Nel 1904 Halford Mackinder, geografo britannico, presentava alla Royal Geographic Society un saggio dal titolo The Geographical Pivot of History (Il perno geografico della storia). Nell’esordio, Mackinder decretava la conclusione della lunga era delle scoperte geografiche che segnava la fine della spartizione del mondo tra le potenze coloniali: il sistema politico internazionale era tornato dunque a chiudersi, ma a differenza dall’epoca pre-1492 non comprendeva più soltanto l’Europa e gli attori limitrofi, bensì l’intero globo terrestre. Alle grandi potenze non restava dunque che contendersi spazi già occupati: ovunque fosse avvenuta, l’espansione territoriale diveniva così un gioco a somma zero.
Mackinder immaginava un mondo in cui il potere è distribuito in maniera disomogenea nello spazio, secondo criteri macrogeografici. Egli postulava dunque l’esistenza di un ‘perno geografico’, ovvero di una regione del mondo che, ospitando una quantità sproporzionata di materie prime inaccessibili alle potenze marittime, avrebbe conferito alla potenza continentale che riuscisse a controllarla un vantaggio potenziale incolmabile rispetto a chi ne fosse escluso. Il progredire dei sistemi ferroviari avrebbe d’altra parte consentito di rendere effettivo tale vantaggio, capovolgendo in favore delle potenze continentali il divario sul controllo delle rotte di comunicazione, fino ad allora appannaggio delle potenze marittime. La teoria geopolitica di Mackinder appiattisce così la strategia sulla geografia: ogni zona del mondo occupa una certa rilevanza strategica in conseguenza della sua posizione nello spazio. Per identificare il ‘perno geografico’ del mondo Mackinder si concentra sull’Eurasia: le zone di cui esso si comporrebbe sarebbero l’Europa orientale, l’entroterra russo e l’Asia centrale, regioni eterogenee ma contigue, che qualche anno più tardi egli stesso raccoglierà sotto il nome di ‘heartland’. Seguono poi aree disposte concentricamente rispetto allo heartland, di importanza decrescente in misura della loro distanza dal ‘cuore’ del sistema-mondo.
Il saggio di Mackinder, sebbene oggetto di forti critiche sin dalla data della sua pubblicazione, ha rapidamente raccolto vasti consensi tra gli accademici, i politici e gli strateghi militari europei e mondiali, ed è oggi considerato uno dei capisaldi della teoria geopolitica.
Dall’inizio del 21° secolo, in Uzbekistan le élites intellettuali e militari hanno dato avvio a una vera e propria riscoperta e attualizzazione del lascito teorico del geografo inglese. Il rispolvero delle sue tesi, vecchie di oltre un secolo, appare tuttavia più strumentale che reale. Utile, in primo luogo, ad ammantare di classicità la politica estera uzbeka e a semplificarne gli obiettivi in poche, semplici massime - prima tra tutte quella che prescrive di tentare di imporre la propria egemonia, se non politica quantomeno culturale, su una regione ricca di risorse naturali e oggi fondamentale sia per Mosca, sia per Pechino. Funzionale, in secondo luogo, a procrastinare il mito della rilevanza globale di una regione, quella dell’Asia centrale, cui gli stessi Stati Uniti dell’epoca Bush hanno guardato con limitato interesse, concentrandosi piuttosto - e per motivi non solo o non tanto geopolitici - su un’area vicina ma notevolmente diversa, vale a dire quell’Asia meridionale che abbraccia Iran, Afghanistan e Pakistan.