Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Bruno Maderna, Luigi Nono e Luciano Berio, nell’ambito dell’avanguardia internazionale, rappresentano da mezzo secolo la punta di diamante della “scuola italiana”, che essi incarnano per la chiarezza delle loro scelte poetiche, benché queste abbiano dato vita a composizioni spesso di segno assai divergente.
Jean-François Lyotard
Pluralità postmoderna e declino delle metanarrazioni
La pragmatica sociale non ha la “semplicità” di quella scientifica. È un mostro formato dalla embricazione di reti, di classi, di enunciati eteromorfi (denotativi, prescrittivi, performativi, tecnici, valutativi, ecc.). Non vi è alcun motivo di pensare che sia possibile determinare metaprescrizioni comuni a tutti questi giochi linguistici e che un consenso rivedibile, come quello che regna in un dato momento nella comunità scientifica, possa comprendere l’insieme delle metaprescrizioni che regolano il complesso degli enunciati che circolano nella collettività. È anche all’abbandono di questa credenza che è legato l’attuale declino delle narrazioni legittimanti, siano esse tradizionali o “moderne” (emancipazione dell’umanità, divenire dell’Idea). È parimenti la perdita di questa fede che l’ideologia del “sistema” si appresta ad un tempo a colmare con la sua pretesa totalizzante e ad esprimere col cinismo del suo criterio di performatività.
J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1982
Nel largo ventaglio delle opzioni stilistiche del secondo dopoguerra, Bruno Maderna (1920-1973), Luigi Nono (1924-1990) e Luciano Berio (1925-2003) sono tre grandi protagonisti della musica d’avanguardia: essi si orientano senza esitazione verso la “via italiana alla serialità” con la sfumatura “umana” già indicata da Luigi Dallapiccola, e della furia ascetica del momento strutturalista colgono soltanto le valenze rivolte verso un maggiore rigore compositivo, che però non perde mai di vista il raggiungimento degli obiettivi dettati da un’istanza etica profondamente radicata. Un altro tratto che li accomuna è la fiducia nella musica (e nell’uomo), che, detta con le parole di Berio, suona così: “non esiste crisi nella musica ed è da dubitare che sia mai esistita; esistono solo opere che sono o non sono significative e persone più o meno educate alla loro assimilazione”. Alla fiducia nella musica si collega, quale indispensabile corollario, la disposizione disinibita verso qualsiasi operazione che attenga al comporre: nell’elenco delle composizioni di tutti e tre i Maestri si trovano opere di taglio, livello comunicativo e dispositivi sonori assolutamente diversi, ma in nessun caso si possono rilevare forme di abdicazione passiva al “materiale”, che, al contrario, essi hanno sempre teso ostinatamente a plasmare con tanta maggiore forza di fantasia e capacità artigianale quanto più esso si presenta complesso e ostile.
Maderna-Nono-Berio, un’altra triade che rimarrà nella storia, come Haydn-Mozart-Beethoven e Schönberg-Berg-Webern, ferma restando la personale fisionomia di ciascuno.
A dieci anni dalla morte del compositore si celebra l’apertura dell’“Archivio Maderna” presso l’Università di Bologna con una serie di manifestazioni dal titolo Le profezie di Bruno. Negli anni Ottanta, infatti, i primi studi portano lentamente alla luce opere rimaste offuscate dalla sua fama come direttore d’orchestra e gli studiosi scoprono con sorpresa quanto futuro c’era già nella musica di Maderna degli anni Cinquanta e Sessanta. Dopo vent’anni di studio e di esecuzioni il titolo non sarebbe più del tutto appropriato, in quanto quelle opere si sono dimostrate in se stesse delle realizzazioni compiute e non solo delle profezie di ciò che sarebbe accaduto in seguito. Si pensi, ad esempio, alla creazione dello Studio di Fonologia presso la RAI di Milano, che vide Maderna attivo insieme a Berio e a un ristretto gruppo dell’intellighenzia milanese (Roberto Leydi, Luigi Rognoni, Piero Santi, Alberto Mantelli); è all’inizio un tentativo, poi diventa la fondazione della musica elettronica italiana, ma è anche il luogo in cui nasce Don Perlimpin, commedia amorosa su testo di García Lorca, un piccolo capolavoro dove si sperimentano tecniche di vario tipo e si prova con successo la forza comunicativa del mezzo radiofonico. Alla comunicazione col pubblico, infatti, Maderna non vuole mai rinunciare e la affida soprattutto al suono dei suoi strumenti prediletti: l’oboe, per il quale scrive tre concerti, e il flauto che, suonato da Severino Gazzelloni, diventa la personificazione non solo di un uomo (il protagonista della pièce su testo di García Lorca), ma dell’Uomo in lotta contro la Macchina nella “Lirica in forma di spettacolo” Hyperion. L’opera, andata in scena per la prima volta a Venezia nel 1964 come sequenza di 8 quadri affidati al solista di flauti, a una cantante, a un gruppo strumentale e a suoni/rumori registrati, viene poi continuamente modificata e arricchita, non solo simbolicamente, ma di fatto, fino alla morte prematura.
Anche per Luigi Nono il titolo delle manifestazioni per il decennale della morte è significativo: Maestro di suoni e di silenzi lo definisce la mostra alla Fondazione Cini di Venezia. La via che Nono traccia con le sue opere, infatti, è una via stretta, solitaria, radicale, ai limiti polari del suono percettibile. Le composizioni, come le scelte di vita – e specialmente il credo politico sempre strenuamente difeso – rivelano un rigore incrollabile e impenetrabile, in pericoloso equilibrio fra la fragilità umana e una volontà quasi violenta. Come Maderna, anch’egli viene presentato nelle enciclopedie come uno dei maggiori compositori italiani del dopoguerra, ma la sua musica – come quella dell’amico e primo maestro – viene eseguita di rado, quasi che pochi esempi bastino a far conoscere un’opera quantitativamente molto consistente e stilisticamente assai diversificata. Chi ha voluto ascoltare bella musica italiana nel 2004, per celebrare simbolicamente l’ottantesimo compleanno di Nono, ha dovuto farsi un viaggio fino a Colonia, e lì, fra le altre opere apparse in Italia soltanto una volta come “prime assolute” in festival di musica contemporanea, ha potuto gustare nella stessa sera le Liriche greche, quelle di Dallapiccola, quelle di Maderna e quelle di Nono.
A una più ampia diffusione delle opere del compositore veneziano non si è opposta soltanto l’etichetta di “musica contemporanea”, che non può non esserci e già di per sé ha scoraggiato le istituzioni musicali, prima che il pubblico, ma ancor più quella di “musica politica” o “musica dell’impegno”, evidenti fin da titoli come Canto sospeso (1955-1956, su testi di lettere di condannati a morte della resistenza europea), Intolleranza 1960, La fabbrica illuminata (1964). Definizioni mai rinnegate, ma che hanno suonato come giudizio negativo specialmente da quando ci si è resi conto che la generosa illusione di cambiare il mondo con la forza dell’arte era definitivamente tramontata. Per Nono, invece, non c’è stato sostanziale mutamento, poiché anche in situazioni storico-sociali diverse, la ricerca sul suono affonda le sue radici nella realtà “storica” contingente, che non si può negare. Come a Darmstadt l’interpretazione storica della musica è stata la spinta per uscire dal serialismo integrale, così alla fine della vita con Das atmende Klarsein (1981) e con Prometeo. Tragedia dell’ascolto (1984) è stata la necessità etica di resistere alla logica del consumo e dell’accomodamento che lo ha guidato nella ricerca ai confini del suono.
Luciano Berio ha avuto un più ampio spazio di tempo per comporre e per far conoscere la sua musica: se facciamo cominciare il suo catalogo da Opus Number Zoo (1951) si vede bene che l’arco creativo del compositore di Oneglia si estende per più di mezzo secolo. E non solo l’atto creativo, poiché accanto al fare musica si dispiega nello stesso lasso di tempo una multiforme attività per avvicinarla a un pubblico non specialista: azione complessa che in virtù delle sue tendenze al contempo dissacratorie e ordinatrici ha trascinato il pubblico non solo italiano alla partecipazione e all’assenso. Per darne un rapido resoconto si potrebbe suddividere l’operare di Berio sincronicamente in diversi livelli (attività compositiva, didattica, organizzativa, divulgativa), oppure diacronicamente in diversi periodi: in Italia, negli Stati Uniti, in Francia, oppure ancora per generi: opere strumentali, con voce, di teatro, solistiche, elettroniche; in qualunque modo lo si voglia fare, comunque, non si potrebbero registrare fluttuazioni d’intensità espressiva, né alti-bassi nella linearità degli eventi, ma soltanto un continuo coerente crescendo che si è interrotto con Stanze (2003) e con l’inaugurazione del Parco della Musica di Roma, un epilogo in cui sembrano risuonare le parole conclusive di un’altra opera “…e questo è il nostro passaggio” (Passaggio, messa in scena di Luciano Berio ed Edoardo Sanguineti, 1961-1962). Linearità e coerenza non significano tuttavia attaccamento a un unico punto di vista; al contrario, è proprio la molteplicità dei modi di vedere il mondo con i quali Berio ama mettersi in relazione dialettica a costituire il nocciolo forte della sua complessa poetica di vita. Una sfida continua, non l’epopea di un raggiungimento. È per questo, forse, che la musica di Berio, benché più attenta alla comunicazione di quella di Nono o di Maderna (dalle trascinanti Sequenze (1958-1996) alla complessità labirintica di Sinfonia (1968), dalla solarità dei Folk Songs (1964) alle atmosfere turbate di Ofanim (1992), non è mai consolatoria: alla fine di un ascolto irto di ostacoli, l’ascoltatore resta sempre inquieto e pensoso, consapevole di aver ascoltato il proprio smarrimento esistenziale attraverso un prisma che ne proietta tutte le valenze, quelle nobili come quelle meno confessabili.