MAESTRO (lat. magister; fr. maître; sp. maestro; ted. Meister, Lehrer; ingl. master, teacher)
È termine che dal suo significato latino originario (connesso con magis, come minister con minus), che indicava colui che è superiore ad altri per potere, dignità, autorità, e che quindi comanda loro e richiede ubbidienza, rispetto, onde il termine veniva adoperato principalmente nel linguaggio militare (magister equitum, generale della cavalleria) e politico (magister morum, censore; magister scrinii, cancelliere), è passato a significare, in modo più ristretto, chi è superiore ad altri per sapere, per senno, per elevatezza morale, e che quindi può esercitare la funzione, non tanto di comandare, quanto di istruire, dirigere, governare, rimproverare, premiare e punire. Di qui venne più propriamente la figura del ludi magisier o del magister puerorum; che, nel fatto, è analogo al termine greco di pedagogo, sebbene in questo sia più evidente il riferimento alla funzione pratica di governo dei fanciulli, in quello il riferimento alla funzione didattica d'insegnamento e di educazione. Tale funzione didattica si conteneva, nelle scuole romane, principalmente entro il campo della lingua, della grammatica e della retorica, poi anche della dialettica e della filosofia; ma il cristianesimo elevò il concetto di maestro, facendolo coincidere con quello di fondatore della nuova religione, di banditore del verbo. Questo è il concetto che informa l'opera di Clemente Alessandrino (secolo III), il quale la intitola Il Pedagogo, e dove, in conseguenza della tesi principale, essere Cristo il vero pedagogo che ducit et docet, egli sostiene che ognuno è maestro a sé, in quanto ascolti la voce interna, che è voce di Cristo-Dio. Ma di lì nasceva la grande questione se veramente si possa parlare di un maestro diverso dal Cristo: questione che S. Agostino affrontava nel De Magistro (389), nel quale, come dirà egli stesso nelle Retractationes, quaeritur et invenitur, magistrum non esse, qui docet hominem scientiam, nisi Deum: Cristo insegna dentro; gli uomini ci ammoniscono di fuori. La questione fu ripresa molto tempo dopo, quando la Scolastica con tutta la sua organizzazione di scuole e di maestri, che dalla loro opera d'insegnamento erano chiamati doctores, dominava su tutta la cultura, da S. Tommaso, il quale nell'undecima delle Quaestiones disputatae de veritate, intitolata appunto De magistro, discute: 1. se l'uomo può insegnare a un altro, e dirsi maestro, o se solo Dio insegna; 2. se alcuno può dirsi maestro di sé stesso; 3. se l'uomo può essere istruito da un angelo; 4. se l'insegnare sia atto della vita attiva o della contemplativa. E, dopo un sottile ragionamento condotto secondo il metodo scolastico, conclude che il sapere, come la virtù, esiste in potenza nell'uomo sotto forma di primi principî e di concetti puri, i quali possono venire tratti in atto dall'azione esterna del maestro. Quindi si comprende come sia possibile e in che consista l'insegnare: alla stessa maniera che uno può da sé solo trarre in atto i principî della ragione e conquistare scienza o trovarla (inventio), così uno può essere aiutato da un altro (come accade nel caso dell'ammalato che viene aiutato dal medico a guarire) ad apprendere la scienza, a imparare. Ma la radice prima è sempre nella potenza attiva dell'intelletto, cioè nel lume intellettuale che viene da Dio: "unde, cum omnis doctrina humana efficaciam habere non possit nisi ex virtute illius luminis, constat quod solus Deus est qui interius et principaliter docet". In questo modo S. Tommaso accetta, e insieme corregge o delimita, la tesi di S. Agostino. Intanto che così si disputava intorno alla possibilità e al fondamento dell'insegnare, i maestri si moltiplicavano nella chiesa e fuori della chiesa, insegnandosi, cioè trasmettendosi da maestro a discepolo, non solo la dottrina chiesastica, ma anche le altre conoscenze di aritmetica e geometria, astronomia e musica, in parte ereditate dagli antichi, in parte diffuse e accresciute dagli Arabi, che costituivano nel loro insieme il quadrivio e che insieme con le cognizioni del trivio (grammatica, retorica, dialettica) esaurivano il programma della scuola secondaria medievale. Ma il nome di maestro si estendeva anche alla pratica delle arti e dei mestieri, e precisamente si usava chiamare così l'operaio o l'artigiano che, dopo essere stato apprendista, era ricevuto nella corporazione relativa, e vi poteva con l'esempio e i consigli trasmettere ai discepoli l'arte sua. Con l'Umanesimo poi i maestri di scuola si accrebbero.
Erano assoldati da comuni e anche da principi e da privati per l'istruzione dei fanciulli e giovinetti negli elementi del latino con la grammatica di Donato, e dell'aritmetica con l'abaco, di cui diede un saggio insigne quel mercante pisano, Leonardo Fibonacci (1170-1250?), che scrisse intorno al 1228 il Liber abaci, esposizione a scopo didattico, di calcoli aritmetici, di regole e problemi con le loro soluzioni. Maestri insigni di scuola furono nel'400 in Italia Gasparino Barzizza (1339-1431), che insegnò a Padova fra il 1407 e il 1422, Guarino Guarini (1374-1460), che insegnò greco e latino a Firenze, Verona, Padova, Ferrara, e il più grande di tutti Vittorino da Feltre (1378-1447), maestro a Venezia, Padova, Mantova, dove organizzò e diresse con severa e insieme umana disciplina e con unità armonica di elementi didattico-educativi, una scuola di tipo medio-classico.
Ma in progresso di tempo, col costituirsi e differenziarsi, in seguito alla Riforma protestante e alla Controriforma cattolica, delle scuole di latinità e di filosofia destinate ai giovani delle classi superiori e medie, e in seguito al successivo sorgere delle scuole primarie o elementari per i fanciulli, il termine di maestro (instituteur, Lehrer, teacher) si andò sempre più restringendo a designare le persone particolarmente adatte a preparare per queste seconde scuole, e si riservò invece il termine di professore per gli insegnanti delle prime.
A. H. Francke (1663-1727) nel campo protestante, G. B. de La Salle (1651-1719) nel campo cattolico furono i primi che organizzarono le scuole per il popolo con maestri a tale fine preparati (la scuola normale di Reims, fondata dal De La Salle, è del 1684; il seminarium praeceptorum del Francke è del 1698). Ma gl'intenti confessionali erano in ambo i casi prevalenti sugli scopi dell'istruire e dell'educare, onde si ebbero i moti successivi dottrinali, legislativi e pratici della fine del sec. XVIII e dei primi decennî del successivo miranti a creare su basi nuove la scuola e il maestro del popolo. E qui si presenta la grande figura di Enrico Pestalozzi (1746-1827), che facendosi maestro di scuola a Stanz (1798), e poi (1805) creando a Iverdon il seminario per i maestri e, infine, esprimendo sempre nelle opere e negli scritti una geniale e fervorosa attività rivolte essenzialmente alla scoperta e alla pratica delle leggi metodiche dell'educazione, può considerarsi come il fondatore della scuola popolare moderna e maestro dei maestri.
Da lui infatti derivarono in modo diretto o indiretto gli sforzi molteplici per la creazione d'istituti, la teorizzazione dei metodi, la compilazione di opere che agevolassero la preparazione dei maestri, per le nuove scuole elementari, che dappertutto in Europa e in America, con la costituzione e il consolidamento dei nuovi stati liberali, si andavano imponendo alla coscienza pubblica. In Germania col Fichte e, poi, con F. A. W. Diesterweg, in Francia con F. Guizot e con Jules Ferry, negli Stati Uniti d'America con O. Mann si svolse una grande opera per la creazione del maestro. In Italia, dove già nel 1835 R. Lambruschini aveva dato nella villa di S. Cerbone esempio insigne di una sapiente opera educativa, il problema della formazione pubblica del maestro, già insufficientemente risolto nel Lombardo-Veneto sotto l'Austria con brevi corsi di metodica (v. metodo), si cominciò a risolvere con più adeguati tentativi nel periodo 1840-1844: allora infatti in Torino un professore di umanità e rettorica, V. Troya, ottenne di diventare maestro e di reggere due scuole elementari istituite nel collegio di San Francesco di Paola, col proposito preciso di mettere alla prova nuovi principî del metodo didattico, derivati dal Pestalozzi, da G. Girard, da F. Naville, e di addestrare in essi i futuri maestri; e all'università di Torino fu chiamato F. Aporti (v.) a tenere un corso bimestrale teorico e pratico di metodo. Da quegli esperimenti derivarono la scuola universitaria di metodo, onde si creò la cattedra di pedagogia, e le numerose scuole provinciali di metodo che, istituite nelle città del Piemonte, prepararono, per quanto in modo rudimentale, le prime schiere di maestri elementari.
Ma la preparazione del maestro, dopo un tentativo del ministro G. Lanza, ebbe un primo riordinamento nella legge Casati del 1859, che istituiva la scuola normale di tre anni; un secondo incremento con la legge Gianturco del 1896, che provvedeva in modo più organico con il tirocinio e con il corso fröbeliano alla formazione sia dei maestri sia delle maestre e delle educatrici d'infanzia; e infine ebbe un nuovo e più alto impulso con la legge Gentile del 1923, che introduceva nella formazione della cultura magistrale il latino e la filosofia. Ai quali provvedimenti legislativi vanno aggiunti quelli che mirano a elevare la cultura magistrale nell'ambiente universitario: primo fra i quali il decreto che istituiva nel 1906 per i licenziati delle scuole normali, cioè per i maestri elementari, i corsi biennali di perfezionamento presso le facoltà di filosofia e lettere, e poi, nel 1923, in maniera più vasta e organica, gl'istituti superiori di magistero.
Bibl.: K. v. Raumer, Geschichte der Pädagogik vom Wiederaufblühen der klassischen Studien bis auf unsere Zeit, 7ª ed., Gütersloh 1902; K. Schmidt, Geschichte der Pädagogik, voll. 4, 4ª ed., Cöthen 1890; K. A. Schmid, Geschichte der Erziehung, Stoccarda 1884-1902; Th. Ziegler, Geschichte der Pädagogik, Monaco 1895; Frank P. Graves, A history of Education, voll. 3, New York 1931; G. Vidari, L'educazione in Italia dall'Umanesimo al Risorgimento, Roma 1930; G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, voll. 2, Palermo 1913; W. Giesebrecht, L'istruzione in Italia nei primi secoli del Medioevo, Firenze 1895.
Musica.
Nella terminologia musicale il titolo di maestro è dato, fin dal primo rigoglio del canto liturgico cristiano, a chi istruisce e dirige un insieme di musici (cantori o strumentisti). Magister puerorum era, per es., l'istruttore e nel tempo stesso il capo, responsabile, dei ragazzi cantori d'una cappella di chiesa; il maestro di cappella sovrintendeva all'intero corpo musicale d'una chiesa o d'un castello, compresi cioé i cantori, fanciulli e adulti, gli organisti e - quando fossero ammessi - gli strumentisti in generale, e a lui competeva la scelta delle musiche (eventualmente anche la stessa composizione e l'allestimento delle grandi esecuzioni vocali o vocali strumentali). In questo senso il titolo di maestro di cappella s'è venuto estendendo, specialmente nei poeti tedeschi, anche fuori dell'ambito chiesastico, ed è dato, per es., al direttore d'orchestra (Kapellmeister), in Italia maestro concertatore e direttore d'orchestra. Il titolo di maestro è inoltre dato al musicista di professione, come titolo onorifico (in quanto implica il riconoscimento di un certo grado di perizia artistica e d'una conseguente capacità d'insegnare). In alcuni stati il titolo (specialmente quello di maestro compositore) è riconosciuto a chi abbia compiuto determinati studî e conseguito determinati diplomi.
Il magister bonorum.
Tra gli editti del pretore, che disciplinavano la procedura esecutiva concorsuale, ve n'era uno con la rubrica de magistris faciendis bonisque proscribendis et vendundis, commentato da Gaio, Paolo e Ulpiano, come si rileva dai frammenti contenuti nel Digesto e nel Codice (Dig. XXXXII, 5, de reb. auct.; Cod. VII, 72 de bonis auct.). Gai., III, 79, c'insegna che, trascorsi dati termini dalla immissione dei creditori nel possesso del patrimonio del debitore, il pretore ordinava la convocazione dei creditori perché provvedessero a eleggere fra loro il magister. S'iniziava così l'ultima fase del processo esecutivo. Il magister può dirsi un organo processuale elettivo con la funzione principale di organizzare, avvertendone anche gli estranei con avvisi pubblici (proscriptiones), e di eseguire la vendita, all'asta pubblica, del patrimonio in blocco del debitore divenuto per ciò decoctor. Egli aggiudicava in blocco il patrimonio a chi offriva di pagare ai creditori la percentuale più alta dell'ammontare dei loro crediti. Questa percentuale costituiva, in definitiva, il prezzo della vendita: bonorum venditio. A parità di offerte sceglieva il magister, ma, in certi casi, era vincolato nella scelta. Doveva, ad es., preferire un parente del debitore a un estraneo, un creditore a un parente, tra più creditori quello che avesse crediti più rilevanti. Su altri poteri del magister si discute. Anche scrittori non giuridici ricordano il magister, in particolare Cicerone.
Bibl.: Calvinus, s. v., in Lexikon iurid.; Leist, Auction, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, pp. 2270-71; F. Baudry, Bonorum emptio, in Daremberg e Saglio, Dict. des ant. gr. et rom., I, i, p. 734; O. Lenel, Edictum perpetuum, 3ª ed., 1927, p. 425 segg. e la letteratura ivi citata.
Il magister equitum.
Il più antico titolo del dittatore romano era magister populi, comandante dell'esercito, e come tale egli doveva guidare, e a piedi, le falange dei fanti; perciò egli si nominava un aiutante per il comando della cavalleria, il magister equitum. E finché durò la dittatura romana, qualunque fosse lo scopo per il quale veniva creato il dittatore, fu norma quasi sempre osservata, che questi, appena entrato in carica, presi gli auspici, nominasse il suo magister equitum. Solo nei rari casi in cui il dittatore fu eletto dai comizî, questi designarono anche il suo magister equitum. Per la nomina a magister equitum non erano richieste qualifiche speciali, per quanto, almeno dal sec. III a. C., si scegliessero di solito degli ex consoli. Il magistero dei cavalieri, essendo una carica straordinaria, poteva essere tenuto contemporaneamente ad altre magistrature ordinarie, tranne il consolato. Il magister equitum durava in funzione, come il dittatore, non più di sei mesi e abdicava con lui, se il dittatore deponeva prima la carica. Il magister equitum è un magistrato, ma gerarchicamente viene dopo i magistrati cum imperio ordinarî, e quindi dopo il pretore; egli ha però grado pretorio e pare infatti gli spettassero sei littori. Oltre all'esercizio del comando militare inerente al suo grado, il magister equitum può compiere, in rappresentanza del dittatore, altri atti che a questo competono.
L'imperatore Costantino privò i prefetti del pretorio delle loro attribuzioni militari, e divise il comando delle truppe dell'esercito di campagna, palatini e comitatenses (v. esercito, XIV, p. 317 e segg.), fra due magistri, un magister peditum per la fanteria e un magister equitum per la cavalleria. Il comando militare veniva così non solo separato dal potere civile, ma anche diviso fra due persone, in modo da rendere necessario il comando supremo dell'imperatore. Ai magistri spettava il titolo di illustrissimi, venivano nella gerarchia subito dopo i praefecti urbi e praetorio e avevano la comitiva primi ordinis: perciò essi sono detti comites et magistri o anche solo comites. Dei due magistri, il più elevato di grado, almeno da una certa epoca, era il magister peditum, sebbene la cavalleria avesse rango più elevato. Si trova in documenti ufficiali anche magister militum, in greco στρατηλότης o στρατηγός e volgarmente magister armorum e magister rei castrensis. Il titolo di magister equitum veniva concesso anche ad honorem o per l'assegno relativo, senza esercizio del comando. Ben presto si cominciarono a creare parecchi magistri equitum con comando limitato a un certo territorio e sulle due armi; questi si dissero allora anche magister equitum et peditum o magister utriusque militiae. Invece i due magistri che stavano presso l'imperatore romano vennero detti praesentales o in praesenti. Con la divisione dell'impero in due parti, si ebbero quattro magistri praesentales. In oriente Teodosio pareggiò nel grado i due magistri praesentales che divennero ambedue magistri equitum et peditum e comandavano metà dell'esercito metropolitano; inoltre altri tre magistri furono creati per Orientem, per Thraciam e per Illyricum, e il numero ne fu accresciuto ancora in seguito. Si ebbe così in Oriente un assoluto decentramento del comando militare, che riacquistava unità solo nella persona dell'imperatore. In Occidente invece, tranne il magister militum per Gallias, si rimase fedeli al sistema dei due soli magistri praesentales, e alla preminenza del magister peditum che comandava anche le flotte e le tribù barbare stanziate nell'impero; esso ricevette anche il titolo di patricius. Di fronte agl'imperatori occidentali deboli, i magistri peditum, di solito barbari, assommarono in sé tutto il potere militare (quindi il loro titolo di magister equitum et peditum o utriusque militiae) e prepararono la fine dell'impero d'Occidente. Ricimero era magister militiae d'Occidente.
Bibl.: Sul m. equitum, v.: Th. Mommsen, Röm. Staatsrecht, II, 3ª ed., Lipsia 1887; p. 173 (trad. franc. Droit public romain, III, Parigi 1893, p. 198); A. Rosenberg, Der Staat der alten Italiker, Berlino 1913, p. 89; E. Meyer, Kleine Schriften, 2ª ed., Halle 1924, II, p. 272; Westermayer in Pauly-Wissowa, Real Encycl., suppl. V (1931), c. 631; F. Leifer, Studien zum antiken Ämterwesen, in Klio, n. s., Append. 10, 1931, p. 100 segg. Sui magistri militum, vedi: Th. Mommsen, Das römische Militärwesen seit Diocletian, in Hermes, XXIV (1889), p. 260; id., Ges. Schriften, VI, Berlino 1910, p. 267; id., Aetius, in Hermes, XXXVI (1901), p. 531; id., Ges. Schriften, IV, 1906, p. 545; R. Grosse, Röm. Militärgesch., Berlino 1920, p. 180 segg.; E. Stein, Gesch. des spätrömischen Reiches, I, Vienna 1928, p. 186; W. Ensslin, Zum Heermeisterant des spätrömischen Reiches, in Klio, XXIII (1930), p. 306; XXIV (1931), pp. 102 e 467 e la letter. ivi citata.
Il magister officiorum.
Questo nome designa una delle quattro dignitates palatinae, le più elevate cariche dell'amministrazione centrale dell'impero romano negli ultimi secoli. In origine il magister officiorum soprintendeva agli officia palatina (donde il nome) o scrinia (epistularum, libellorum, memoriae, dispositionum), cioè le segreterie imperiali, che rimasero poi sempre a lui sottoposte. Ma via via la sua competenza si allargò con l'aggiunta di nuove attribuzioni, spesso sottratte ai prefetti del pretorio: così al magister officiorum venne dato il comando delle scholae scutariorum et gentilium (istituite da Costantmo al posto dei disciolti pretoriani); così pure fu posto a capo degli agentes in rebus - funzionarî subalterni con svariate funzioni, specialmente di polizia, per mezzo dei quali poteva esercitare un controllo sull'amministrazione provinciale - nonché delle poste imperiali e delle fabbriche d'armi. Inoltre gli fu affidata l'alta sorveglianza dei confini, con la giurisdizione sui comandanti militari di essi (duces limitanei) e i loro dipendenti; mentre, come capo dell'officium admissionum, regolava le udienze imperiali. In tai modo il magister officiorum poté diventare il più alto personaggio dell'amministrazione centrale: nel 395 fu annoverato tra gli illustres (la prima classe di rango). Ognuna delle due partes imperii aveva un proprio magister officiorum.
Bibl.: E. Böcking, in Not. Dign. Occ., Bonn 1839, p. 301 segg.; O. Karlowa, Röm. Rechtsgeschichte, I, Lipsia 1885, p. 830 segg.; B. Kübler, Gesch. d. röm. Rechts, Lipsia 1925, p. 313 segg.
I magistri fanorum.
Magistri fanorum erano, nell'ordinamento sacerdotale della religione romana, gli amministratori e guardiani di templi.
Questo sacerdozio si trova esclusivamente nei municipî romani e la loro elezione era riservata ai duoviri municipali. Erano di grado superiore agli aeditui, con i quali furono erroneamente identificati dal Marquardt. Vanno invece identificati con i magistri ad fana delubra menzionati nella lex coloniae Iuliae Genetivae (C. I. L., II, 1828). Quindi nella gerarchia sacerdotale dei municipî romani si ebbero magistri fanorum, messi alla pari dei curatores aedis o templi e degli antistites. Da essi dipendevano gli aeditui o aeditumi, detti anche tuitores o custodes templi o aedis sacrae, che erano i semplici guardiani dei sacri edifici.
Bibl.: R. Ohnesseit, in Philologus, XLIV (1885), p. 527 segg.; D. Vaglieri, in Dizionario di epigrafia latina di E. De Ruggiero, I, p. 227; J. Marquardt, Röm. Staatsverwaltung, III, 2ª ed., Lipsia 1885, p. 214 segg.; R. Habel, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, col. 465 segg.
Per il maestro come titolo di varî dignitarî della curia pontificia, v. corte; vaticano. Per il maestro di palazzo, v. maggiordomo.