Mafia
Una riflessione sulla m. siciliana agli inizi del 21° sec. non può non partire dalla sanguinaria escalation delle m. verificatasi in Sicilia, come nel resto del Mezzogiorno, tra gli anni Settanta e Ottanta del 20° sec., nella fase terminale e per alcuni versi culminante di una congiuntura in cui la violenza politica, il terrorismo di destra e di sinistra, l'intreccio dei poteri occulti avevano occupato il centro della scena italiana. Fu in quel contesto che le organizzazioni criminali allargarono le loro attività e la loro stessa presenza su territori inquinati ab antiquo, o occupati ex novo (Puglia, Sicilia orientale, Calabria settentrionale), con un uso della violenza ben più intenso che nel passato, fattosi a tratti parossistico. La criminalità organizzata imparò dalle gesta del terrorismo politico, riportate con grande evidenza dai media, oppure direttamente apprese nelle comuni frequentazioni carcerarie, che il potere ufficiale poteva essere condizionato anche dall'intimidazione, oltre che dai consueti scambi di favori.
Rispetto alle altre m. meridionali, 'Cosa nostra' ha una sua ben diversa compattezza, una tradizione ben radicata nel tempo e nello spazio: non aveva dunque alcuna necessità di mutuare una propria ideologia da quelle disponibili sul mercato dell'opinione pubblica. Eppure la lezione del terrorismo influì, e in profondità, anche su essa; finì per inasprire i metodi della competizione intestina risolvendosi in un massacro che all'inizio degli anni Ottanta provocò centinaia di morti tra affiliati e satelliti dell'organizzazione, e mutò anche la tradizionale attitudine mafiosa di deferenza nei confronti dell'élite amministrativa, politica e sociale. Tutto ciò portò la m. siciliana a dimenticare le proprie usuali prudenze verso il mondo di sopra.
La m. palermitana (della città, dell'hinterland, della provincia) si era nel frattempo avviata verso un processo di estrema centralizzazione. Già in passato le cosche o famiglie mafiose si erano date strumenti di coordinamento, ma la Commissione creatasi nei primi anni Sessanta sul modello statunitense divenne, sotto la guida di L. Liggio prima e poi di S. Riina, cioè dei cosiddetti corleonesi, un potere a sé stante che pretendeva di dettare legge non solo ai singoli gruppi di m., ma anche agli interlocutori della politica e degli affari. Quella dei primi anni Ottanta, più che a una guerra di mafia, potrebbe in questo senso essere assimilata a un golpe perpetrato dalla Commissione, che in quella fase sembrò credere veramente di poter somigliare a un contro-Stato nemmeno tanto sotterraneo, più forte dello Stato vero perché di esso più pronto e spietato: e ciò si vide non solo nei già richiamati eccessi della guerra interna, ma ancor più nei clamorosi attentati contro inquirenti e politici nemici (R. Chinnici, C. Terranova, P. La Torre, C.A. Dalla Chiesa, G. Falcone e P. Borsellino, per citarne solo alcuni) e contro gli amici come il deputato S. Lima e il finanziere I. Salvo. Nel 1993 i mafiosi misero addirittura una bomba alla Galleria degli Uffizi di Firenze pensando di poter intimidire non un qualche singolo esponente politico, ma addirittura lo Stato in quanto tale. Si trattò di una violenza non soltanto praticata su scala straordinariamente ampia, ma anche ostentata. Era strettamente necessaria per intimidire gli avversari nonché i complici nel mondo di sopra? Oppure a essa era assegnato un ruolo simbolico generale, politico-propagandistico che spiegherebbe la sua dimensione ipertrofica?
Nel complesso, l'opzione terroristica si rivelò per 'Cosa nostra' controproducente. Movimenti politici e d'opinione si svilupparono e conseguirono successi sulla parola d'ordine della lotta contro la m.: vanno ricordate le figure dei due sindaci delle maggiori città siciliane (Palermo e Catania), L. Orlando ed E. Bianco, ma si potrebbero ricordare molte altre esperienze analoghe in centri minori. Ovviamente un ruolo di primo piano ebbero in questa mobilitazione, dal punto di vista simbolico, le figure degli inquirenti di punta e il fatto stesso che si sviluppassero indagini e con successo. Il cosiddetto maxiprocesso palermitano del 1986-87 sancì le responsabilità e la stessa esistenza (da tanti allora negata) dell'organizzazione criminale 'Cosa nostra', e ne condannò capi e gregari a pesanti pene detentive. I grandi latitanti - spesso tali da decenni - furono finalmente trovati e imprigionati, la Corte di cassazione finì per confermare le sentenze. Furono successi pagati a caro prezzo, e il dramma culminò negli assassini di Falcone e Borsellino tra la primavera e l'estate del 1992. Si trattò comunque di successi senza precedenti.
La repressione si valse di una gran quantità di mafiosi risoltisi a testimoniare contro i loro colleghi, e che furono detti pentiti. Anche in passato, dall'interno del 'tenebroso sodalizio' (per usare un termine ottocentesco) provenivano informazioni all'autorità di polizia smentendo i codici presunti infrangibili dell'omertà e l'altrettanto presunta ripulsa etica dei mafiosi nei confronti della collaborazione con lo Stato. Si trattava però di canali confidenziali, scarsamente utilizzabili per una repressione giudiziaria del fenomeno. Perché qualcuno si risolvesse a testimoniare in tribunale sui misteri dell'organizzazione, bisognò arrivare appunto agli anni Ottanta, dopo l'esperienza dello sfaldamento dall'interno delle organizzazioni armate della sinistra rivoluzionaria, le Brigate rosse e non solo.
Sia nel caso della lotta al terrorismo sia in quello della lotta alla m., le collaborazioni furono rese possibili da un'azione investigativa e repressiva articolatasi e fattasi via via più efficace; dal fatto che vennero costituiti gruppi specializzati, furono raffinati gli strumenti di intelligence, vennero varate nuove leggi tra le quali spiccano quelle destinate a premiare la collaborazione e i collaboratori. Non è un caso se Falcone e Borsellino pagarono con la vita l'efficacia delle tecniche allora introdotte e i grandi risultati ottenuti. Nella lotta alle m. penetrarono peraltro anche i rischi di eccessi, le possibili distorsioni insite nei meccanismi e negli istituti repressivi appunto 'speciali', sperimentati nella lotta al terrorismo: le carceri di massima sicurezza, i maxiprocessi con lposta sui reati associativi con le relative difficoltà di un'efficace difesa. Si ripropose naturalmente il dubbio di per sé insito in ogni collaborazione di un criminale con la giustizia, se cioè la collaborazione sia sincera o abbia finalità strumentali.
Da parte radical-socialista, allora molto impegnata su un versante autodefinitosi garantista, si levarono molte voci di protesta contro le presunte tendenze repressive e liberticide che si sarebbero annidate sia nella lotta al terrorismo sia in quella alle m.; tra esse, non si può non ricordare quella di L. Sciascia (A futura memoria: se la memoria ha un futuro, 1989). La magistratura venne accusata di elaborare 'teoremi', ossia di basarsi su ragionamenti tutti deduttivi per accreditare improbabili responsabilità penali individuali, laddove si era davanti a comportamenti collettivi. Come in polemiche asperrime si era fatto riferimento a un 'teorema Calogero' per le inchieste contro T. Negri e altri leader di Autonomia operaia, così si stigmatizzò un 'teorema Buscetta', che forse si sarebbe potuto dire 'teorema Falcone': il più famoso dei pentiti, T. Buscetta - si disse - , aveva dipinto 'Cosa nostra' come una struttura perfettamente gerarchica, e Falcone voleva dedurre la piena responsabilità penale dei suoi capi riuniti nella 'Cupola' per i reati di sangue perpetrati dai gregari. Resta il fatto che il conseguimento di una collaborazione dall'interno si dimostrò una condicio sine qua non per gli inquirenti per conseguire successi sia sul fronte del terrorismo sia su quello mafioso.
Tra gli effetti controproducenti della strategia corleonese, va senz'altro richiamata l'esplosione del fenomeno del pentitismo. Nella scelta di Buscetta, come di altri pentiti della m. siciliana, può essere rilevata una motivazione in qualche modo ideologica che spiega l'enfasi posta su questo termine. La m., si disse, nasce come alleanza tra uomini d'onore, propone regole certe intese a stabilizzare e regolare le relazioni tra i gruppi criminali o intorno a essi, vuole evitare i conflitti e considera la violenza l'extrema ratio. Di fronte alla violenza sistematica, quasi iperbolica praticata dai corleonesi, anche Buscetta, al pari dei suoi omologhi della sinistra rivoluzionaria, dovette prendere atto di un effetto perverso. I suoi figli e molti suoi parenti erano caduti, insieme a moltissimi altri mafiosi del Palermitano, nella tremenda resa dei conti di inizio anni Ottanta; egli si pentì dunque vedendo che la m. non assicurava l'ordine, ma un eversivo disordine. Ciò peraltro non toglie che per molti aspetti egli non sia rimasto un interprete e in molti casi anche un apologeta dei cosiddetti valori del proprio passato - nella fattispecie di una presunta 'vecchia mafia' pacificatrice e 'd'ordine', tradizionalista e capace di stare al proprio posto, antecedente all'avvento dei corleonesi.
Un altro mafioso non pentito, il superboss della m. catanese N. Santapaola, ha lasciato una testimonianza in tal senso in una lettera aperta scritta dal carcere nel quale è stato rinchiuso al termine di una lunghissima latitanza. A dire di Santapaola, con il suo arresto la città era stata privata della sicurezza, dell'ordine e della prosperità garantita dalla sua protezione, dalla sua capacità di tenere a freno la criminalità. "Dov'è la Catania fiorente, dove sono gli imprenditori, i commercianti che potevano vivere e lavorare senza avere paura?" (Diario della settimana, 30 ott.-5 nov. 1996), egli domandava retoricamente nella lettera, dimenticando che negli anni del suo dominio la città era stata vittima di continui conflitti sanguinosi che tutto dimostravano fuorché la capacità sua e dei suoi amici di mantenere l'ordine. In questo caso è interessante la dialettica tra Santapaola e il suo nemico G. Ferrone, che ha cercato senza riuscirci di acquisire lo status di pentito: l'uno e l'altro si sono accusati del medesimo misfatto, di non rispettare le regole, di uccidere donne e bambini, di inclinare insomma a una violenza animalesca e incontrollata.
Le versioni dell'ideologia mafiosa qui presentate sono apologetiche, certo, edulcorate, e ideologiche all'estremo. Nondimeno, questo è il modo in cui la m. ha rappresentato da sempre sé stessa, questi sono gli argomenti su cui, con una quota parte di sincerità, o in maniera del tutto strumentale, i mafiosi - pentiti o irriducibili - hanno provato a giustificare le loro azioni.
La stagione dei delitti eccellenti è terminata ed è terminata anche la strage delle guerre intestine. Dopo i clamorosi attentati del 1992, dalla metà degli anni Novanta vi è stato anche un tracollo del numero dei delitti di sangue per cause di criminalità organizzata; a Palermo in qualcuno di questi anni si è arrivati quasi a zero. È stato attestato da atti giudiziari che il risultato è derivato da una scelta mimetica dell'organizzazione; eppure vi sono anche macroscopici indicatori di tipo differente: il calo infatti si è verificato non solo nel Palermitano o nella Sicilia occidentale, ma anche in altre aree di criminalità organizzata (Sicilia orientale, Calabria) nelle quali l'influenza di 'Cosa nostra' è sempre stata inferiore o anche minima. Difficile non commisurare questo risultato alla crisi del sistema politico verificatasi appunto a partire dai primi anni Novanta, e agli effetti ultimi di una reazione allo strapotere della m. avviatasi nel decennio precedente, e concretizzatasi su due livelli: movimenti politici e di opinione; leggi mirate e istituzioni specializzate repressive.
La fine dello stragismo peraltro non significa la fine della m.: significa piuttosto il suo ritorno a una dimensione carsica ben più congrua alla sua lunga storia. Prima dell'era corleonese i delitti eccellenti non facevano parte dell'armamentario mafioso, a parte qualche caso significativo ma isolato come l'assassinio di E. Notarbartolo (nel 1893), per la semplice ragione che la m. rappresentava una struttura di servizio dei poteri ufficiali; non vi è alcuna ragione perché essa non possa ancora prosperare senza ricorrere a quei clamorosi rumori. L'arresto dell'ultimo boss corleonese, B. Provenzano (2006), conferma l'esaurimento di una stagione, e un eventuale riemergere delle autonomie di singoli gruppi sarebbe in linea con una tradizione di ciclica alternanza tra decentralizzazione e centralizzazione. Varie sono le opinioni sull'attuale coinvolgimento, o meno, dei gruppi mafiosi in traffici grandi e lucrosi. L'esperienza indica peraltro che la m. ha anche abbandonato del tutto settori un tempo fruttuosi (si pensi al caso classico degli alcolici dopo la fine del proibizionismo americano) regolandosi sulle reali possibilità di guadagno e di controllo, cogliendo le occasioni di profitto o, viceversa, facendosi da parte. La m. si inserisce in reticoli affaristici che sono mutevoli per definizione, ma non si identifica in essi; la continuità storica, il radicamento sul territorio, la forza dei legami interni e la ricchezza delle relazioni esterne rappresentano per essa la vera risorsa. La stagione culminata nel maxiprocesso e la stessa lezione degli inquirenti, Falcone innanzi tutto, portarono a suo tempo gli studiosi del fenomeno a enfatizzare il tema dell'organizzazione mafiosa, delle sue regole, della sua soggettività. Senza abbandonare queste fondamentali acquisizioni, si deve ancora forse tornare a ragionare del contesto e del sistema complessivo delle relazioni tra potere politico, impresa e criminalità, senza più indulgere all'immagine ingenua della superpotenza mafiosa, della piovra capace di dominare tutto e tutti. D'altra parte, è necessario considerare con prudenza le profezie sull'estinzione della m. per raggiunta modernizzazione della società italiana, o addirittura di quella mondiale. Questa della m. attardata da codici culturali primitivisti, inchiodata alla sua arcaica dimensione di base, dunque strutturalmente incapace di sopravvivere nel mondo moderno, rappresenta una pericolosa leggenda già propalata in diverse occasioni, alla fine dell'Ottocento come a varie riprese nel Novecento, in Sicilia e negli Stati Uniti: generalmente prima di ogni rinnovata escalation mafiosa.
È vero invece che da cento e più anni la m. si è adattata benissimo ai ripetuti e traumatici mutamenti che definiamo modernità, sia in Italia sia negli Stati Uniti d'America. Non a torto viene usato il plurale mafie sia con riferimento alle diverse forme di criminalità organizzata in Italia, sia a livello planetario - laddove si aggiunge alla parola una qualificazione etnica, cinese, giapponese, russa, albanese, turca, colombiana, cecena. Ciò indica l'autonomizzazione della parola dal retaggio siciliano-italiano-americano, ma anche la sua crescente forza evocativa: ora il termine va a definire nel senso più generale il meccanismo per cui gruppi legati in origine a identità, società e culture periferiche o arretrate perpetrano il loro malaffare in società ben più ricche attraverso flussi migratori, traffici e transazioni finanziarie anche di scala planetaria.
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