Abstract
Le parole “minoranza” o “minoranze” e “opposizione” o “opposizioni” possono essere usate come sinonime, indifferentemente al singolare o al plurale, senza attribuire ad esse alcuna differenza. Però in alcuni contesti storico-sociali, soprattutto quando esse vengono usate in coppia con la parola “maggioranza” o “maggioranze”, acquistano significati più o meno differenti, per quanto sempre correlati. Nella presente voce si cerca di spiegare perché la coppia “maggioranza e opposizione parlamentari” (con la parola opposizione al singolare) può essere usata per designare uno specifico modello di governo parlamentare, e quando e perché la coppia “maggioranza e minoranze parlamentari” può avere significati differenziati secondo il contesto politico e costituzionale. Una volta chiariti i diversi possibili significati delle espressioni, scopo ed obbiettivo della voce è descrivere le più significative norme giuridiche e convenzioni costituzionali che danno sostanza specifica alla coppia “maggioranza e opposizione parlamentari” nel significato specifico qui adottato.
Richiamo l’attenzione anzitutto sulle parole del titolo: non si tratta propriamente di due parole ma di due sintagmi composti ciascuno da due parole, e cioè “maggioranza parlamentare” e “opposizione parlamentare”.
In secondo luogo i due sintagmi stanno in relazione-contrapposizione, e cioè la maggioranza presuppone l’opposizione e viceversa, e dunque l’una non può essere compresa senza l’altra, ma nello stesso tempo l’una non soltanto è distinta dall’altra, ma addirittura si oppone all’altra.
In terzo luogo viene usata la parola “opposizione parlamentare”, e non la parola “minoranza parlamentare”; inoltre viene usato il singolare e non il plurale.
Esiste, ed è molto e accuratamente studiata (v. infra, § 10), la coppia “maggioranza-minoranza”, nella quale ritorna la figura dialettica di due distinti che non possono esistere separatamente ma stanno l’uno in opposizione all’altro; ciò non toglie che sia la maggioranza che la o le minoranze possono essere studiate separatamente, limitandosi a presupporre il legame-opposizione tra i due aspetti: accade così ad esempio quando ci si chiede se ed in che senso può esistere una maggioranza (e necessariamente una o più minoranze), o secondo quali criteri va calcolata la maggioranza, e così via, cercando di rispondere alle molte domande che la tematica comporta.
Alla luce delle chiarificazioni prima illustrate si comprende perché non ci occuperemo di maggioranze e minoranze in tutta l’estensione delle parole, e neppure del tema maggioranza-minoranze parlamentari, ma volta per volta presupporremo o illustreremo alcune affermazioni in materia di maggioranza e minoranze (o più specificamente di maggioranza e minoranze parlamentari) se e quando sono necessarie per comprendere il tema specifico di questa voce (che è dedicata, vale la pena di sottolineare ancora una volta, a maggioranza e opposizione parlamentari).
Per quanto riguarda la distinzione tra opposizione parlamentare al singolare ed opposizioni parlamentari al plurale, e la ripresentazione della notevole particolarità linguistica (in realtà concettuale) per cui mentre “non” possono esistere “contemporaneamente” più maggioranze (possono esistere diverse maggioranze ma soltanto in senso diacronico), possono esistere nello stesso tempo più opposizioni parlamentari (come del resto più minoranze parlamentari o in generale più minoranze), si rinvia al seguito della voce.
Infine è innegabile che chi parla e scrive in italiano (ma anche in altre lingue che conoscono la distinzione linguistica) spesso usa “minoranza” e “opposizione”, al singolare ed al plurale, come parole sinonime, o comunque le usa indifferentemente senza cogliere alcuna differenza tra le due parole, anche quando un terzo osservatore capisce che in realtà l’osservato sta usando l’una o l’altra parola con leggero o forte slittamento di significato rispetto all’altra. Ovviamente la presente voce non può occuparsi di questo aspetto, che non riguarda i giuristi: qui interessa la distinzione tra le due parole “minoranza” e “opposizione” anzitutto se e quando è la norma scritta o la convenzione costituzionale che stabilisce la differenza, e poi se e quando il contesto normativo o convenzionale riscontrato spiega quando è opportuno o necessario ribadire la possibile differenza di significato proprio per capire l’insieme.
Per capire il significato di maggioranza parlamentare e di opposizione oppure opposizioni parlamentari bisogna pur sempre partire dal significato basilare delle parole maggioranza e minoranza.
Dato un insieme di esseri umani (tutti i cittadini, tutti gli elettori, tutti i votanti, tutti i parlamentari, e così via), è oggettivamente possibile che essi decidano congiuntamente sopra un determinato oggetto contando i voti. Tralasciando le molte questioni che possono nascere (e ricordando che è anche possibile, se così viene disposto, che per decidere basti una minoranza numerica dell’insieme, a conferma della complessità che assume una trattazione ampia e accurata della tematica), in questa sede ci interessa la distinzione tra maggioranza rispetto alla singola decisione (e quindi possibilità che decisione per decisione i singoli entro l’insieme votino diversamente, alcune volte venendo a far parte di quella specifica e puntuale maggioranza, altre volte restando in minoranza) e maggioranze precostituite, per cui una parte dell’insieme si costituisce come maggioranza e cerca di votare sempre compatta; automaticamente gli esclusi dalla maggioranza “con questo significato” (nota bene), esclusi sia per loro scelta sia per decisione della maggioranza che li rifiuta, diventano minoranza o minoranze.
I due tipi di maggioranza, qui per chiarezza denominati mediante i sintagmi “maggioranza per decidere” e “maggioranza per governare”, nel linguaggio comune dei politici e dei cittadini che si occupano di politica vengono indifferentemente chiamati “maggioranza”, con una sola parola: i due significati vengono presupposti ed il contesto in generale toglie ogni ambiguità.
In questa voce ci occuperemo della maggioranza nel significato di maggioranza per governare, e cioè insieme stabile di persone che si costituisce e riesce a rimanere maggioranza entro un organo collegiale, e quindi, se questo organo ha funzioni di governo (nel senso ampio del termine), si appropria di fatto di queste funzioni perché ogni volta che si decide ha la maggioranza, nel senso questa volta di maggioranza di voti per decidere (come si vede non può esistere maggioranza per governare se non è anche maggioranza per decidere; può darsi invece che vi siano insiemi che praticano il criterio della maggioranza numerica per decidere, altrimenti non potrebbero decidere, ma non praticano, quale che sia la ragione, maggioranze per governare).
Se però la maggioranza per governare che si è costituita entro un insieme collegiale dipende dai voti di un altro insieme (il caso canonico che qui ci interessa, e che verrà discusso, è quello del parlamento eletto dal corpo elettorale), è facile capire perché l’espressione maggioranza e opposizione (oppure opposizioni), ma anche maggioranza e minoranza (oppure minoranze) venga riferita allo stesso corpo elettorale con una sorta di rimbalzo all’indietro, per cui il voto determina la costituzione entro il parlamento elettivo di maggioranze e minoranze, e questo fatto ritorna indietro come accertamento di una maggioranza e di minoranze entro il corpo elettorale.
Peraltro a condizionare il voto degli elettori e lo schierarsi degli eletti sono i partiti politici; inoltre il mantenersi della maggioranza e delle minoranze dipende dalla disciplina di partito, dal fatto cioè che gli eletti nelle liste o con il simbolo di un partito conservano questa loro affiliazione e si impegnano e riescono a votare compatti come gruppo o di maggioranza o di minoranza; consegue da tutto ciò che è possibile e ragionevole parlare di maggioranza e di minoranza o minoranze riferendosi direttamene ai partiti: in base al risultato delle elezioni vi saranno uno o più partiti di maggioranza (secondo che la maggioranza è formata da un solo partito o dalla alleanza di due o più partiti) e uno o più partiti di minoranza.
In sintesi, quando si parla di maggioranza e minoranza o minoranze, nella vita politica se ne parla in tre sensi collegati: a) maggioranza e minoranza entro il parlamento (o comunque assemblea eletta dal corpo elettorale, a livello nazionale o regionale o locale); b) partito o partiti di maggioranza e partito o partiti di minoranza; c) maggioranza e minoranze nel corpo elettorale. L’elemento che li collega e dà certezza numerica al tutto, almeno in origine, sono i risultati elettorali, con la importante differenza che il corpo elettorale resta ufficialmente congelato al risultato elettorale, non essendoci alcun altro strumento se non le successive elezioni per verificare quale è la maggioranza del corpo elettorale (se maggioranza univoca c’è stata) e quali sono le minoranze, mentre sia i partiti che gli eletti appartenenti ai partiti (se esiste il divieto di mandato imperativo) in punto di diritto possono continuamente dividersi e accorparsi come vogliono, e quindi la individuazione della maggioranza e delle minoranze prodotta dal corpo elettorale è certa o nel momento della proclamazione del voto (se il sistema elettorale permette un tale risultato ufficiale) o comunque con la costituzione del primo governo, ma niente garantisce che resti tale per tutta la legislatura.
Esiste anche l’espressione “maggioranza di governo” o “maggioranza governativa”: poiché questa espressione presuppone come contesto la forma di governo cd. parlamentare, se ne tratterà nel prossimo paragrafo (v. infra, § 4).
Nulla può garantire che si costituisca una maggioranza nel senso di maggioranza precostituita e stabile prima illustrato.
A questo punto emergono i molti presupposti impliciti quando oggi parliamo di maggioranza e minoranze (oppure opposizioni) parlamentari: presupponiamo la democrazia, il suffragio universale, il divieto di mandato imperativo, i diversi sistemi elettorali, le forme di governo, i partiti. Volta per volta dovranno emergere quegli aspetti dell’intero sistema politico necessari per comprendere il nostro tema specifico.
Per capire la distinzione maggioranza parlamentare-opposizione parlamentare (ma anche opposizioni parlamentari al plurale) bisogna ricordare l’esistenza della forma di governo parlamentare (con la conseguenza che quello che diremo non vale, o vale con molte varianti, eccezioni e precisazioni rispetto ad altre forme di governo ed in particolare rispetto a quella presidenziale, come è quella, ad esempio, degli Stati Uniti).
Ciò che caratterizza la forma di governo parlamentare è il rapporto di fiducia tra l’organo governo (organo collegiale con un primo ministro che lo dirige), titolare della funzione esecutiva, ed il parlamento, organo eletto dal corpo elettorale, titolare della funzione legislativa, per cui il governo resta in carica finché gode della fiducia del parlamento, il parlamento può in ogni momento dare la sfiducia e in questo modo rimuovere il governo, ed è previsto, oltre lo scioglimento dovuto del parlamento ogni “x” anni, anche lo scioglimento anticipato; che cosa deve o può succedere dopo la sfiducia dipende dalla costituzione, ma le alternative possibili nell’essenziale sono soltanto due: a) o è possibile politicamente che si formi un nuovo governo e che il parlamento dia la fiducia a questo nuovo governo, oppure b) non è possibile, ed allora non resta che lo scioglimento.
È evidente che il meccanismo funziona al meglio se, data la fiducia ad un governo all’inizio della legislatura, questa fiducia dura per tutta la legislatura. Però il meccanismo funziona, meno bene, ma funziona, se, apertasi una crisi di governo nel corso della legislatura, il parlamento è in grado di dare la fiducia ad un nuovo governo.
Il caso normale è quello in base al quale il governo ottiene in voti la maggioranza assoluta del parlamento, e quindi entro il parlamento si forma una maggioranza anche numerica certa. Se esaminiamo la composizione di questa maggioranza possiamo avere essenzialmente due casi: a) la maggioranza è costituita dai parlamentari di un solo partito; b) la maggioranza è costituita da una alleanza tra due o più partiti (tali comunque da raggiungere almeno la maggioranza assoluta dei seggi). Una volta che si è costituita la maggioranza in questo senso, tutti gli altri parlamentari che non ne fanno parte stanno all’opposizione, ma è ben possibile che si oppongano in modi diversi, e che questi modi caratterizzino stabilmente gruppi distinti: in altre parole si costituiscono minoranze che politicamente sono opposizioni nei confronti della maggioranza politica e numerica del parlamento.
Va però sottolineato che la distinzione tra maggioranza ed opposizioni si applica all’organo elettivo parlamento, ma non all’organo governo: all’interno di questo organo (collegiale come accade costantemente nella forma di governo parlamentare) partecipano soltanto persone che si riconoscono nella maggioranza.
Il modello ideale di governo parlamentare secondo molti (ed in Italia secondo la maggioranza sicuramente delle forze politiche, forse anche dei cittadini) è quello chiamato Westminster (è quello britannico, che conferma la sua priorità nel tempo e nel funzionamento della forma di governo parlamentare, che è stato inventato, per dir così, proprio in quel Paese, nel corso di due secoli; la distinzione tra modello Westminster e modello consensuale o consociativo è divenuta molto conosciuta e seguita con il libro di Lijphart, A., Le democrazie contemporanee, tr. it., Bologna, 1988). L’aspetto ironico della faccenda sta nella constatazione che il modello Westminster è entrato in crisi proprio in Gran Bretagna: mentre per decenni (praticamente un secolo) il sistema si basava su due partiti principali, ciascuno dei quali era in grado di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi nelle elezioni, cosicché ora vinceva un partito, ora l’altro, nel 2010 è accaduto l’imprevisto: nessun partito ha ottenuto la maggioranza assoluta in seggi, e si è costituito un governo di coalizione tra due partiti (nel 2015 prima delle elezioni molti prevedevano una ripetizione del 2010, ed invece il partito conservatore ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi; in ogni caso è bene non eternizzare fenomeni politici: anche il bipartitismo inglese può entrare in crisi, anzi sul piano politico sostanziale è già in crisi, e solo un sistema elettorale particolare come quello inglese può nascondere per qualche tempo il fenomeno).
Resta il modello (e il nome, che ormai lo designa) che spiega l’espressione “maggioranza parlamentare” e “opposizione parlamentare” (al singolare): un modello “bipartitico”, nel quale esiste un solo partito di maggioranza, e praticamente un solo partito all’opposizione, e tutto il gioco politico ruota intorno alle elezioni periodiche, per cui chi vince resta in carica per tutta la legislatura e chi ha perduto svolge il suo compito ufficiale di opposizione e può sperare di vincere nelle successive elezioni. Questo modello dunque si caratterizza per il “bipartitismo”.
Esso sta alla base di un altro modello che cerca di ottenere per quanto possibile lo stesso risultato: il “bipolarismo”. Nessun partito ottiene la maggioranza assoluta, ma si costituiscono due blocchi di partiti, uno di destra ed uno di sinistra, e nelle elezioni ora vince uno, e l’altro costituisce l’opposizione (di nuovo al singolare), ora vince l’altro, e i ruoli si invertono.
Ora diventa chiara la ragione ed il senso della espressione “maggioranza e opposizione parlamentari” e la differenza con la espressione similare maggioranza-minoranze parlamentari (minoranze al plurale): con la prima si intende qualificare il modello Westminster o un modello quanto più vicino è possibile; con la seconda si descrive più semplicemente il fatto per cui negli organi collegiali direttamente rappresentativi si determina in qualche modo una maggioranza per un certo periodo, e vi sono una o più minoranze nel medesimo periodo.
Sul piano giuridico, che a noi interessa in questa voce, si tratta di individuare quali sono le regole che ora intendono favorire la maggioranza, ora intendono garantire le minoranze; tra tutte queste regole però possono essere già in vigore o venire auspicate regole che non solo riguardano maggioranza e minoranze, ma intendono giungere fino alla costituzione e conservazione della coppia maggioranza-opposizione parlamentari nel senso specifico prima descritto, e quindi favorire o il bipartitismo o almeno il bipolarismo.
Questa voce è dedicata a questo secondo tipo di regole, e tratterà di quelle più generiche e generali in tema di maggioranza e minoranze parlamentari nella misura in cui queste regole possono aiutare a chiarire per differenza la specificità delle regole che intendono costruire e preservare la coppia maggioranza-opposizione parlamentari, ma anche quelle regole che possono essere usate dalla forze politiche nella direzione del modello Westminster (comprensivo per convenzione qui seguita sia del bipartitismo sia del bipolarismo).
Prima però di entrare dentro questa analisi è necessario esaminare l’altro modello base di governo parlamentare, quello consensuale o consociativo, come viene detto, per la ragione che anche questo modello conosce necessariamente regole che disciplinano i rapporti tra maggioranza e minoranze, ma non intende favorire il rapporto maggioranza–opposizione parlamentari nel senso convenzionale che ormai la denominazione ha acquistato (e che comunque viene seguito in questa voce).
Va ribadito quanto già detto a proposito del modello Westminster: sia quello sia questo che ora intendo esaminare non sono imposti e non possono essere imposti dalla costituzione; sono il risultato del gioco politico, e quindi del modo che le forze politiche seguono nell’utilizzare il sistema di governo; al più si può con ragione notare e sostenere che vi sono norme giuridiche e convenzioni costituzionali che favoriscono l’uno o l’altro modello, oppure rendono più difficile l’instaurarsi dell’uno o dell’altro modello. Così, per anticipare l’elemento importante riconosciuto da tutti, un sistema elettorale proporzionale rende difficile se non impossibile il modello Westminster, tanto più quanto più è proporzionale; viceversa un sistema maggioritario favorisce il modello Westminster, sia nella forma del bipartitismo sia nella forma del bipolarismo, soprattutto quando il sistema elettorale contiene al suo interno specifici marchingegni, alcuni dei quali saranno esaminati in seguito, introdotti proprio col fine di favorire al massimo il modello Westminster.
Vediamo ora in che cosa consiste il modello consensuale o consociativo. Non solo non esistono due soli partiti principali che si alternano nel potere, ma neppure due poli “precostituiti”. La cosa si vede chiaramente in sede di presentazione dei candidati alle elezioni, se i partiti si presentano ciascuno distinto dall’altro, e si riservano di stabilire alleanze soltanto “dopo” che sono avvenute le elezioni (è il caso tipico che si è verificato in Italia dal 1948 al 1994, ricordando però la conventio ad excludendum nei confronti del Pci e del Msi, cosicché soltanto tutti gli altri partiti presenti erano politicamente ammessi alle trattative per il Governo, tranne il brevissimo periodo del cd. “compromesso storico” (1976-1978), durante il quale il Pci sostenne il Governo ma dall’esterno, senza avere ministri, tentativo che scomparve con l’assassinio di Aldo Moro). Nel modello qui descritto ciascun partito prima intende verificare il grado di consenso che riceve, e quindi qual è la forza politica che può gestire e far valere nelle trattative successive, e poi eventualmente decide di allearsi con altri partiti per formare una maggioranza politica (e quindi determinare necessariamente una o più minoranze politiche). Non è escluso che in alcune esperienze i partiti decidano di allearsi pubblicamente prima del voto, cosicché il corpo elettorale vota non solo per il proprio partito ma anche per la maggioranza di governo, e spesso anche per il capo del governo se i partiti alleati hanno designato chi sarà il capo in caso di vittoria (è il caso molto frequente in Germania, con l’avvertenza che ivi vale anche la regola convenzionale rigorosamente rispettata per cui la carica di cancelliere spetta comunque al partito della coalizione che ha ottenuto più voti rispetto agli altri partiti della stessa, e in ogni caso non vi può essere scissione tra la carica di capo del partito e capo del governo; vale la pena di ricordare che non sono state queste le convezioni praticate in Italia nella cd. prima repubblica: la carica di Presidente del Consiglio fino agli anni ottanta è stata pacificamente sempre del partito più grande della coalizione, e cioè la DC, ma dagli ani ottanta al 1994 si era affermato il principio per cui la carica poteva spettare anche ad uno dei partiti minori della coalizione; nella DC vigeva il principio per cui la stessa persona non poteva ricoprire la carica di primo ministro e di capo del partito; ricordo queste convenzioni per mostrare le particolarità che può assumere il modello consensuale, e che il modello Westminster non tollera). Però, anche se i partiti dichiarano prima del voto come intendono coalizzarsi nel caso nessuno ottenga la maggioranza assoluta dei seggi, questo elemento non determina di per sé la nascita e la conservazione di un bipolarismo (e cioè di un modello Westminster attenuato): le coalizioni di governo, sia che vengano annunciate prima del voto sia che si formino dopo il voto, variano continuamente da elezione ad elezione e nel corso della legislatura, e addirittura si verifica anche il caso che la maggioranza governativa venga formata da una coalizione tra i due maggiori partiti.
Questo modello consensuale aiuta a chiarire in che senso è opportuno distinguere tra minoranza e opposizione, distinzione a cui viene dedicato il prossimo paragrafo (v., infra, § 7).
Sono innumerevoli i casi, all’interno di un collegio (ad esempio, il parlamento), nei quali un numero prefissato di membri, minore comunque della maggioranza, e spesso molto minore, ha il potere di fare qualcosa. Talvolta questo potere viene esercitato per ragioni politiche contro altri partiti, ma non è detto e comunque la cosa non rileva giuridicamente; talvolta viene esercitato per opporsi alla maggioranza governativa, e quindi diventa corretto sul piano descrittivo usare al posto di “minoranza” la parola “opposizione”; ma altre volte si tratta di una minoranza che in principio si oppone alla maggioranza governativa ma nel caso specifico non intende opporsi ad essa; addirittura esistono molti casi nei quali quelli che usano la regola, che prevede un numero minimo comunque inferiore alla maggioranza per fare qualcosa, fanno parte della maggioranza governativa, cosicché ha senso parlare di minoranze ma è contrario a verità parlare di opposizioni. In sintesi, se ogni opposizione è necessariamente anche minoranza (o diventa opposizione se si sposta dalla maggioranza, di cui faceva parte, appunto verso l’opposizione), non ogni minoranza è o diventa opposizione.
Da questa precisazione derivano tre conseguenze ai fini di questa voce: a) non verrà fatto alcun tentativo di individuare nel nostro ordinamento, ed in particolare nel diritto parlamentare, tutti gli innumerevoli casi nei quali le norme attribuiscono un potere quale che sia, o un compito, o un onere, o un obbligo, ad un gruppo minimo di membri del collegio; b) vi sono alcuni casi significativi nei quali il diritto parla di minoranza, o neppure dice minoranza ma comunque prevede il costituirsi di un gruppo minimo di persone in vista di un determinato scopo, ed è possibile che il gruppo usi il potere previsto per manifestare opposizione alla maggioranza governativa (cioè dentro la previsione normativa è presente questa possibilità di fatto); c) vi sono pochissimi casi nei quali la norma espressamente parla di opposizione o opposizioni e non di minoranza o minoranze, oppure vi sono casi nei quali le norme parlano di minoranza o minoranze, oppure ancora non parlano né di opposizione né di minoranze, ma lo scopo delle norme giuridiche o delle convenzioni costituzionali è chiaramente quello di favorire e garantire la o le opposizioni.
È ovvio che in questa voce si cercherà di illustrare quante più possibili norme giuridiche e convenzioni costituzionali che rientrano nel caso c), non si parlerà ovviamente, come già detto, del caso a), e si cercherà di esaminare alcuni esempi significativi del caso b), ricordando per la verità che è spesso impossibile discriminare il caso b) dal caso c).
L’istituto che con assoluta evidenza e maggiore efficacia istituzionalizza e garantisce l’esistenza e le funzioni della opposizione (al singolare) è lo Shadow Cabinet (“governo ombra” è la buona traduzione entrata nell’uso in italiano): la legge inglese dal 1937 prevede, e retribuisce, il capo della opposizione, che è, per convenzione costituzionale rigorosamente rispettata, anche il capo del partito che sta all’opposizione, ed il certo candidato alla carica di primo ministro nelle successive elezioni (sempre che ovviamente ed eccezionalmente non venga sostituito come leader del partito secondo le regole proprie dello stesso partito). Il leader dell’opposizione a sua volta designa tutti i membri del governo ombra, che nell’immediato hanno il compito di seguire e tenere sotto osservazione e criticare le cariche analoghe della maggioranza, e in prospettiva sono l’ossatura del futuro governo se il partito di opposizione vincerà le elezioni successive. Sarebbe troppo lungo descrivere in tutta la sua estensione ed efficacia l’istituto sia nelle parti normate giuridicamente sia nelle parti normate mediante convenzioni costituzionali.
Per due tentativi rapidamente abortiti di governo ombra in Italia, il primo nel 1989 (Occhetto del PCI) e nel 2008 (Veltroni del PD), si rinvia alle cronache giornalistiche del tempo. Un terzo tentativo del marzo 2014 di Forza Italia è stata una trovata propagandistica di corto respiro, data la situazione in cui versa quel partito.
Come già detto i sistemi elettorali possono favorire il bipartitismo, oppure il bipolarismo, oppure addirittura garantire ad una lista o coalizione la vittoria in seggi se ottengono un solo voto in più di ciascun altra lista o coalizione, costringendo l’elettorato in questo caso ad una specie di bipartitismo o bipolarismo coatto.
Il sistema classico e sperimentato che induce al bipartitismo (ma, si noti, non lo garantisce) è quello inglese (meglio anglosassone, seguito praticamente in tutti i Paesi del Commonwealth e negli Stati Uniti oltre che in Gran Bretagna) basato sul collegio uninominale secco, per cui nel collegio è in palio un solo seggio, vince il seggio il candidato che ottiene un solo voto in più di ciascun altro, e non è prevista alcuna forma di recupero dei voti dei perdenti (vi sono e vi possono essere invece sistemi che prevedono forme di recupero e quindi non praticano il collegio uninominale secco, come si dice in gergo). È del tutto ovvio che in tutti i collegi la lotta elettorale si riduce rapidamente ai due partiti più forti, giacché il terzo ha poche possibilità di vittoria, sarà quasi sempre o terzo o secondo rispetto ad uno degli altri due; trasferito a livello nazionale, il meccanismo favorisce i due partiti nazionali più forti, che, vincendo ora l’uno ora l’altro nei collegi, si spartiscono la quasi totalità dei seggi, ed il terzo partito, pur con percentuali nazionali alte, ottiene pochissimi seggi. Può sfuggire a questo risultato un partito locale molto concentrato in una regione, che, vincendo nella maggior parte dei seggi in quella regione, riesce addirittura ad ottenere in parlamento più seggi di quanto gliene spetterebbero in base ad un criterio proporzionale. Come è noto e come è facile capire, può anche accadere che un partito ottenga il maggior numero di voti popolari a livello nazionale, e ciononostante perda in seggi a favore dell’altro partito, che è giunto primo in un numero maggiore di collegi. Le recenti elezioni inglesi del 2010 dimostrano però che il meccanismo non garantisce affatto il bipartitismo, inteso come possibilità di alternanza al potere di due soli partiti, e molti cominciano infatti a parlare di crisi del modello e di necessità di un diverso sistema elettorale.
In Francia vige un sistema elettorale sia per la elezione del presidente sia per la elezione dei parlamentari basato sul doppio turno e su collegi uninominali per i parlamentari: un solo candidato può essere eletto, nel collegio uninominale per i parlamentari, a livello nazionale per il presidente; vince il seggio il candidato che ottiene la maggioranza assoluta dei voti; se nessuno ottiene tale maggioranza, si vota una seconda volta, ed a livello locale possono partecipare come candidati a questa elezione solo coloro che hanno ottenuto il 12,5% dei voti, ed a livello nazionale i primi due: in tal modo nel secondo turno, sia a livello locale che nazionale, le chances di vittoria si riducono ai primi due votati, e questo induce i candidati votabili (e quindi i loro partiti) a chiedere sostegno anche degli altri a loro vicini; in tal modo nel primo turno tutti i partiti misurano se vogliono la propria forza elettorale, e nel secondo si creano politicamente due blocchi, uno di destra ed uno di sinistra.
Un sistema elettorale che addirittura ha avuto lo scopo ed ha ottenuto il risultato di garantire la certa maggioranza in seggi ad una lista o ad una coalizione (obbligando quindi tutte le forze politiche che avevano possibilità di vittoria a schierarsi in due liste o più probabilmente due coalizioni, come è accaduto) è quello previsto dalla l. 21.12.2005, n. 270 (dichiarata incostituzionale per due punti cruciali dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014), per quanto riguarda la Camera dei deputati (nel caso del Senato la conclusione è meno certa, perché il premio veniva calcolato su base regionale, e dunque non garantiva matematicamente la maggioranza assoluta dei seggi ad una sola lista o coalizione risultata vincente sul piano dei voti elettorali). Come è noto, la lista o coalizione che otteneva un voto in più di qualsiasi altra, otteneva 340 seggi, quale che fosse la percentuale dei voti ottenuti sul totale, tale da superare la maggioranza assoluta della Camera dei deputati (la Corte ha dichiarato incostituzionale proprio questo premio, con l’argomento che, non essendo prevista alcuna soglia minima di voti sul totale, la legge stravolgeva oltre ogni ragionevolezza e proporzionalità il principio della rappresentanza politica).
Ma anche la recentissima l. 6.5.2015, n. 52, che sostituirà, a partire dal 1.7.2016, quella del 2005 (divenuta proporzionale per effetto della sentenza della Corte costituzionale citata), prevede un premio di maggioranza tale da assegnare, questa volta soltanto ad una lista e non più ad una coalizione, 340 seggi nella Camera dei deputati (la legge come è noto non modifica il sistema elettorale per il Senato in attesa che venga approvata la riforma costituzionale che abolisce il bicameralismo perfetto).
È evidente che questa legge cerca di creare addirittura, non soltanto di favorire, il bipartitismo, e comunque potrebbe creare una forma anomala di bipolarismo (anomala perché si manifesterebbe come finto bipartitismo forzato da norme strangolatrici): soltanto due liste (le coalizioni di liste sono escluse) hanno possibilità di vittoria, al primo come al secondo turno, e dunque o vi saranno due partiti l’uno in opposizione all’altro che superano nettamente tutti gli altri (e sono gli unici a poter giocare la partita per quanto riguarda la maggioranza assoluta dei seggi, nel primo o nel secondo turno), oppure vi saranno liste formalmente singole, con un solo nome ed un solo contrassegno, costituite però mediante la coalizione di più partiti.
Un sistema che favorisce il bipolarismo è quello vigente in Italia nelle Regioni e nei Comuni (tralascio le province perché destinate a scomparire e comunque oggi non più elette direttamente; tralascio le città metropolitane perché anche per esse l’elezione è di secondo grado). Se il presidente della regione e il sindaco sono eletti nel primo turno con la maggioranza assoluta o relativa, e se nel secondo turno (quando previsto) possono concorrere solo i primi due votati e vince il seggio quello che ottiene un voto in più dell’altro, se le elezioni del consiglio sono contestuali a quelle del presidente o del sindaco (come sono) e addirittura il voto al sindaco (o presidente della regione se così la legge elettorale prevede) trascina il voto del consiglio per cui vince in seggi la stessa lista o coalizione che presenta il candidato eletto a sindaco (o presidente), è evidente che si creano due blocchi in competizione l’uno contro l’altro perché solo così si può ottenere la vittoria. Se poi si prevede, come prevede la Costituzione per le Regioni, e come prevede la legge statale per i sindaci, che le dimissioni del sindaco o del presidente, o la sfiducia votata dai consigli nei loro confronti, determinano automaticamente lo scioglimento del consiglio (secondo il principio simul stabunt simul cadent), il bipolarismo si rafforza intorno alla figura del presidente o del sindaco, fino al punto che i consigli perdono ogni funzione.
Un altro meccanismo da considerare nella direzione del bipolarismo va sotto il nome gergale di “antiribaltone”. Un meccanismo del genere, consistente nell’obbligo incondizionato dello scioglimento del parlamento nel caso in cui esso dia la sfiducia al governo, è presente nelle costituzioni della Romania (art. 89), della Repubblica Ceca (art. 35), della Lituania (art. 58: informazioni tratte da Bartole, S., Democrazia maggioritaria, in Enc. dir., Agg., V, Milano, 2001, 353). In Italia è stato fatto un tentativo politico in questa direzione. Siamo nel 1994, si è votato con la nuova legge del 1993, e si sono affrontati nelle elezioni due blocchi contrapposti di partiti, che hanno dichiarato prima del voto la loro alleanza per il governo ed uno dei due, quello di destra, ha anche designato il proprio candidato alla carica di Presidente del Consiglio (per la cronaca, Berlusconi). Il blocco di destra vince, e quindi Berlusconi viene nominato Presidente del Consiglio, ma l’alleanza si rompe dopo pochi mesi. Berlusconi è costretto a dimettersi perché non ha più la fiducia, ma pretende dal Presidente della Repubblica, Scalfaro, lo scioglimento anticipato delle Camere, con l’argomento che, essendo stato eletto in sostanza del voto popolare, solo un nuovo voto popolare può “eleggere” un nuovo capo del Governo. Il Presidente Scalfaro replica con fermezza che, secondo non tanto la prassi repubblicana sempre seguita, ma secondo Costituzione, il Presidente della Repubblica prima deve verificare se a seguito della sfiducia esiste nelle Camere una nuova maggioranza politica, e soltanto dopo aver accertato la inesistenza di tale maggioranza può e deve sciogliere anticipatamente le Camere. Così fa e trova che le Camere sono pronte a sostenere un nuovo governo che prende il posto del precedente sfiduciato. Nonostante le furibonde critiche a Scalfaro (insultato dalla destra per tutta la sua vita), in tutti gli anni successivi i Presidenti della Repubblica si sono attenuti al principio ribadito da Scalfaro, con il consenso di tutti (compreso Berlusconi, che non ha più preteso lo scioglimento delle Camere dopo essersi dimesso).
Tradurre in norme giuridiche vincolanti la pretesa avanzata a suo tempo da Berlusconi e dal suo partito, mantenendo il rapporto di fiducia tra governo e parlamento elettivo, non sarebbe facile: in ogni caso bisogna aggirare il principio del divieto di mandato imperativo.
Trattiamo ora di quelle norme giuridiche o convenzioni costituzionali che, accertato che esistono partiti all’opposizione, offrono tutele e garanzie a tali opposizioni e talvolta aggiungono a questo intento anche quello di favorire il bipolarismo.
Per alcuni anni, nella cd. prima repubblica, si era affermata la convenzione costituzionale per cui la presidenza di una delle Camere spettava al maggior partito di opposizione, e cioè il Pci; per la verità questa convenzione non era dettata tanto dal desiderio di tutelare le opposizioni, quanto dalla necessità di offrire al Pci un qualche compenso per la esistenza riconfermata della conventio ad excludendum. Però la cosa merita di essere ricordata perché non si può escludere che la convenzione costituzionale venga riproposta (come del resto è stata riproposta a suo tempo come tutela delle opposizioni in regime di sistema elettorale maggioritario, peraltro senza risultato), proprio per dare garanzie alle opposizioni. È invece in atto una convenzione costituzionale per cui alcune commissioni bicamerali, quelle che hanno compiti di controllo, come ad esempio la Commissione di vigilanza sulle radiotelevisioni, siano presiedute da un parlamentare designato dalle opposizioni (dalle minoranze che stanno all’opposizione, essendoci anche gruppi minoritari che fanno parte della maggioranza): il meccanismo ha natura convenzionale perché sul piano giuridico il presidente viene eletto con la maggioranza prescritta dalla legge o dai regolamenti parlamentari, e soltanto un accordo tra i partiti consente che la maggioranza prescritta venga raggiunta convergendo su un parlamentare proposto dalle opposizioni (per questa ragione le opposizioni debbono concordare tra loro il nome da proporre, e in tal modo si ottiene anche il risultato di favorire il bipolarismo, oltre che la tutela delle opposizioni).
Viene sempre citata la norma della vigente Costituzione tedesca (art. 44), introdotta già nella Costituzione di Weimar, per cui le commissioni parlamentari d’inchiesta vengono istituite per decisione di una minoranza di parlamentari (basta che a richiederle sia un quarto dei parlamentari del Bundestag, anche se, va ricordato, per quanto riguarda la composizione riprende vigore il principio della maggioranza).
La Costituzione italiana nell’art. 83, co. 2, prevede che al Parlamento in seduta comune che deve eleggere il Presidente della Repubblica partecipino tre delegati per ciascuna regione (tranne la Val d’Aosta che ne ha soltanto uno), eletti dal consiglio regionale «in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze» (correttezza vuole che almeno uno dei delegati appartenga alle opposizioni, cioè a gruppi di minoranza che stanno all’opposizione politica contro la maggioranza politica del Consiglio).
Vi sono mutamenti legislativi che non si comprendono se non si sa lo scopo politico nascosto che li ha ispirati. Nel nostro tema è il caso dei membri cd. laici del Consiglio superiore della magistratura: perché la legge vigente vuole che siano otto (prima erano nove, e prima ancora dieci), perché in realtà quando fu approvata la legge vi erano due blocchi contrapposti e dominava la volontà di favorire il bipolarismo, cosicché i partiti sostenitori di questa tendenza concordarono il numero di otto con la promessa che quattro sarebbero spettati ad un blocco e quattro all’altro (raggiungendo in tal modo l’alto quorum previsto in Costituzione). Lascio alle cronache, del passato e del futuro, la verifica intorno al rispetto o al crollo della convenzione implicita nella riforma legislativa (che di per sé naturalmente non dice nulla sul punto limitandosi a stabilire che otto sono i membri che il Parlamento in seduta comune deve eleggere con le maggioranze prescritte in Costituzione).
La notazione di cui sopra chiarisce anche perché, a differenza di quanto avveniva nella prima repubblica (nella quale si erano consolidate convenzioni costituzionali sufficientemente rispettate, su cui si veda la voce Convenzioni costituzionali), oggi è così difficile per il Parlamento in seduta comune eleggere i giudici della Corte di sua spettanza: sono cinque, e non quattro (come si vede il bipolarismo ha bisogno di regole e pratiche conseguenti).
Infine ricordo che il Comitato per la legislazione della Camera dei deputati (che ha il compito di garantire per quanto possibile mediante pareri la migliore redazione delle proposte di legge) è composto «di dieci deputati, scelti dal Presidente della Camera in modo da garantire la rappresentanza paritaria della maggioranza e delle opposizioni» (art. 16 bis del reg. Cam.): il testo parla da solo in favore di tutto quanto è stato scritto in questa voce.
Una analisi accurata dell’intero regolamento Camera, come di quello Senato, permette spesso di chiarire quando e perché il testo talvolta parla appropriatamente di opposizioni, quando invece parla di minoranze che non necessariamente sono opposizioni, quando parla di minoranze che potrebbero essere opposizioni piuttosto che minoranze, quando usa la parola minoranza ma bisogna intendere secondo la ratio che si tratta di opposizioni, quando infine, sia che si parli di minoranze sia che si parli di opposizioni, il fine delle norme è quello di favorire il bipolarismo. Un compito che spetta ad un trattato di diritto parlamentare.
Naturalmente, inseguendo le norme giuridiche, le convenzioni costituzionali, le pratiche di altri ordinamenti, è possibile trovare innumerevoli altri esempi che chiariscono il significato che possono acquistare le espressioni maggioranza e opposizione parlamentare (al singolare) oppure maggioranza e opposizioni parlamentari (al plurale), o maggioranza e minoranze parlamentari, oppure più in generale maggioranza e minoranze nella vita politica. Non escludo naturalmente che anche nel nostro sistema politico e costituzionale vi sano esempi chiarificatori ulteriori oltre quelli citati. A parte il fatto che si tratta di impresa enorme e forse inutile, le esemplificazioni descritte mi pare siano più che sufficienti per capire le ragioni ed il senso di questa voce.
Mi resta soltanto da ribadire che la tematica maggioranza-opposizione, o opposizioni, o minoranze, è sostanzialmente di ordine politico: quello che può fare il diritto, come sempre, è non impedire, se nulla prescrive in materia, talvolta favorire, altre volte ostacolare dinamiche spontanee della vita sociale e politica.
La conclusione che nella voce viene trattata una tematica essenzialmente politica spiega perché non ha senso cercare fonti del diritto in senso proprio; al più volta per volta si possono citare norme giuridiche che favoriscono oppure ostacolano la dinamica politica alla quale alludono le parole del titolo della voce; le norme che chiariscono e descrivono le esemplificazioni prese in considerazione nel testo sono citate nel corso della trattazione; d’altra parte spesso non si tratta di norme giuridiche, ma di regole tratte da convenzioni costituzionali, che per definizione non sono fonti del diritto.
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