia, si deve anche tener conto della dinamica della relazione al momento del decesso: per es., se si era in una fase di pienezza del rapporto, se invece si era ancora in uno stadio iniziale o di consolidamento, se si trattava di un rapporto che minacciava di sgretolarsi o, a livello profondo, era già da ritenersi concluso. L'ultima variabile che viene qui considerata riguarda il contesto concreto in cui si viene a trovare chi sopravvive a un'altra persona, specialmente - ma non unicamente - se amata. Se il soggetto si trova in una situazione di isolamento, caratterizzata da scarsità di rapporti o da una loro povertà emotivo-affettiva, la difficoltà nel vivere il processo di elaborazione del lutto sarà presumibilmente maggiore. Altro invece è il caso di chi può contare su reti relazionali valide e disponibili ad accompagnarlo, nonché a sostenerlo in questo cammino esistenziale. Riprendendo il discorso iniziale, la capacità di affrontare in modo adeguato le vicende di separazione e di perdita dei diversi 'oggetti d'amore' che si presentano nel corso della vita e di sapersi confrontare con la morte rappresenta un fattore di maturazione esistenziale, in base al quale ogni persona è sollecitata a interiorizzare in modo autentico e profondo le relazioni realmente significative e, nel contempo, a rinunciare ai desideri illusori e a separarsi da quegli 'oggetti' non appartenenti al nucleo più autentico dell'interiorità personale, che costituisce, in definitiva, l'identità vera e completa di ogni persona. Aspetti antropologici Nella società occidentale contemporanea il lutto è ridotto quasi esclusivamente a fenomeno psicologico individuale. Il cordoglio è divenuto un fatto privato, i segni esteriori (gli abiti scuri, la trascuratezza dell'aspetto) per lo più aboliti e le violente manifestazioni di afflizione relegate ai margini della sfera pubblica. Le radici del processo di attenuazione relativo alla specificità della situazione luttuosa e delle manifestazioni esteriori che la connotano vanno ricercate nella trasformazione che ha subito la concezione della morte in Occidente (Ariès 1977). Nel Medioevo essa era accettata come fatto naturale a cui il morente, consapevole del proprio destino, si preparava: egli prendeva commiato dai propri congiunti e si apprestava spiritualmente a raggiungere la comunità dei defunti in attesa della resurrezione. I funerali erano un'occasione di riunione di amici e parenti, i riti di sepoltura e del lutto ricchi di simboli. Diametralmente opposta alla concezione medievale è quella odierna della morte, vista come traumatico passaggio che non consente l'accesso a un aldilà ma si apre verso il nulla. La morte è uno scandalo e in quanto tale viene meticolosamente occultata non parlando del decesso in quanto fase naturale della vita e relegando il morente e il cadavere entro spazi invisibili e anonimi, come quelli delle strutture ospedaliere. La scomparsa delle espressioni del dolore e del lutto trova corrispondenza nel silenzio intorno alla morte e nell'occultamento dei cadaveri alla scena sociale. Al contrario di quanto accade nel mondo occidentale contemporaneo, nei contesti culturali che, secondo una formula convenzionale, vengono detti tradizionali, la morte viene percepita come parte integrante della vita stessa. La comunità si fa carico dell'assistenza al malato, dei riti del cordoglio e della sepoltura. Attraverso l'attività rituale viene riaffermato l'equilibrio delle relazioni sociali che il morire, ancorché fatto naturale, minaccia. L'analisi antropologica, che considera le forme culturalmente variabili di 'addomesticamento della morte' operate dal lutto, ci permette di recuperare le tre dimensioni cui la polisemia del termine si riferisce - ossia, la dimensione cognitiva, dalla quale dipende la definizione della situazione, quella psicologica, inerente agli stati emotivi, e quella sociologica, cui pertengono i segni e i comportamenti prescritti in occasione di una morte - e di considerare il cordoglio come fatto totale, dove la componente individuale e quella culturale si integrano e interagiscono reciprocamente. Analizzando distintamente la dimensione cognitiva, quella psicologica e quella sociologica, non si intende stabilire l'anteriorità di una sfera in rapporto alle altre (affermando, per es., che il dolore della perdita causa la pubblica espressione di afflizione o che viceversa gli stati emotivi sono indotti dall'adozione di segni esteriori socialmente prescritti), quanto piuttosto individuare le specificità di ciascun ambito e considerarne le reciproche interazioni. All'interno di ogni contesto sociale, il lutto come fatto totale dipende dalle idee condivise intorno alla vita e alla morte, dalla definizione e dalla valutazione culturale delle emozioni, dei ruoli e dell'organizzazione sociale. I. Il lutto come stato Secondo R. Hertz (1907), il lutto non si identifica con la violenta crisi emotiva che segue il decesso, quanto piuttosto con lo stato imposto, per un arco di tempo determinato, ad alcuni familiari del defunto. In Indonesia, l'area culturale cui principalmente è dedicata la sua analisi, la morte non costituisce un fatto istantaneo, ma un processo che va dalla morte biologica, seguita a breve distanza dalla prima sepoltura, alla 'grande festa' in cui i resti ossei della decomposizione vengono riesumati e (dopo essere stati opportunamente trattati) definitivamente collocati nella tomba. Durante il periodo intermedio i parenti, e in particolare le vedove del defunto, sorvegliano il processo di decomposizione. Centro della situazione luttuosa è il cadavere, percepito come alterità radicale, agente di contagio e fonte di impurità. La sua estraneità respinge ma, al tempo stesso, le cure necessarie alla salma esigono un contatto di cui i familiari devono farsi carico. La relazione che li legava al defunto quando costui era in vita si prolunga, se pure attraverso modalità alterate, dopo la sua scomparsa: la prossimità relazionale impone allora la contiguità spaziale, il contatto con il cadavere e, conseguentemente, la partecipazione al suo stato di impurità e pericolo. Le pratiche esercitate sul corpo del morto (talvolta repellenti, come la raccolta dei resti della decomposizione con i quali le vedove cospargono il proprio corpo o i cibi) non possono essere interamente ricondotte all'affetto e al dolore. Non è una spontanea espressione di sentimenti individuali, ma una partecipazione forzata alla condizione del morto. La situazione delle persone in lutto appare dunque parallela a quella del defunto: anch'esse sono costrette ai margini della vita sociale, sono impure e contaminante quanto il cadavere stesso. Dal momento che i familiari costituiscono una minaccia per la comunità, essa, attraverso 'speciali prescrizioni' e 'numerosi tabu', tutela il loro isolamento dalla vita comunitaria, arginando il pericolo che, per loro tramite, il cadavere potrebbe caoticamente diffondere. Con il trascorrere del tempo la salma si modifica, perdendo progressivamente i suoi poteri nefasti; parallelamente l'impurità delle persone in lutto si attenua sino a scomparire con la sepoltura finale delle ossa. Profondamente influenzato dall'opera di Hertz, anche l'antropologo A. van Gennep (1909) insiste sul carattere marginale dello stato di chi ha perduto una persona cara. Egli descrive il lutto come stato liminale, durante il quale i parenti del defunto rappresentano una società a sé, situata tra il mondo dei vivi da una parte e quello dei morti dall'altra. Lo stato marginale a cui i parenti accedono alla morte di un loro congiunto comporta una 'interruzione' della vita sociale, proporzionale, per rigore e durata, alla prossimità al defunto e alla posizione sociale di quest'ultimo. Tanto per Hertz quanto per van Gennep lo stato luttuoso è dunque il corrispettivo per i sopravvissuti dello stato intermedio che il defunto attraversa tra il momento della morte e quello della resurrezione. L'esistenza di questo stato permette alla comunità di ristrutturare i propri schemi cognitivi: l'attività collettiva (svolta soprattutto, ma non esclusivamente, dai familiari) che si esercita sul corpo del defunto contribuisce sia all'elaborazione del lutto sia all'accettazione della morte, tanto a livello delle coscienze individuali quanto sul piano delle rappresentazioni collettive. Il lutto in quanto stato o situazione è dunque identificabile attraverso determinate coordinate spaziotemporali che variano da una società all'altra, ma anche all'interno della stessa società, in relazione allo status del defunto. La cultura determina il tempo del lutto, i suoi ritmi e i luoghi preposti alle attività del cordoglio; impone una temporanea sospensione delle relazioni sociali normali e l'assunzione, da parte di coloro che ne sono coinvolti, di modelli di comportamento e ruoli alternativi rispetto a quelli ordinari.
2. Il lutto come processo psicologico Lo storico ed etnologo italiano E. De Martino (1958) ha interpretato l'aspetto simbolico e rituale del lutto come supporto del lavoro psicologico individuale, teso a superare la crisi emozionale che la scomparsa di un congiunto inaugura. I rituali del cordoglio non sono, beninteso, una spontanea espressione dello strazio individuale; come ogni forma rituale essi implicano un'attività collettiva e codificata: la creatività e la libera espressione sono ammesse unicamente all'interno di un modello prefissato. De Martino definisce la 'crisi del cordoglio' accostandola alla 'crisi della presenza', concetto che aveva formulato nelle opere dedicate al magismo per alludere alla destorificazione che può essere messa in atto come tentativo di superare i momenti critici dell'esistenza. Nella crisi la presenza corre il rischio di perdere sé stessa come potenza oggettivante e il proprio mondo come risultato dell'oggettivazione. Sebbene il rischio di una tale crisi non possa mai dirsi definitivamente superato, esso è, secondo De Martino, tanto maggiore quanto più precarie sono le condizioni esistenziali e le possibilità di controllo sull'ambiente. Nei contesti socioculturali meno sviluppati le situazioni critiche, che mettono a repentaglio la vita umana, sono evidentemente maggiori; carestie, epidemie e simili catastrofi naturali accrescono la possibilità del crollo esistenziale derivante dal conflitto tra la necessità di dover agire e l'inadeguatezza all'azione. La vita magico-religiosa supplisce all'impossibilità di controllo tecnico degli eventi: protegge la realtà dalla destorificazione, inscrivendola nell'ordine metastorico del mito, che viene attualizzato attraverso l'adozione dei comportamenti rituali. Come accade in tutte quelle situazioni in cui l'uomo è incapace di affrontare la storicità degli eventi e di attribuirvi un senso, alla morte di un individuo le persone che gli erano legate rischiano di non sopravvivere, di perdere sé stesse e il proprio mondo, di morire prima che la morte naturale sopraggiunga. Nella crisi irrisolvente del cordoglio si perdono la dimensione del reale e la possibilità di inserirsi in esso con azioni appropriate. La definizione che De Martino presenta della crisi del cordoglio riecheggia le considerazioni freudiane di Lutto e melanconia (1917); egli però non intende occuparsi del lavoro del lutto e della melanconia in quanto 'malattie', bensì delle forze che la cultura predispone per permettere all'uomo di superare l'evento luttuoso e, in particolare, quella che nel mondo antico mediterraneo costituisce la più importante di queste forze: il lamento funebre rituale che ha luogo durante la veglia del morto. Il lamento è 'una determinata tecnica del piangere', un modello di comportamento culturalmente fondato, conservato dalla tradizione per mantenere accessibili i valori che la crisi del cordoglio rischia di compromettere. Il lamento consiste di brevi versi senza rima, i quali vengono cantati da un gruppo di donne con una melodia che varia da località a località; i versetti sono accompagnati da una mimica precisa: la lamentatrice si scioglie i capelli, ondeggia ritmicamente con il corpo a destra e a sinistra e gesticola con le mani. Il canto consiste per lo più di formule stereotipate attraverso le quali si glorifica il morto e si lamenta la sventura dei sopravvissuti. Anche quando i versi accolgono ricordi individuali e registrano i mutamenti di scena della lamentazione (per es. segnalando i nomi di coloro che vengono a rendere visita al morto) la stereotipia resta prevalente. De Martino sottolinea che il dolore della perdita e le conseguenze critiche per la presenza derivanti dallo 'strazio naturale' vengono riplasmate mediante il rito che ne autorizza l'espressione in forma protetta. Tanto la documentazione storica quanto i dati etnografici relativi ai 'relitti folclorici' lucani testimoniano la presenza nel rito della bipolarità assenza/scarica convulsiva, caratteristica della crisi del cordoglio, che la stereotipia dei gesti permette di sbloccare. Il lamento funebre previene inoltre le fissazioni patologiche che possono derivare dalla mancata risoluzione del lavoro psicologico: delirio di negazione dell'evento, anoressia, bulimia, ritorno del morto come rappresentazione ossessiva oppure immagine allucinatoria ecc. Il pianto ritualizzato - 'piangere come si deve' - attenua l'asprezza della situazione storica reale dominata dallo strazio per la scomparsa dei propri cari, permette l'interiorizzazione della morte e la riapertura al mondo e ai valori. L'efficacia del rito, che accoglie e dà forma al cordoglio individuale in modo da ristabilire i rapporti con il mondo, riposa sull'orizzonte mitico che esso presuppone e attualizza: il lamento rituale del mondo antico mediterraneo è dominato dal 'mito del morto', ovvero dalla credenza che vi sia una fase intermedia tra la condizione dei vivi e quella dei morti attraverso la quale il defunto deve transitare. Il passaggio del 'cadavere vivente' da una forma di esistenza all'altra avviene grazie ai riti del lutto. Ecco dunque che la lamentazione non costituisce esclusivamente un supporto emotivo per i vivi, ma permette al defunto di raggiungere la sua definitiva dimora, di mutarsi da potenza tendenzialmente ostile, quali sono i cadaveri senza sepoltura, in alleato benefico. 3. L'obbligatorietà dei segni del lutto Abbiamo visto, attraverso l'analisi di De Martino, come l'attività rituale connessa al cordoglio possa essere interpretata quale supporto alla crisi emozionale che la morte induce in ogni società. D'altra parte, lo studio dei riti e del simbolismo del lutto può essere condotto prescindendo, in qualche misura, dalla dimensione psicologica profonda. M. Mauss (1921) osserva che, nel corso dei riti funebri australiani, le grida, i lamenti e le lacrime versate per il morto non sono un'espressione spontanea di dolore, un modo per tradurre 'la paura, o la collera, o la pena', ma espressioni codificate e obbligatorie, ove la quantità, il ritmo e le modalità sono determinate dalla tradizione. Mauss sottolinea inoltre che soltanto alcuni tra i parenti del defunto danno sfogo alle lacrime e alle altre manifestazioni di cordoglio: mentre le funzioni religiose spettano interamente agli uomini, i funerali sono riservati alle donne, e non a tutte quelle che hanno con il defunto una relazione 'di fatto'; gli oneri del lutto vengono determinati da particolari relazioni 'di diritto'. Coloro che piangono ne sono incaricati da codici che fissano, in modo preciso, la divisione del lavoro religioso. Si tratta di una simbolica che non esclude la sincerità, ma condiziona la realtà fisiologica e psichica dei sentimenti. Analizzando il lutto nella Cina feudale, M. Granet (1922) non si limita come Mauss alle sole espressioni orali (il mondo cinese imponeva il silenzio a coloro che portavano il lutto), ma ne considera i gesti e gli indicatori simbolici, i quali vanno dalle vesti all'alimentazione, dalle pratiche di emaciazione alla costruzione delle dimore temporanee per i congiunti del defunto. Alla morte di un individuo, i parenti accorrevano presso la sua dimora dove si ritiravano, ciascuno singolarmente, in apposite capanne. Quella del figlio designato come successore veniva costruita a ridosso delle mura della casa familiare; era fatta di sterpaglie e sprovvista di stuoie. Il secondo anno di lutto veniva trascorso in una casa in terra battuta dotata di una stuoia per dormire. Soltanto nel terzo anno le mura della capanna venivano intonacate e imbiancate ed era inoltre consentito servirsi di un letto. Per tre anni il successore del defunto viveva isolato nella sua capanna; in una condizione analoga a quella del morto nella sua bara, non poteva ricevere ospiti, accettare doni, esercitare pubbliche funzioni. L'afflitto vestiva abiti di tessuto a trama larga. Il numero di fili dell'ordito della stoffa segnalava la 'classe' del suo lutto (derivante dalla prossimità al defunto) e le obbligazioni che vi corrispondevano: il lutto di prima classe ammetteva che egli rispondesse alle domande solo con un gesto; quello di seconda consentiva una risposta orale, ma non che si parlasse per primi; la terza classe autorizzava a parlare, ma non a prendere parte alle discussioni; da ultimo, lutti di quarta e di quinta classe permettevano di discutere, ma senza mostrare piacere. L'alimentazione dei familiari era rigidamente controllata, la procedura richiedeva che essi fossero indeboliti proporzionalmente al grado di parentela e al momento del lutto. La comunità sorvegliava il digiuno (erano i vicini a preparare e a portare il cibo agli afflitti), in modo tale che non vi fossero eccessi in alcun senso. Oltre all'alimentazione, le pratiche di emaciazione comprendevano la proibizione di lavarsi la testa e il corpo. Gli abiti, la sporcizia, il rigore del digiuno, il silenzio si sommavano alle manifestazioni positive di afflizione attraverso le quali si attuava 'la messa in scena' del dolore della famiglia: le lamentazioni, i contatti con il cadavere e i gesti erano regolati - per intensità, ritmo e quantità - dalle convenzioni sociali. Anche Granet osserva che l'espressione del dolore non era un semplice riflesso degli stati psicofisiologici individuali, la cui disordinata manifestazione veniva all'opposto percepita come un marchio di inciviltà, ma una simbolica di cui i rituali fissavano le regole. Era il cerimoniale che prescriveva i sentimenti. 4. Senso e funzione del lutto Si è visto come l'analisi antropologica possa mettere in rilievo le modalità di simbolizzazione (attraverso il rito o il mito) della morte e dell'organizzazione sociale che contraddistinguono lo stato luttuoso. D'altra parte, essa può chiedersi, enfatizzando la rilevanza della dimensione psicologica, che cosa le prescrizioni positive e le restrizioni del lutto facciano per l'individuo. Infine, osservando i segni obbligatori del cordoglio, l'antropologia si pone degli interrogativi sul loro significato. Le forme espressive stereotipate, i vincoli e le prescrizioni rappresentano ‒ come hanno sostenuto Mauss e Granet ‒ 'espressioni capite' dal gruppo, 'parole' e 'frasi' attraverso le quali viene manifestato molto più che il dolore; il loro contenuto rinvia alle credenze, ai valori condivisi e all'ordine comunitario. L'antropologia del lutto presuppone sia un'analisi dei significati che sono incorporati dai simboli, sia la loro correlazione con i processi psicologici e sociali: consiste dunque simultaneamente in una interrogazione sul senso e sulla funzione dei riti del cordoglio. I funerali dei merina del Madagascar (Bloch 1982) ci permettono di illustrare ulteriormente come i riti del lutto non siano soltanto finalizzati a esprimere il dolore e a risolvere l'angoscia individuale oppure collettiva, ma costituiscano piuttosto un momento fondamentale della creazione (e non semplicemente della rappresentazione) dell'ordine sociale. Il linguaggio del dolore viene impiegato per organizzare la vita sociale legittimando i valori che la sorreggono. Tra i merina, due sono gli elementi dominanti del cordoglio: il dolore e l'impurità. Gli obblighi del lutto riguardano in particolare le donne, le quali devono esprimere la volontà di morire, cercare di ferirsi, abbandonare le cure della propria persona e, prima della sepoltura, gettarsi sulla salma con l'intento di prendere su di sé l'impurità del cadavere. Le pratiche di automortificazione che accompagnano la prima sepoltura associano drammaticamente le donne al cadavere, all'impurità, all'individualità della tomba, un fatto curioso dal momento che, nella vita quotidiana, esse non vengono percepite come elementi di divisione del gruppo (i matrimoni sono almeno idealmente endogamici). Il lutto trasforma le donne in simbolo negativo dell'unità. Associate al dolore e all'impurità della decomposizione, esse diventano emblema dell'individualità che mina l'ordine e la continuità sociale. Il lutto è l'artefice di questa trasformazione, al fine di accrescere l'efficacia simbolica del controllo esercitato su di esse dagli uomini nel corso della seconda sepoltura. La vittoria dell'ordine, idealmente costituito dall'unità della tomba, può essere rappresentata soltanto dopo che le donne hanno assunto su di sé l'impurità del cadavere e della decomposizione, dopo che l'elemento individuale è stato isolato e catalizzato su alcuni membri della comunità (in questo caso i membri di sesso femminile). Tra il senso del lutto e la sua funzione può non esserci una perfetta corrispondenza, cosicché il rituale sembra avere, in alcuni casi, una resistenza più tenace ai processi di trasformazione che coinvolgono i sistemi di credenze. De Martino, per es., analizzando il già ricordato lamento funebre lucano lo descrive come un relitto folclorico che, se da un lato presenta una profonda isomorfia con il pianto rituale antico (così come esso appare attraverso la documentazione storica), dall'altro risulta svincolato dall'orizzonte mitico che quest'ultimo presupponeva. Tra i dati etnografici raccolti in Lucania non vi è traccia del mito del morto. Mentre il pianto rituale antico che accompagnava il cadavere vivente nella sua transizione al mondo dei morti costituiva il supporto tecnico della sua reintegrazione, il lamento funebre lucano ha perso il rapporto con l'ordine mitico dell'antichità mediterranea. Nondimeno esso continua a sopravvivere e a mantenere una sua efficacia in rapporto alla risoluzione della crisi del cordoglio. Svuotato del suo contenuto mitico, il rito non smette di parlare del dolore, dei suoi rischi e delle relazioni sociali che permettono di trascenderlo. 5. Morte e costruzione sociale delle emozioni Di fronte all'infinita varietà delle espressioni di lutto e al contrasto tra manifestazioni di strazio cruente e rigoroso autocontrollo, sembra legittimo interrogarsi sulla relazione tra il dolore della morte e le espressioni che la cultura prescrive, il modo in cui la società, con le sue norme espressive, può condizionare la realtà dei sentimenti. Secondo Bloch, i merina non fanno molta distinzione tra la sincerità dei sentimenti individuali e le espressioni convenzionali del cordoglio: le emozioni private e la loro pubblica espressione appaiono complementari. Non si tratta semplicemente di un problema di sincerità, ma piuttosto del rapporto tra codici espressivi ed esperienza, tra concetti che i simboli funebri veicolano e gli stati d'animo da essi prodotti. Secondo l'ortodossia psicologica, le emozioni sono processi biopsicologici profondi e universali che mantengono un sostrato costante, non condizionato dall'ambiente socioculturale. Nel caso specifico, lo strazio e il lavoro del lutto, con il suo andamento oscillatorio tra negazione e accettazione dell'evento, dovrebbero dunque essere universali. In anni recenti, l'antropologia ha incominciato a occuparsi delle emozioni; al centro del suo interesse non sono tanto i processi profondi o le manifestazioni fisiologiche che li accompagnano, quanto piuttosto i 'discorsi', le forme simboliche attraverso le quali le emozioni vengono manifestate, descritte e controllate. I concetti delle emozioni riprendono motivi culturali esterni e riflettono, da un punto di vista ideologico, le forme delle relazioni sociali (Language and the politics of emotions 1990). Dai casi etnografici che in precedenza abbiamo preso in considerazione appare che spesso i riti del lutto comportano una precisa divisione del lavoro religioso tra individui di sesso maschile e femminile: le donne merina si gettano lamentandosi sul cadavere, piangono, ricevono i visitatori sedute su cumuli di spazzatura; le donne australiane gridano e si lamentano, in un'esplosione di collera lanciano invettive contro lo spirito maligno che ha causato la morte; al contrario in Cina sono i figli maschi a sottostare ai più gravosi obblighi del lutto (che sono parte essenziale dei riti di successione dai quali donne e bambini sono rigorosamente esclusi). Le espressioni di dolore riflettono le relazioni uomo/donna ma esse, come nel caso dei merina, possono anche trasformarle con l'intento di creare l'ordine sociale. Esiste dunque un rapporto dinamico tra emozioni - o piuttosto espressioni, concetti delle emozioni - e cultura. La concezione della morte, la divisione sociale del lavoro del lutto e la valutazione culturale delle emozioni plasmano i sentimenti, moderandoli o eccitandoli a seconda delle circostanze. La letteratura antropologica riferisce tanto di contesti quanto di situazioni ove l'espressione del dolore per la morte è assolutamente bandita: le ragioni possono essere ricondotte alle circostanze particolari in cui è avvenuto il decesso (per es. nei casi di morte sacrificale), oppure alla rappresentazione della morte come parte della vita, uno dei passaggi attraverso cui l'individuo transita nel corso della propria esistenza. Mauss sosteneva che è mediante una simbolica codificata che gli individui, mostrandoli agli altri, manifestano a sé stessi i propri sentimenti. I modelli comportamentali, come pure i codici espressivi e le norme che ordinano l'esperienza sociale danno così forma e senso alle reazioni emotive individuali.
bibl.: p. ariès, L'homme devant la mort, Paris, Éditions du Seuil, 1977 (trad. it. L'uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1980); m. bloch, Death, women and power, in Death and the regeneration of life, ed. M. Bloch, J. Parry, Cambridge, Cambridge University Press, 1982, pp. 211-30; j. bowlby, Attachment and loss, 3 voll., London, Hogarth, 1969-80 (trad. it. 3 voll., Torino, Boringhieri, 1975-83); e. de martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino, Boringhieri, 1958; s. freud, Trauer und Melancholie, "Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse", 1917, 4, 6, pp. 288-301 (trad. it. in id., Opere, 8° vol., Torino, Boringhieri, 1976, pp. 102-18); m. granet, Le langage de la douleur d'après le funéraires de la Chine classique, "Journal de Psychologie", 1922, 19, pp. 97-118 (trad. it. in m. granet, m. mauss, Il linguaggio dei sentimenti, Milano, Adelphi, 19872, pp. 15-39); r. hertz, Contribution à une étude sur la représentation de la mort, "L'Année Sociologique", 1907, 10, pp. 48-137 (trad. it. in id., La preminenza della destra e altri saggi di antropologia, Torino, Einaudi, 1994, pp. 53-136); m.j. horowitz, A model of mourning. Change in schemas of self and other, "Journal of the American Psychoanalytical Association", 1990, 38, 2, pp. 297-324; Language and the politics of emotions, ed. C.A. Lutz, L. Abu-Lughod, Cambridge, Cambridge University Press, 1990; j. laplanche, Vie et mort en psychanalyse, Paris, Flammarion, 1970 (trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1992); m. mauss, L'expression obligatoire des sentiments (rituels oraux funéraires australiens), "Journal de Psychologie", 1921, 18, pp. 425-38 (trad. it. in m. granet, m. mauss, Il linguaggio dei sentimenti, Milano, Adelphi, 19872, pp. 3-13); Le separazioni nella vita. Aspetti psicologici e spirituali, a cura di S. Spinsanti, Assisi, Cittadella, 1985; l.v. thomas, Les rites funéraires, Paris, Payot, 1985; a. van gennep, Les rites de passage, Paris, Nourry, 1909 (trad. it. Torino, Bollati Boringhieri, 19922).