MACULANI, Gaspare, detto il Firenzuola
Nacque a Fiorenzuola d'Arda (lat. Florentiola) nel Piacentino l'11 sett. 1578 da Vincenzo e Fiorenza Cogni. Il padre, nobile e notaio, era esattore delle collette della Comunità.
A sedici anni, il M. vestì l'abito domenicano a Pavia e prese il nome di Vincenzo. Terminati gli studi a Bologna come lettore in teologia, insegnò in vari luoghi e fu priore del convento di S. Croce di Bosco presso Alessandria. Nel dicembre 1623 fu chiamato a Roma come "socio" del commissario del S. Uffizio; l'anno seguente fu nominato inquisitore di Pavia e ricevette il titolo di maestro in teologia.
Alla carriera inquisitoriale il M. affiancò l'attività di architetto militare, alla quale si dedicarono ugualmente il fratello Cesare (n. 1571) e forse il padre. Egli profuse il suo impegno nell'ispezionare le opere di difesa e nell'esprimere valutazioni intorno ai provvedimenti da assumere e ai lavori in corso. Nell'aprile 1625 partecipò al consolidamento del castello di Piacenza. Nel luglio dello stesso anno visitò alcune fortificazioni della Repubblica di Genova, dove nel 1626 soggiornò per un mese con il permesso speciale del papa Urbano VIII, e scrisse una Relazione sui lavori da eseguire per proteggere la città e il suo territorio. Conteso fra la Repubblica e il duca di Parma, il M. fu nominato inquisitore di Genova nell'ottobre 1627, succedendo a Eliseo Masini, morto pochi mesi prima. Poté così dare un contributo alla direzione dell'ampliamento delle fortificazioni cittadine. Il 10 ott. 1629 fu chiamato a Roma da Urbano VIII come procuratore dell'Ordine domenicano, ma tornò a Genova nel 1632 per ispezionare le costruzioni realizzate nel frattempo.
Alla carica di procuratore dell'Ordine, si aggiunse quella di vicario del maestro generale Niccolò Ridolfi, che si trovava in Francia in visita alle province domenicane. Sostenuto dai frati ostili all'imposizione dell'osservanza e spalleggiato da Urbano VIII che gli aveva conferito la carica nell'agosto 1631, il M. occupò gli appartamenti del generale nel convento di S. Maria sopra Minerva e prese decisioni opposte alla politica del Ridolfi che, rientrato a Roma nell'autunno 1632, chiese al papa di scegliere fra la destituzione del M. e la propria. Perduta in tal modo la carica di vicario, il M. succedette nel dicembre 1632 al commissario del S. Uffizio Ippolito Maria Lanci, che aveva già sostituito nel 1629 durante una sua indisposizione.
Si è molto discusso sul ruolo che il M. ebbe nel processo di Galileo Galilei. I documenti conservati e la conoscenza del funzionamento della congregazione del S. Uffizio permettono di disporre di alcuni elementi certi. Benché il M. fosse stato presente alle sedute del tribunale romano dal 1629 come consultore in quanto era vicario del generale domenicano, accedette alla carica di commissario solo dopo l'apertura del processo, decretata da Urbano VIII il 23 sett. 1632. Fedele creatura dei Barberini, orientò il processo nel senso voluto dai "padroni", tendendo a minimizzare il più possibile il ruolo del maestro del Sacro Palazzo Niccolò Riccardi nella concessione dell'imprimatur che figurava nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (Firenze 1632). Il 12 apr. 1633, nel primo e unico costituto del filosofo toscano, il M. incentrò l'interrogatorio sull'infrazione del precetto ricevuto da Galileo nel febbraio 1616, evitando di elucidare quali fossero le responsabilità rispettive nell'iter complesso che aveva condotto al permesso di stampa. Il 22 aprile il M. informava il cardinale Francesco Barberini che gli esperti da lui riuniti avevano accertato l'infrazione del precetto e la probabile adesione di Galileo alla dottrina copernicana. Dati i dolori muscolari che affliggevano l'imputato e la sua grave età, auspicava un rapido esito della causa, reso tuttavia difficile dal persistere di Galileo nel negare di aver sostenuto l'eliocentrismo nel Dialogo. Ricevute le debite istruzioni, il M. riuscì a convincere il filosofo nel corso di una conversazione privata ad ammettere parzialmente il delitto, senza confessare l'effettiva adesione all'eliocentrismo, evitando così l'abiura per eresia formale. Il 30 aprile ricevette in forma giudiziaria la deposizione di Galileo e ne accolse le difese il 10 maggio. Il tentativo dell'imputato di rimettere in gioco la responsabilità di Riccardi restò senza seguito e, sulla base di un'istruzione assai sommaria del processo, Urbano VIII poté condannare Galileo all'abiura per "veemente sospetto d'eresia" il 16 giugno 1633. Effettuato l'esame dell'intenzione dell'imputato, con semplice minaccia della tortura il 21 giugno 1633 il M. ne ricevette l'abiura il giorno seguente, durante la seduta della congregazione nel convento della Minerva. È probabile che il M. sia il redattore del testo della sentenza di condanna e dell'abiura di Galileo, non solo perché tale compito gli toccava d'ufficio, ma anche perché questi testi riproducono l'orientamento dato dal commissario al processo, suggerendo che le decisioni dottrinali del 1616 erano sufficienti a una condanna e facendo ricadere l'intera colpa sull'imputato che aveva "arteficiosamente, e calidamente estorta" la licenza di stampa del Dialogo. È nota l'importanza dei due testi che d'ordine di Urbano VIII dovevano essere resi noti, tramite gli inquisitori e i nunzi, a tutti i filosofi e matematici, e che furono diffusi in Europa e pubblicati, negli anni successivi, in francese, italiano e latino, dando origine alla celebre affaire.
Alla morte del maestro del Sacro Palazzo Riccardi, nel 1639, il M. fu scelto da Urbano VIII per occupare l'alto ufficio. Nel commentare l'avvenimento nel giugno di quell'anno, Gabriel Naudé scrisse che il domenicano era "homme plus versé ès fortifications qu'en matière de théologie ou de saint Office, quoiqu'il en soit maintenant commissaire" (Lettres) e nondimeno aveva acquisito una posizione prestigiosa alla corte pontificia, godendo di rendite annuali ammontanti a 12.000 scudi.
Entrato stabilmente nelle grazie dei Barberini, il M. lavorò in quegli anni alla fortificazione di Castel Sant'Angelo e all'edificazione delle mura urbaniane sul Gianicolo. Nel 1638, fu incaricato di esprimersi in merito ai progetti di rinforzo delle difese di Malta e nel 1639 era a Ferrara per ispezionarne le fortificazioni.
Creato cardinale nella promozione del 16 dic. 1641, il M. fu preconizzato arcivescovo di Benevento il 13 genn. 1642 e ricevette il titolo cardinalizio di S. Clemente il 10 febbraio. Soggiornò alcuni mesi nella diocesi, poi rientrò a Roma, non senza essersi assicurato la rendita di 4500 scudi su una mensa episcopale di circa 6000. Figura importante della fine del pontificato di Urbano VIII, fu parte attiva nei maneggi che condussero all'incarcerazione e poi alla deposizione del maestro generale dell'Ordine domenicano Ridolfi durante il capitolo di Genova, nell'ottobre 1642. All'inimicizia del M., risalente agli anni in cui era stato vicario dell'Ordine, si aggiungeva la volontà di difendere il partito ostile all'osservanza e di far accedere al generalato il nipote Prospero Bagarotti, del quale aveva già promosso la carriera di inquisitore, favorendone poi l'elezione a provinciale di Lombardia.
Papabile al conclave del 1644 come candidato di riserva dei Barberini, il M. si urtò contro l'ostilità della Francia e soprattutto dell'assessore del S. Uffizio Francesco Albizzi. La loro rivalità risaliva al periodo nel quale occupavano le cariche di ufficiali superiori della congregazione, rispettivamente come commissario e come assessore, e si era inasprita allorquando l'Albizzi, spinto dai gesuiti a preparare la bolla In eminenti contro l'Augustinus di Giansenio, aveva fatto di tutto per tenere a distanza il M., a cui facevano capo i domenicani ostili a una condanna. Al conclave che vide l'elezione di Innocenzo X, l'Albizzi fece circolare la voce che il cardinale domenicano avesse subito un processo d'Inquisizione e che, se fosse stato eletto pontefice, avrebbe cassato la bolla contro Giansenio e deciso le controversie sulla grazia e sull'Immacolata concezione nel senso auspicato dal suo Ordine.
Camerario del S. Collegio nel 1652, membro della congregazione del S. Uffizio, il M. si oppose a nuove misure contro il giansenismo, ma l'assessore Albizzi lo escluse abilmente dalla commissione speciale incaricata di preparare la bolla Cum occasione, che nel 1653 condannava cinque proposizioni di C. Giansenio.
Al conclave del 1655, l'Albizzi, ormai cardinale, ripeté le accuse contro il papabile domenicano, avversato ugualmente da Olimpia Maidalchini, della quale il M. aveva favorito l'allontanamento dalla corte pontificia. Poco si sa dell'attività dell'anziano cardinale durante il pontificato di Alessandro VII, al quale sembra aver consigliato la moderazione nella querelle giansenista.
Negli ultimi anni di vita, il M. si ritirò nella sua villa vicina al convento di S. Sabina a Roma, dove morì il 15 febbr. 1667. Secondo le sue volontà, fu sepolto modestamente nella basilica di S. Sabina, dove una lapide fu posta solo nel 1744 su iniziativa della famiglia.
Fonti e Bibl.: Lettere del M. sono conservate in Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della fede, St. st. N.3.f; Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 6468; Genova, Biblioteca universitaria, B.VIII.4: T. de Augustinis, Elenchica synopsis, c. 219; Edizione nazionale delle opere di G. Galilei, a cura di A. Favaro, Firenze 1890-1909, ad ind.; G. Naudé, Lettres à Jacques Dupuy (1632-1652), a cura di Ph. Wolfe, Edmonton 1982, p. 76; A. Schiaffino, Memorie di Genova, 1624-1627, a cura di C. Cabella, in Quaderni di Storia e Letteratura, 1996, n. 3; V. Marchese, Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani, II, Bologna 1879, pp. 459-475; E. Ottolenghi, Fiorenzuola e dintorni. Notizie storiche, Fiorenzuola d'Arda 1903, pp. 449-465; A. Mortier, Histoire des maîtres généraux de l'Ordre des frères prêcheurs, VI, 1589-1650, Paris 1913, ad ind.; I. Taurisano, Hierarchia Ordinis praedicatorum, Romae 1916, ad ind.; G. Galli, Il card. M. al processo di Galileo, in Memorie domenicane, n.s., XLI (1965), pp. 24-42, 65-101, 145-175; L. Ceyssens, Le cardinal François Albizzi (1593-1684). Un cas important dans l'histoire du jansénisme, Romae 1977, ad ind.; F. Beretta, Un nuovo documento sul processo di Galileo Galilei. La lettera di V. M. del 22 apr. 1633 al cardinale Francesco Barberini, in Nuncius, XVI (2001), pp. 629-641; Id., Rilettura di un documento celebre: redazione e diffusione della sentenza e abiura di Galileo, in Galilaeana, I (2004), pp. 91-115.