magia
Originariamente, la dottrina e la pratica dei magi persiani, poi, la «somma scienza» che presume di dominare le forze della natura; anche l’insieme di pratiche che, nell’uso popolare, tendono comunque a quel dominio, come la fattura, l’incantesimo, ecc.
La definizione del termine magia è stata ed è tuttora molto discussa dagli studiosi di storia delle religioni. All’inizio degli studi comparatistici (E.B. Tylor), orientati nel senso di un evoluzionismo assoluto, la m. fu considerata come il tentativo più primitivo, e perciò meno adeguato, di determinare rapporti causali: scambiando le mere successioni temporali e associazioni soggettive per nessi causali obiettivi («post hoc, propter hoc»), l’uomo primitivo avrebbe creato una ‘pseudo-scienza’ il cui fine era il controllo delle forze della natura. Poiché pratiche dirette a promuovere effetti nella natura si riscontrano anche nel campo religioso, J. G. Frazer affrontò il problema della differenza tra m. e religione, che a suo parere rispondono a due forme mentali opposte: per la religione il mondo è retto da esseri personali soprannaturali, cui ci si rivolge con preghiere e sacrifici, mentre la m. presuppone un sistema di forze impersonali su cui è possibile agire in modo coercitivo; sempre secondo Frazer, la religione è storicamente posteriore alla m., in quanto sorta dalla delusione umana provocata dai fallimenti continui delle operazioni magiche. La distinzione frazeriana venne logicamente a cadere con il sorgere del cosiddetto preanimismo o dinamismo, che individuava la fase più primitiva della religione non nell’animismo, cioè nella distinzione di una ‘anima’ personale dalle cose che ne possono esser dotate, ma in una forma ancora più primitiva, in cui alle forze inspiegabili operanti nella natura non si attribuiva ancora alcuna responsabilità (il termine melanesiano mana sembrava corrispondere a questo concetto di misteriosa potenza impersonale). In questa prospettiva, religione e m., secondo E.S. Hartland, si fondano sulla medesima esperienza e si distinguono solo secondariamente, in base all’atteggiamento verso il «mana»: nella religione tale atteggiamento è passivo (il sacerdote è posseduto in misura eccezionale dal «mana»), mentre nella m. è positivo (il mago – stregone, fattucchiere, medicine-man, sciamano – possiede e accumula in sé una quantità eccezionale di «mana»). La comune radice di m. e religione trasparirebbe anche dal fatto che in tutte le religioni si notano elementi magici: la preghiera non sempre si distingue dall’incantesimo, così come il sacrificio dall’operazione magica coercitiva; la personalizzazione delle ‘potenze’ avverrebbe successivamente in entrambi i campi. Quando tuttavia si appurò che anche i popoli più primitivi conoscevano divinità personali (in molti casi anche un Essere supremo), tale tesi finì per condividere la sorte di tutto l’evoluzionismo classico. Volendo operare ancora con il termine m. sembrò più utile circoscriverne il contenuto, quale che fossero l’ambiente o l’epoca culturale cui lo si riferiva, anziché postulare una sua appartenenza alla fase più primitiva delle civiltà, oppure vedere in esso una forma rudimentale della scienza o della religione. Così, J. E. Lehmann limitò il significato del termine alle pratiche fondate sulla ‘superstizione’, intendendo per questa ogni credenza messa al bando dalla cultura (religiosa e scientifica) di una società. Meno esteriore è la concezione di H.-P.-E. Hubert e di M. Mauss, che riconoscono tra m. e religione soltanto una differenza di carattere sociale, sottolineando nella religione l’essenziale aspetto collettivo e nella m. la posizione marginale rispetto a ogni culto organizzato. Anche R.R. Marett, sostenitore del preanimismo, ritiene che solo l’aspetto antisociale distingua le tecniche magiche dai riti religiosi. Oggi, in sostanza, il concetto della m. è piuttosto empirico ed elastico e si riferisce a un particolare genere di atteggiamenti, diretti a ottenere per via di tecniche non profane fini concreti, immediati e per lo più limitati; tali atteggiamenti appaiono, inoltre, inseparabili da un’organica concezione religiosa del mondo. Descrivere, analizzare questi atteggiamenti e distinguerli da altri è compito della fenomenologia religiosa, mentre gli studi propriamente storici tendono a individuare i fattori che nelle singole civiltà promuovono o ostacolano il prosperare della m. (per es., i seguaci della cosiddetta scuola storico-culturale, che ravvisano nel monoteismo la forma più antica della religione umana, considerano la m. come un fenomeno di degradazione, situabile in un ciclo culturale posteriore).
Quanto alla fenomenologia della m. sono ancora largamente usati, sebbene con più o meno riserve e spesso solo in senso convenzionale, i termini introdotti dalla scuola evoluzionistica. Si distingue cioè tra una m. analogica (imitativa, simpatetica e omeopatica), in cui il simile agisce sul simile, e una m. contagiosa, in cui la trasmissione di forze o qualità avviene mediante un contatto: esempi della prima sarebbero tra l’altro il versare acqua al fine di provocare la pioggia, lo sciogliere dei nodi per facilitare il parto, ecc.; della seconda le fatture compiute su un capo di vestiario appartenente alla persona su cui si vuole esercitare un influsso magico, le pozioni magiche, ecc. Si parla ugualmente di m. positiva e negativa, intendendo per la prima un’attività umana consapevole (per es., ‘raccogliere’ la malattia di una persona con un pezzo di stoffa che viene successivamente bruciato) e comprendendo nella seconda tutti i tabù che richiedono dall’uomo soltanto un’astensione e le cui infrazioni provocano sanzioni automatiche. Si distingue ugualmente tra m. nera e bianca, intendendo per la prima il complesso di azioni magiche malefiche, per la seconda soprattutto le azioni dirette a parare queste ultime (esorcismo). Si parla inoltre di m. profilattica, apotropaica, curativa, ecc.
Pratiche di carattere magico sono largamente presenti nelle varie religioni ufficiali antiche: così nell’India vedica, dove il Ṛgveda parla esplicitamente del potere, anche cosmico, degli antichi sacerdoti e contiene anche formule di m. ‘nera’ e l’Atharva veda ha un contenuto prevalentemente magico. La pratica ascetico-magica del tapas conferisce potere anche sopra gli dei (ma gli dei stessi vi ricorrono per aumentare il proprio potere). Nell’antico Egitto la m. (hīke) è largamente applicata anche nei riguardi degli dei e dei defunti. Della essenziale connessione tra m. e religione ci offre esempi anche l’antica religione babilonese, dove le pratiche magiche dell’esorcismo erano affidate a una particolare categoria di sacerdoti pubblici (ashipu), e dove anche per es. una formula magica contro il mal di denti si fonda sui miti teogonici e cosmogonici della religione ufficiale. Anche nelle sue forme più elementari la m. presuppone corrispondenze ‘analogiche’ o ‘simpatiche’ estese per tutto il mondo dell’esperienza immediata. Così è anche nell’antica civiltà greca, in cui tecniche magiche fanno parte integrante del culto ufficiale (riti catartici, come quello dei φαρμακόι, ossia di vittime umane destinate a convogliare nella propria persona le impurità accumulatesi nella città; riti di m. agraria, come quello delle Tesmoforie, in cui i resti imputriditi di porcelli sacrificati a Demetra vengono mescolati alla semenza per accrescerne la fertilità, ecc.). La Grecia classica considerava però con diffidenza la m. coltivata privatamente e a fini personali. In parte per questa diffidenza, in parte anche in base a una certa conoscenza delle pratiche magiche maggiormente diffuse nel vicino Oriente, i Greci attribuivano alla m. un’origine straniera (da cui anche il termine m., invalso sin dal 4° sec. a.C., deriva come già accennato da magi, cioè dal nome dei sacerdoti persiani).
L’avversione greca per la m. si muta in vivo interesse nel quadro dell’ellenismo, quando avviene una profonda compenetrazione culturale tra civiltà classica e civiltà orientale. È nel periodo ellenistico, infatti, che la m. acquista un nuovo significato culturale, innestandosi su una concezione, ormai riflessa e sistematica, della «simpatia universale». Molti sono gli scritti ‘magici’ dell’età ellenistica, spesso posti sotto l’autorità di antichi sapienti o intesi come trascrizione di speciali rivelazioni divine. Tutta la vasta produzione che va sotto il nome di Ermete Trismegisto (➔) comprende, oltre a trattati più spiccatamente filosofici e mistici, scritti o frammenti riguardanti l’astrologia, l’alchimia, la m.: e di tutti questi trattati, il fondamento comune è una concezione unitaria del cosmo, non scandito secondo un ordine immutabile, ma pervaso di forze spirituali, dominato da occulte leggi di universali ‘simpatie’; e l’uomo, al centro di questo mondo, può scoprire le corrispondenze nascoste, entrare in rapporto con quelle forze per dominarle e indurle a propria e altrui utilità. Questa visione del cosmo e dell’uomo sta a fondamento della m. fiorita nel mondo ellenistico, di quella ermetica e di quella neoplatonica di Proclo e Giamblico, il quale la intese come scienza suprema, connettendola saldamente a una complessa teoria degli esseri intermediari tra l’uomo e la sfera del divino. La m. dell’età ellenistica, nei suoi fondamenti e nelle sue linee essenziali, tornerà a circolare nel Medioevo e nel Rinascimento, in connessione alla riscoperta di opere magiche e astrologiche greche e arabe. È soprattutto dal sec. 12° che l’Occidente latino riprenderà a discutere e a utilizzare temi cari all’antica letteratura magico-filosofica, e da allora la letteratura su argomenti ‘magici’ si andò rapidamente moltiplicando. Si trattava, è il caso di sottolinearlo, di letteratura dotta: dall’Introductorium di Abū Ma῾shar al Tetrabiblos di Tolomeo con i commenti di Avenroda (opere tradotte alla metà del 12° sec.), all’ermetico Asclepio, oltre innumerevoli altri trattati anonimi e spesso messi sotto l’autorità di nomi famosi: tra questi il Liber vaccae o Libro degli esperimenti, che circolava sotto il nome di Platone, e molti testi detti ‘ermetici’ perché posti sotto il nome di Ermete Trismegisto. E di m. trattarono nel Medioevo dotti famosi, come Pietro d’Abano e Ruggero Bacone, Arnaldo di Villanova o Lullo. La m. si presentava loro come la scienza per eccellenza, quella che svelava l’intima struttura del cosmo e dava all’uomo la capacità di operare in esso: il conoscere si tramutava così in fare, e appunto R. Bacone celebrava la m. proprio per la possibilità che dava all’uomo di dominare e dirigere il corso degli eventi naturali. Alla m. si connettevano sempre l’astrologia e l’alchimia: come, per es., nella Tabula smaragdina e in Picatrix, tradotto in latino nel sec. 13°. Così la m. – per essere fondata su una visione vitalistica e dinamica della natura – minava la concezione aristotelica delle immutabili essenze e faceva spazio a una concezione operativa del conoscere. Nel Rinascimento l’interesse per la m. aumenta ancora, in relazione alle traduzioni di nuove opere greche, ermetiche e neoplatoniche. Da Ficino a Cornelio Agrippa e Paracelso, da Campanella a Bruno, a molti altri minori pratici e sperimentatori, la m. costituisce uno dei cardini del pensiero rinascimentale. Essa alimenta l’aspirazione a una religione cosmica (quale era stata concepita nell’età ellenistica), rafforza la polemica antiaristotelica (soprattutto sul piano fisico e metafisico), rinsalda l’antico concetto dell’uomo microcosmo e sembra offrire i mezzi adatti per rendere l’uomo signore del cosmo. Si può dire che parte del rinnovamento scientifico operato dal Rinascimento (soprattutto per quanto concerne la valutazione e la finalità delle scienze e delle arti meccaniche) sia nata proprio sul piano della m.: questa infatti, proclamandosi scienza suprema capace di penetrare e conquistare la natura, induce a un più diretto contatto con i fenomeni naturali, mentre in virtù del suo fondamentale dogma della ‘simpatia’ del tutto e della ‘plasticità’ della natura spinge a negare la rigida immutabilità che domina la fisica e la metafisica peripatetica. Vi fu anche, vicino a questa m. che si pone come scienza (detta anche m. bianca), quella m. che fu detta nera o necromanzia, ed ebbe moltissimo seguito; ma la polemica che i più grandi ‘magi’ condussero contro di questa è segno del valore che si connetteva alla ‘vera’ m., forma superiore di sapere che apre all’uomo nuove vie per il dominio nel mondo. Il credito della m. come scienza scompare lungo il Seicento, nella misura in cui progredisce il metodo sperimentale e matematico: si veniva allora affermando quella distinzione tra possibile e impossibile, tra sperimentalmente accertato e generico sentito dire, che è il presupposto – e il risultato – del nuovo sapere scientifico e segna la fine della mentalità magica. Ancora come simbolo di un conoscere che ponesse l’uomo a diretto contatto con la fluida realtà del mondo, infrangendo le fisse leggi del sapere matematico-scientifico, la m. tornerà a essere celebrata nel primo romanticismo, in partic. da Novalis (idealismo magico), insieme con tutta la concezione animistica e vitalistica della natura; e poi, nel decadentismo, e in genere nell’irrazionalismo contemporaneo, quale mezzo di evasione dalla realtà fenomenica nella sfera del surreale.