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MAFIA

di Raffaele CIASCA - Enciclopedia Italiana (1934)
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MAFIA

Raffaele CIASCA

. Sotto il nome di mafia si comprendevano generalmente due cose alquanto diverse fra loro: un abito, un particolar modo di sentire che rendeva necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali; e un complesso di piccole associazioni. L'abito o lo spirito di mafia consisteva nel ritenere debolezza e viltà ricorrere alla giustizia ufficiale, per la riparazione di un torto patito, soprattutto se il reato rivestiva carattere d'imposizione aperta e sfacciata, d'un torto, d'uno sfregio, ecc., come l'offesa all'onore delle famiglie, percosse, violenze personali, omicidio in rissa e in agguato, e anche taglio di viti e di alberi, uccisione o sgarrettamento di bestiame, abigeato, grassazione, ricatto, sequestro di persona, ecc. Dal principio che chi "sa farsi rispettare" doveva affidarsi alla giustizia delle sue mani per compiere la vendetta, derivava l'"omertà", la regola cioè per cui era disonorevole dare informazioni alla giustizia per quei reati che l'opinione mafiosa credeva si dovessero liquidare tra offeso e offensore. Di qui l'impossibilità d'acquistare le prove per reati commessi in pubblica strada, d'individuare autori di misfatti, a tutti, salvo che al magistrato, benissimo noti. Fino a qualche anno addietro, la mafia era più diffusa in Sicilia che altrove; più diffusa tra i poveri e ignoranti, che in altri ceti; più in frazioni della nobiltà di villaggio e di recente arricchita, che in quella antica, cittadina e colta; più in Siciliani viventi nell'isola, che in quelli a contatto con altri ambienti. Il ricco, che voleva percorrere la carriera amministrativa e politica, aveva a portata di mano l'amicizia di facinorosi in basso, i quali, oltre a offrirgli il loro ossequio, la promessa che non sarebbe recato danno a lui, alla sua famiglia, agli amici, ne appoggiavano la candidatura, talvolta in modo violento. E questi servizî egli ripagava sostenendo i mafiosi, intercedendo presso la giustizia, aiutando essi e le loro famiglie. Di questo mutuo, spesso tacito patto, che legava mafiosi del basso e dell'alto, gente povera, curatoli, consiglieri, assessori, sindaci e finanche il deputato, c'era una varietà infinita. Dallo spirito di mafia prendevano vita non un'associazione, che non è mai esistita, ma piccoli gruppi, più o meno organizzati, di malfattori, obbedienti a capi locali. Il loro insieme costituiva quello che normalmente è indicato col nome di mafia.

Ciascuna associazione si chiamava "cosca". A differenza della camorra napoletana, non aveva gerarchia, non burocrazia, non ordinamenti statutarî, tranne il principio dell'omertà. Associazioni non numerose: abitualmente 3-5 in ogni cosca; a loro servizio era circa una dozzina di "picciotti", alcuni dei quali sveltissimi e ambiziosi di raggiungere un'agiatezza per loro altrimenti inattingibile, altri scemi e suggestionabilissimi e perciò ancora più temibili dei primi. Campo di azione della cosca, il territorio comunale; ma non raramente, specialmente in occasione di fiere, della transumanza, dello scambio di lavoratori fra il monte e il piano, la marina e l'interno, due cosche si accordavano per agire di conserva. Ma se qualche volta erano solidali, due "cosche" della stessa località o di località vicine, più spesso erano in guerra, per rivalità o per contrasto sulla rispettiva zona d'influenza.

Varî gli scopi della cosca: tendenti tutti però a ottenere il massimo prestigio e il massimo guadagno illecito a pro della società e dei membri più influenti impiegando il minimo sforzo delittuoso e affrontando il meno possibile indagini e rigori della polizia. Raro che di proposito si volesse violare il codice penale. Più spesso il mafioso, riscuotendo un ingiusto tributo sul lavoro o sul traffico, o facendosi intermediario interessato fra proprietarî di terre e di bestiame, e ladri e briganti, si studiava persino di non offendere troppo l'amor proprio dei ricattati; preferiva spesso perdonare e farsi mediatore di paci e di perdoni. Offeso e schiaffeggiato in pubblico di pieno giorno, giungeva fin anche a tacere e a dissimulare, salvo poi, la notte, a tirare una schioppettata nella schiena all'offensore. Capi e gesta di cosche erano noti alla polizia. Avvenuta un'uccisione di bestiame, un taglio di viti o un furto campestre in una data località, era facile indovinare l'ispiratore e il mandante, ma non altrettanto facile avere la prova giuridica del mandato; ché si trattava spesso di esecutori materiali tenuti nell'ombra, i quali se pure avevano confessato avanti al magistrato inquirente, ritrattavano in pieno quando dovevano deporre pubblicamente e solennemente davanti alla Corte di assise. Nella migliore ipotesi, i capi e i mandanti, cioè i maggiori responsabili, rimanevano sicuri e impuniti.

Il male era antico. Vi avevano contribuito un insieme di qualità e di condizioni proprie di quel popolo: fierezza, coraggio, senso di dignità personale, falso punto d'onore, passioni violente, Spirito di vendetta; e poi ancora le tristi condizioni economiche di non pochi ceti rurali, un'insoddisfatta sete di giustizia. Ma questi più o meno remoti presupposti sarebbero stati insufficienti a dilatare quel tristo disordine che va sotto il nome di mafia, se non avessero agito per secoli altri fattori. Tra essi, i più gravi di effetti furono il sistema feudale e il disordine pubblico, cronico nella storia del reame, i quali - per quel medievale sentimento di chi credeva provvedere alla tutela della sua persona e dei suoi averi mercé il suo valore e la sua influenza personale indipendentemente dall'azione dell'autorità e della legge - spinsero feudatarî, proprietarî, gabelloti di terre e di miniere ad assoldare squadre di uomini d'arme, facinorosi che proteggevano il castello e la masseria, a patto di essere difesi e protetti contro l'autorità per le prepotenze e le ruberie che commettevano su altri. Se necessità di difesa aveva introdotto la mafia, inclinazione al mal fare e ambizione di potenza e di prepotenza la fecero largamente diffondere. Il governo borbonico, impotente a reprimerla, la sfruttò a vantaggio del paese, scendendo a patti con essa. Se ne valse anzitutto, per resistere nel 1800 alla Rivoluzione francese in Sicilia; affidò poi il mantenimento dell'ordine in una determinata circoscrizione a una compagnia di armi, il cui capo si faceva mallevadore di sicurezza nell'ambito di essa. La legge eversiva della feudalità del 1812 non curò il male, essendo il governo il primo a servirsene; anzi, sospinti molti proprietarî dai campi e dai centri rurali verso la città, e cresciuta sul posto la classe dei gabelloti, si ebbero arbitrî maggiori in basso e in alto, si attutirono la pubblica coscienza e il senso morale e giuridico delle popolazioni, si radicò in tutti la convinzione che leggi e tribunali fossero un sovrappiù. Nel 1860, la mafia fu utilizzata per il movimento nazionale. Ma Garibaldi licenziò le squadre degli uomini d'arme e tentò di ricondurre l'ordine; furono eretti tribunali e polizia. La mafia si pose allora contro il nuovo ordine di cose, sfruttò e accrebbe il malcontento popolare, soffiò nel disagio economico, indubbiamente grave, dell'isola. Una commissione straordinaria nel '75, G. Nicotera nel '77, F. Crispi nel '95 e altri di poi si sforzarono di distruggerla. Ma invano. L'inanità degli sforzi e dei tentativi compiuti per circa un sessantennio di unità nazionale per reprimere la mafia, servì almeno a dimostrare che senza energia duratura e coordinati mezzi e accorgimenti nel potere centrale e negli organi periferici dello stato, vana impresa era sradicare quella secolare malattia sociale. E giacché presupposto fondamentale di ogni azione era il rafforzamento dell'autorità e ciò fu raggiunto negli ultimi tempi col regime fascista, col fascismo appunto fu posta la condizione prima per la buona riuscita di qualunque tentativo. Una vigorosa e talvolta spietata campagna per circa un quinquennio bastò a rompere la solidarietà della mafia del basso coll'alto; e una volta spezzata la catena del male, fu relativamente più agevole rompere i singoli anelli. Felice risultato, cui contribuirono pure da un lato l'istituzione del collegio nazionale, la nomina dei podestà da parte del potere esecutivo e la riforma delle amministrazioni comunali e provinciali che resero indipendenti deputati e autorità dalle passioni degli elementi municipali, e dall'altro un complesso di provvedimenti adottati dallo stato, dagli enti locali e da privati, tendenti a ridurre la piaga dell'analfabetismo, a dare strade e altre opere pubbliche a sterminate contrade impervie, a migliorare economicamente e moralmente il popolo, a trasformare la mentalità delle classi agrarie, nelle quali la mafia reclutava le più folte schiere di suoi adepti.

Bibl.: G. Ciotti, I casi di Palermo nel settembre 1866, Palermo 1866; C. Tommasi Crudeli, La Sicilia nel 1871; S. Sonnino e L. Franchetti, La Sicilia nel 1876, 2ª ed., Firenze 1925; Umiltà, Camorra e mafia, Neufchâtel 1878; R. Bonfadini, Relazione della Giunta per l'inchiesta sulle condizioni della Sicilia, Roma 1876; Damiani, Relazione sulla Sicilia, nell'Inchiesta agraria, vol. XIII; N. Colajanni, La delinquenza in Sicilia e sue cause, Palermo 1885; G. Alongi, La maffia, Torino 1886; N. Colajanni, Avvenimenti di Sicilia, 1893; id., La mafia dai Borboni ai Savoia, in Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali, Roma, 15 dicembre 1899, pp. 201-206; M. Vaccaro, La mafia, in Rivista d'Italia, dicembre 1899, pp. 686-704; G. Mosca, Che cosa è la mafia, in Giornale degli economisti, marzo 1900, pp. 236-262.

Vedi anche
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