Magistrati
I magistrati svolgono un ruolo centrale in ogni sistema giuridico che abbia raggiunto un sufficiente grado di maturità e di autonomia funzionale rispetto al resto della società. Da un punto di vista storico si suole individuare nell'esperienza del diritto romano il momento nel quale tale ruolo ha raggiunto un livello di specificazione e di articolazione tanto elevato da fungere fino ai nostri giorni da punto di riferimento per commisurare le diverse esperienze che si sono storicamente succedute. Capovolgendo il diffuso luogo comune relativo alla 'diversità' del sistema giuridico inglese, si può pertanto dire che non è stato quest'ultimo, bensì proprio il diritto continentale (con il suo processo asimmetrico, sub judicis directione, gestito da magistrati funzionari) a prendere per primo e maggiormente le distanze dall'ordine "isonomico" (ove il giudice non opera da "signore" del processo) tipico del diritto antico e medievale (v. Giuliani e Picardi, 1987; v. Van Caenegem, 1987).
Nei sistemi giuridici contemporanei la funzione giudiziaria, esercitata dai magistrati, presenta comunque un insieme di caratteristiche comuni. Volendo individuare e accentuare unilateralmente quelle tipiche dei sistemi sia di common law sia di civil law, si può osservare che il procedimento giudiziario costituisce una modalità di gestione delle controversie di tipo triadico (comprendente cioè il giudice oltre alle due parti) in cui "(1) un giudice indipendente applica (2) norme giuridiche preesistenti mediante (3) un procedimento in contraddittorio volto a raggiungere (4) una decisione dicotomica in cui viene contestualmente dichiarato il diritto di una delle parti e il torto dell'altra" (v. Shapiro, 1981). A queste caratteristiche fondamentali vengono aggiunte (ad esempio v. Marradi, 1976; v. Galanter, 1986) alcune altre, quali (5) la dispositività (la decisione dovrebbe, almeno in certi tipi di processo, fondarsi sulle richieste, affermazioni e prove fatte o addotte dalle parti), (6) l'impersonalità (la decisione non dovrebbe essere in alcun modo influenzata dalla persona dei singoli magistrati, vale a dire da preferenze politiche, interessi, rapporti con le parti, ecc.), (7) l'irresponsabilità per le conseguenze concrete (la decisione dovrebbe dedursi soltanto dalla legge), (8) la coercitività (la decisione dovrebbe essere eseguibile coattivamente ai danni del perdente), (9) la necessità (il giudice sarebbe tenuto a decidere comunque la controversia, anche in presenza di norme prima facie lacunose o contraddittorie), (10) la normatività speciale e talvolta generale (la decisione, in quanto assunta come precedente, sarebbe suscettibile di regolare, oltre il caso di specie, anche casi futuri), (11) la rivedibilità (la correttezza della decisione dovrebbe essere controllata, a richiesta di parte, da altre istanze giudiziarie di grado superiore).Se si conviene di considerare tutti questi caratteri come tipici della funzione e delle decisioni giudiziarie, risulta facile avvedersi che da essi, e in particolare dall'indipendenza del giudice, può essere dedotta una serie di requisiti del giudice, inteso come organo giudiziario (nel presente articolo si farà riferimento soltanto al giudice professionale, e non alla giuria popolare o al giudice di pace), in mancanza dei quali l'esercizio della stessa funzione giudiziaria potrebbe risultare compromesso.
In effetti, l'indipendenza (di cui sub 1) può essere intesa nei suoi molteplici aspetti quale indipendenza dalle parti, indipendenza da soggetti esterni al processo - in particolare da altri poteri dello Stato, da partiti politici, da organi di informazione, da movimenti di opinione -, ma anche indipendenza da determinate interferenze di altri soggetti operanti nel sistema giudiziario, come colleghi, superiori, talvolta pubblici ministeri (v. Shetreet, 1985; v. Guarnieri, 1981). A essa si connettono, o dovrebbero connettersi, requisiti ulteriori quali: (a) l'esclusività - la carica di giudice è, o dovrebbe essere, incompatibile con l'esercizio di funzioni pubbliche e con l'accettazione di incarichi in grado di turbare l'esercizio del suo ufficio, come ad esempio quelli di consulente, arbitro, collaboratore dell'esecutivo, candidato a cariche politiche, ecc. (in alcuni ordinamenti il principio di esclusività è sancito addirittura dalla Costituzione: v. Diez-Picazo, 1991) -, (b) l'inamovibilità, come pure (c) varie garanzie (con riguardo alla permanenza nella carica, alla determinazione della retribuzione e, là dove esistano, agli avanzamenti di carriera).
Quanto al fondamentale requisito della terzietà del giudice rispetto alle parti contendenti, esso è sì comune anche al mediatore e all'arbitro (v. Shapiro, 1981; v. Eckhoff, 1967), ma mentre l'arbitro è scelto dalle parti e il mediatore deve pervenire ad una soluzione che le accontenti entrambe, il giudice si impone, per così dire, alle parti stesse. A esso si connette, o dovrebbe connettersi, il requisito ulteriore della (d) naturalità della giurisdizione (il giudice cui ci si rivolge, o davanti al quale si è convenuti, è precostituito per legge), come pure, correlativamente, il requisito della (e) imparzialità, che comporta l'obbligo di astensione e/o la ricusabilità del giudice almeno potenzialmente non in grado di essere imparziale.Occorre rilevare che l'insieme di tutti i caratteri individuati non ricorre sempre e integralmente nei sistemi giuridici concreti. Si può anzi parlare al proposito di un 'tipo ideale' nell'accezione weberiana del termine, vale a dire di una costruzione che non pretende di essere una rappresentazione dell'intera realtà, o di una sua parte (ad esempio, il sistema giudiziario britannico, o tedesco, e così via), ma che intende fornire "un mezzo di espressione univoco [...]ottenuto mediante l'accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista" (Weber, 1904, p. 108).Vi sono società in cui un sistema giudiziario manca del tutto, o si presenta in forma ancora embrionale, o comunque obbedisce a principî differenti (v. Weber, 1922; v. Llewellyn e Hoebel, 1941; v. Hoebel, 1954; v. Gluckman, 1955; v. Pospisil, 1971). Nelle stesse società contemporanee, rette da Stati-nazione e da ordinamenti giuridici positivi, caratteristiche essenziali del modello idealtipico indicato vengono talvolta a mancare: si pensi alle limitazioni che subiscono i requisiti di cui sub (1) e (2) nei regimi autoritari o totalitari. Occorre quindi precisare che il modello adottato fa riferimento prevalentemente ai magistrati operanti nel quadro di un regime politico liberaldemocratico.In tale contesto, per la decisione giudiziaria si pone con particolare evidenza un problema che invece non sorge per le deliberazioni di mediatori o arbitri spontaneamente scelti dalle parti. Perché obbedire alla decisione? Dopo una sentenza, lo stesso 'vincitore' può talvolta ritenersi non completamente soddisfatto nelle sue aspirazioni, e il soccombente lo sarà di norma ancor meno. D'altro lato, se è vero che in ultima istanza l'applicazione di ciò che il giudice ha deciso è garantita dalla forza, è anche vero che l'ipotesi del ricorso alla coercizione resta di fatto residuale.
Una possibile soluzione è stata indicata da Luhmann (v., 1969), secondo il quale il procedimento giudiziario è capace di autolegittimarsi nei confronti di coloro che vi hanno partecipato, anche se non liberamente. Perché ciò possa avvenire, il giudice deve essere percepito come equidistante dalle parti, l'esito come incerto, e comunque indipendente da fattori che non siano l'applicazione letterale di norme di legge e il concreto svolgimento del procedimento. Infatti, da un lato i soggetti sono in certa misura vincolati a restare coerenti con l'immagine di sé che hanno cominciato a fornire dall'inizio del procedimento stesso, quando il risultato non era ancora noto; dall'altro, e conseguentemente, nel caso in cui il singolo protestasse e rifiutasse la sentenza, questi verrebbe isolato socialmente. L'eventuale delegittimazione della sentenza da parte del perdente risulterebbe quindi, a sua volta, preventivamente delegittimata. In altri termini, più che ricercare il consenso dell'individuo, il procedimento si limiterebbe ad assicurare che, indipendentemente dal consenso o dal rifiuto espresso dal singolo, la sua delusione sia parcellizzata e assorbita la sua protesta.
In tal modo il procedimento risulterebbe in grado di legittimarsi autonomamente, presupponendo (e, nei regimi liberaldemocratici, giustificando) i requisiti del giudice e della funzione giudiziaria che compongono il tipo ideale sopra delineato. Tale tipo ideale, occorre peraltro aggiungere, può concretizzarsi secondo varie modalità, sia per quel che riguarda l'accesso alla magistratura, sia per quel che riguarda le caratteristiche organizzative di quest'ultima.
Le modalità di selezione dei magistrati sono fondamentalmente tre: elezione, nomina (per lo più da parte dell'esecutivo), superamento di un concorso. Le prime due, o alcune loro combinazioni, si ritrovano negli ordinamenti di common law; peraltro non sembra (v. Flango e Ducat, 1979) che negli Stati Uniti tali modalità di selezione producano effetti chiaramente distinguibili fra loro, anche perché nel loro funzionamento pratico esse finiscono col consentire l'accesso a soggetti dotati di caratteristiche analoghe. La modalità elettiva pura, del resto, è giudicata ormai marginale. Ci concentreremo pertanto solo sulla nomina e sul concorso, che corrispondono a due diverse possibilità di selezionare il magistrato in sistemi giuridici profondamente differenti: nei sistemi di common law, infatti, troviamo tipicamente il reclutamento per nomina, mentre nei sistemi di civil law troviamo tipicamente il reclutamento per concorso.
Di solito la nomina spetta all'esecutivo (il governatore dello Stato, il presidente della federazione il Lord chancellor), che sceglie, all'interno della professione forense, fra membri altamente qualificati e dotati di una certa anzianità; tale scelta è sottoposta a controlli e gradimenti formali e informali, successivi o preventivi, da parte di assemblee rappresentative, ordini professionali, e/o corpo elettorale (v. Abraham, 1993⁶, pp. 21 ss.). I soggetti nominati, pertanto, non solo hanno svolto studi specialistici, ma hanno anche una notevole qualificazione sul campo e risultano già socializzati ai valori e alle pratiche della professione forense. Per quanto ben retribuiti, i magistrati dei sistemi di common law guadagnano certo meno di un avvocato di elevata reputazione, e inoltre sono sottoposti a una serie di incompatibilità. In tali sistemi manca una carriera giudiziaria, sia perché i magistrati risultano già psicologicamente appagati dalla loro precedente esperienza professionale, sia perché una volta nominati a uno specifico posto vi restano di norma fino al pensionamento, non essendo previsti (né richiesti) trasferimenti o promozioni. La motivazione principale verso la carica è pertanto il grande prestigio sociale che le viene attribuito (altrettanto vale per i numerosi giudici laici non retribuiti).
È facile comprendere, infine, come il reclutamento per nomina da parte dell'esecutivo si riallacci a una visione dell'attività giudiziaria che, pur mantenendo fermo il principio della soggezione del magistrato al diritto preesistente, ammette l'esistenza di quote significative di creatività giurisprudenziale, attribuendo al lavoro del magistrato anche una valenza sostanzialmente politica e lasciando a chi lo ha nominato la relativa responsabilità.
Nei sistemi di civil law, ove si postula la soggezione del giudice al diritto legislativo e viene tollerata solo una dose minima di creatività della giurisprudenza, il magistrato è invece un pubblico funzionario, reclutato tramite concorso, il che produce una burocratizzazione della funzione giudiziaria. Con il reclutamento i magistrati entrano a far parte, relativamente giovani, di una pubblica amministrazione entro la quale si svolgerà la loro carriera secondo una progressione dettata dall'anzianità e da valutazioni del servizio svolto effettuate dai superiori. I magistrati potranno pertanto ricoprire una molteplicità di ruoli, anziché, come avviene nei sistemi angloamericani, uno specifico posto per il quale siano stati ritenuti appositamente qualificati. È richiesta la laurea in giurisprudenza, nonché, con variazioni da ordinamento a ordinamento, un tirocinio precedente il concorso, che potrà essere più o meno lungo, più o meno orientato alla pratica, più o meno a contatto con le altre professioni giuridiche, più o meno rilevante in termini di socializzazione preventiva. La preparazione, necessariamente di carattere generale, varia anche a seconda dell'impostazione delle prove di esame e a seconda della composizione delle commissioni, che viene in genere gestita dal Ministero della Giustizia.
Occorre peraltro osservare che, a prima vista, la magistratura di carriera o 'burocratica' - caratterizzata da un'accentuazione per un verso della soggezione alla legge e per l'altro dell'indipendenza, e ufficialmente garantita da un accesso meritocratico - sembrerebbe costituire una soluzione più adatta della magistratura 'professionale' per realizzare il tipo ideale sopra descritto. Si è visto, tuttavia, come il sistema della nomina di specialisti già addestrati di fatto tuteli altrettanto bene tali requisiti, e al contempo possa favorire l'acquisizione di altri requisiti, quali la competenza specifica del magistrato, la dispositività, l'irresponsabilità per le conseguenze concrete, la terzietà, l'imparzialità.
Si può anzi affermare che un magistrato professionale in certe situazioni risulta più adatto di un magistrato burocrate a realizzare il tipo ideale da cui si sono prese le mosse, sia per una maggiore adeguatezza al ruolo di magistrato - derivante dalle motivazioni e dall'ethos della cultura specialistica di provenienza - sia per il fatto che il suo lavoro non viene predeterminato da una 'programmazione condizionale' (vale a dire da una rigida sussunzione secondo lo schema 'se ..., allora ...'). Occorre comunque aggiungere che la libertà di manovra del professionista e le sue decisioni non sono prive di vincoli, ma si collocano entro i limiti della pratica professionale. Ciò significa che si ha 'professionismo' non quando il magistrato è semplicemente "più autonomo", bensì quando le sue prestazioni si conformano a uno standard di correttezza qualitativa, controllabile formalmente o informalmente (ad esempio tramite meccanismi orizzontali) dai colleghi-pari, e quando il corpo professionale sia dotato dello spirito unitario e del prestigio necessari a garantire il mantenimento di detto standard.
Si può peraltro osservare che un sistema di carriera è in grado di avviarsi gradualmente verso il "professionismo" non solo quando vi sia sostanziale abolizione della progressione per meriti e si diffondano interpretazioni creative e orientate al risultato, ma anche quando la socializzazione, il controllo delle singole decisioni e la valutazione complessiva del magistrato, i rapporti con l'esecutivo e con le gerarchie intragiudiziarie consentano l'adeguamento a (nonché la conservazione di) standard condivisi di correttezza professionale.
La diversità fondamentale dei sistemi di common law, ove la magistratura è sociologicamente e culturalmente una continuazione della professione forense, nei confronti dei sistemi di civil law risiede comunque nel fatto che, in quest'ultimi, i magistrati si presentano come un corpo separato dalla professione, oltre che dalla società, dotato di propri standard operativi, di propri modi di concepire e di applicare il diritto e proprie deontologie. È talvolta previsto un apprendistato dopo il superamento del concorso e la socializzazione successiva all'accesso formale entro l'organizzazione giudiziaria risulta assai rilevante. Le sue modalità e i suoi effetti variano sensibilmente, a seconda se la magistratura sia caratterizzata da pratiche professionali omogenee e da uno spirito di corpo unitario, o sia invece divisa al proprio interno in sottogruppi, rilevanti ai fini della carriera, ciascuno caratterizzato da una propria concezione del ruolo del magistrato. Nei paesi di civil law le organizzazioni professionali dei magistrati, che talvolta si articolano in correnti, "tendono ad assomigliare a sindacati, mentre una simile tendenza alla sindacalizzazione è assente nei paesi di common law (v. Shetreet, 1985, p. 631). Allo stato attuale delle conoscenze può dirsi che la motivazione a diventare magistrato, nel caso dell'accesso per concorso, si fondi, almeno in taluni casi, su un senso di missione e di servizio; è intuibile, peraltro, che in molti altri casi si tratterà di una tra le tante opzioni professionali, dotata dei tipici vantaggi dell'impiego pubblico (v. Cohn, 1960). Entrambi i tipi di motivazione sono compresenti tra gli aspiranti magistrati, i quali, secondo ricerche recenti (con riferimento all'Italia v. Marino, 1991), rivelano una certa ambiguità motivazionale e un'ancora piuttosto debole identificazione con il proprio ruolo.
L'indipendenza dei magistrati sembrerebbe meno garantita con il sistema della nomina. Tuttavia, essendo le nomine praticamente vitalizie e visto lo status precedente dei magistrati reclutati, negli ordinamenti di common law la reputazione di indipendenza dei magistrati è assai elevata. Il sistema del concorso, invece, sembrerebbe in astratto obiettivo, ma può di fatto prestarsi a interferenze da parte di chi gestisce le commissioni e rinvia comunque a una carriera in cui si pone seriamente il problema dell'indipendenza interna. Alcuni ordinamenti presentano soluzioni in qualche modo miste: un reclutamento laterale, ma per concorso, di professionisti dotati di una certa esperienza (Francia), che si aggiunge al reclutamento ordinario; un lungo e intenso tirocinio preventivo, comune a quello delle altre professioni giuridiche (Germania). In entrambi i casi si attenua la separazione dei magistrati dalle altre professioni giuridiche, favorendo così la formazione di una concezione unitaria del ruolo sociale del giurista.
Di per sé sia la nomina sia il concorso sono compatibili con l'idealtipo indicato in precedenza. I loro effetti dipendono infatti dalla combinazione con altri elementi, quali le modalità di socializzazione, i meccanismi di carriera, le ideologie giuridiche presenti fra avvocati o magistrati (v. Rebuffa, 1993³). A determinate condizioni, però, le modalità di accesso in quanto tali possono produrre determinate conseguenze. Ad esempio, se nei paesi angloamericani le nomine si indirizzassero verso soggetti scarsamente qualificati, scelti esclusivamente per ragioni politiche o amicali, in assenza di controlli esterni formali o informali e a fronte di una professione forense frammentata e poco prestigiosa, ciò non potrebbe non influire sugli aspetti di cui sub (1), (2), (6), (7), (e). Se invece, come avviene in qualche paese dell'Europa continentale, agli aspiranti non venisse richiesto alcun previo tirocinio professionalizzante e socializzante, i concorsi fossero molto frequenti, la selezione, anche per la composizione delle commissioni, non fosse sufficientemente rigorosa e la magistratura non esprimesse uno spirito di corpo unitario, ciò avrebbe egualmente conseguenze sugli stessi aspetti.Il reclutamento per nomina sembrerebbe privilegiare soggetti appartenenti alle classi elevate, integrati con l'élite politica e portatori di valori conservatori rispetto all'ordine costituito. In verità, i magistrati nominati non sono sempre forniti di relazioni politiche (in Gran Bretagna ancor meno che negli Stati Uniti), essendo 'proposti' dai corpi professionali, o comunque loro graditi. Questo non comporta, in generale, un'adesione a ideologie politicamente conservatrici e professionalmente tradizionaliste, come avverrebbe, secondo la nota analisi di Griffith (v., 1991⁴), nel Regno Unito. Negli Stati Uniti, ad esempio, è ormai assai diffuso nell'avvocatura un orientamento attivista, liberal, attento ai diritti delle minoranze, che si è trasferito anche nella pratica giudiziaria, via via che i suoi aderenti, peraltro spesso politicamente caratterizzati, sono stati prescelti come magistrati.
Con riferimento ai magistrati tedeschi è stato messo in evidenza (v. Richter, 1960; v. Dahrendorf, 1960; v. Kaupen, 1969; v. Kaupen e Rasehorn, 1971) che essi provenivano per lo più da famiglie di giuristi, o comunque di livello sociale elevato. Inoltre, i magistrati di livello sociale superiore sarebbero stati ulteriormente avvantaggiati nella progressione di carriera, sicché si sarebbe dovuto parlare di una 'giustizia di classe', e di una 'società dimezzata', nel senso che la metà superiore della società sarebbe stata chiamata a giudicare la metà inferiore. Infine, i magistrati avrebbero condiviso con gli altri giuristi tendenze conservatrici e autoritarie, esaltando valori come l'ordine, la conformità, la deferenza verso la gerarchia, il decoro pubblico, il dovere, e tratti psicologici come dogmatismo, rigidità, scarsa propensione al rischio e all'efficienza. Tali caratteri sociopsicologici sarebbero stati ulteriormente rafforzati dall'istruzione giuridica. Quest'ultima sarebbe stata pertanto un tipo di formazione ideologicamente e socialmente retrogrado, inadeguato rispetto alle esigenze della società industriale (v. Kaupen, 1969, pp. 217-219).
Tesi del genere sono oggi difficilmente difendibili. Le ipotesi sull'inclinazione delle personalità autoritarie verso le professioni giuridiche, nonché sulle conseguenze dell'educazione giuridica sono state confutate in modo convincente (v. Lange e Luhmann, 1974; v. Heldrich e Schmidtchen, 1982). Quanto ai presunti effetti dell'appartenenza di classe, è stata mostrata l'assenza di correlazioni significative tra provenienza sociale dei magistrati e loro atteggiamenti personali, nonché fra provenienza sociale e comportamento decisionale dei magistrati, anche in settori che assumono particolare rilevanza di classe, come il processo del lavoro, o le locazioni di immobili urbani (v. Hilden, 1976; v. Rottleuthner, 1982 e 1984; v. Murphy e Tanenhaus, 1972). Le analisi degli anni sessanta risultano ancor meno persuasive se riferite a paesi come l'Italia, caratterizzati da sistemi universitari di massa, da una espansione continua del numero dei magistrati e da posizioni - ufficializzate all'interno della magistratura - fortemente critiche nei confronti dell'ordine socioeconomico e politico. In definitiva, si è ritenuto che l'accesso per concorso, più del sistema della nomina, fosse in grado di provocare, nel medio periodo, un livellamento sociale, oltre che tecnico-professionale (v. Di Federico, 1985 e 1989).
Se il retroterra sociale dei magistrati ha perso interesse come fattore esplicativo del loro agire, hanno assunto sempre maggiore rilevanza i loro atteggiamenti e valori personali (analizzati da numerosi studi di approccio comportamentista: fra cui v. Pritchett, 1948; v. Schubert, 1963, 1964 e 1965). Tali fattori sono stati successivamente articolati (v. Grossmann, 1969; v. Becker, 1970) in atteggiamenti politici (libertario, moderato, conservatore), in autopercezioni di ruolo e in attitudini verso il tema oggetto di decisione. In altri contributi l'attenzione è stata concentrata sulle ideologie interne della magistratura, intese come concezioni, manifestate nei giornali di categoria, dei suoi rapporti con lo Stato (per l'Italia v. Moriondo, 1967; v. Treves, 1975; v. Denti, 1983). Ricerche recenti hanno invece posto in rilievo il ruolo delle 'culture giuridiche locali' (v. Eisenstein e Jacob, 1977; v. Levin, 1977; v. Church e altri, 1978; v. Church, 1982).
In particolare, quanto alle autopercezioni di ruolo dei magistrati si può distinguere fra un orientamento 'non attivista' (da arbitro super partes, orientato alla singola controversia, ossequioso della lettera della legge e del valore della certezza, non incline alla considerazione delle conseguenze delle decisioni) e un orientamento 'attivista' (protagonistico, normativamente innovativo, ispirato a principî generali, incline ad assumere una responsabilità per le conseguenze della decisione). Tali atteggiamenti possono ricevere un supporto dalle ideologie giuridiche presenti nei vari sistemi, e in particolare nella dottrina. Di norma l'atteggiamento non attivista si accompagna a una ideologia giuridica formalista, mentre quello attivista è favorito da un'ideologia antiformalista, favorevole a interpretazioni del diritto pluraliste, o 'alternative', in vista della realizzazione di valori ultimi (contenuti, ad esempio, nella Costituzione, vista come norma 'aperta') e di compiti di riequilibrio ed equità socioeconomica, razziale, sessuale, etnica (v. Luhmann, 1974).
Le definizioni di ruolo e le ideologie giuridiche vengono recepite dai magistrati e non mancano di influire sul loro comportamento decisionale. Occorre quindi chiedersi, volta a volta, quali siano tali percezioni e ideologie e come esse operino attraverso la formazione giuridica, la socializzazione e i contatti extraistituzionali fra magistrati (associazionismo), nonché attraverso i fattori organizzativi (v. sotto, cap. 3). Quanto alla rilevanza sociale dei singoli casi, e in generale alla rispondenza dei magistrati allo 'spirito del tempo', alle 'emergenze' e ai flussi di opinione, va ricordato che se questa fosse meccanica e immediata, avremmo dovuto riscontrare nei magistrati del Regno Unito un atteggiamento attivista, orientato ai risultati, politicamente innovativo, e nei magistrati degli Stati Uniti, paese caratterizzato da una cultura politica antistatalista, un atteggiamento meno attivista e più orientato alle norme. In realtà, si sono avute tendenze opposte, sicché bisogna concludere che la rilevanza dei problemi e la rispondenza ai flussi di attenzione sociale sono mediate da autopercezioni di ruolo e da ideologie intragiudiziarie.
Quanto alle culture giuridiche locali, è stato notato che, a parità di norme sostanziali e procedurali da applicare, in tribunali diversi ci si comporta diversamente sia da parte dei magistrati - ad esempio in materia di audizioni preliminari, tentativi di mediazione, patteggiamenti, rapporti con la stampa, tempi di fissazione delle udienze - sia da parte degli avvocati - ad esempio in materia di modalità di difesa, invocazione di certe forme procedurali, acquiescenza o critica verso i ritardi del processo. In altre parole, si può ipotizzare l'esistenza di 'codici di comportamento locali' fatti di aspettative, pratiche, regole informali, note sia ai magistrati sia agli avvocati, cui entrambe le categorie tendono ad attenersi nella gestione del loro lavoro quotidiano. Il magistrato appena reclutato, quindi, dovrà apprendere l'esistenza del codice locale seguito nel tribunale di prima assegnazione, tendendo, salvo casi eccezionali, ad adeguarvisi. Il magistrato trasferito a una nuova sede dovrà individuare le caratteristiche del relativo codice locale, ed eventualmente vivere momenti di più o meno difficoltoso adattamento. La maggiore flessibilità organizzativa tipica della common law fa sì che le culture giuridiche locali siano, in tale contesto, più evidenti e pronunciate. Si può peraltro ritenere che anche nei sistemi di civil law il fenomeno, sebbene meno evidente, eserciti un notevole peso sui comportamenti effettivi.
Nel suo insieme il potere giudiziario si presenta come un'organizzazione che coordina le azioni di più soggetti, orientandole a scopi ufficiali condivisi. Secondo alcuni tale organizzazione è, quantomeno nel caso della magistratura di carriera, anche un'organizzazione burocratica. È indubbio che tutti i sistemi giudiziari, anche quelli dei paesi di common law, siano burocrazie nel senso lato del termine, in quanto in essi si presentano caratteri quali la divisione del lavoro, la distribuzione di compiti specifici fra i membri dell'organizzazione, la gerarchia degli uffici giudiziari, la supervisione da parte delle istanze sovraordinate, le routines operative; a tali caratteri possono aggiungersi, nei paesi di civil law, la carriera, l'applicazione ufficialmente rigorosa e minimamente discrezionale di norme legislative procedurali e sostanziali, la predisposizione di fascicoli processuali, le trattazioni prevalentemente scritte.
Se intesa in senso stretto, la nozione di burocrazia appare più difficilmente applicabile ai sistemi giudiziari. Ciò anzitutto perché le istanze giudiziarie d'appello non sono gerarchicamente superiori rispetto alle corti le cui decisioni vengono impugnate, dal momento che l'impugnativa spetta alle parti e non alla corte di seconda o ulteriore istanza. La revisione da parte delle corti sovraordinate costituisce soltanto indirettamente un controllo qualitativo del lavoro delle corti inferiori. "Le corti supreme spesso promulgano regole procedurali volte a governare l'operato delle corti inferiori, ma esercitano una supervisione saltuaria sul lavoro quotidiano processuale, e quasi nessuna supervisione sul flusso di casi trattati dalle corti inferiori". Inoltre, "quasi mai le corti supreme reclutano, trasferiscono o licenziano giudici o altro personale delle corti inferiori, né hanno influenza sul loro budget" (v. Jacob, 1983, p. 193).
Ciò vale per il sistema giudiziario nel suo complesso. Ma neppure il singolo tribunale può essere definito un'organizzazione formale burocraticamente integrata; esso appare piuttosto un network di attività organizzate (v. Heydebrand, 1977). "Nonostante la sua apparenza esteriore di burocrazia, il tribunale possiede molti degli aspetti di un ordinamento feudale non rigidamente organizzato, con una particolare enfasi sul vassallaggio, sul patronage, sui rapporti di lealtà personale" (v. Sykes, 1969, p. 331).
Pertanto, anziché contrapporre, come spesso accade, un modello 'professionale', tipico dei sistemi di common law, ad un modello 'burocratico', tipico dei sistemi di civil law, è forse più opportuno collocare i due modelli agli estremi di un continuum, lungo il quale si dispongono svariati casi intermedi, nessuno dei quali sarà totalmente professionale, o totalmente burocratico. Infatti, quanto appena detto sul 'feudalesimo' giudiziario si applica anche ai rapporti tra magistrati operanti in sistemi continentali; e, per altro verso, anche nel 'professionismo' angloamericano vanno facendosi strada esigenze di coordinamento, uniformità, produttività del lavoro giudiziario, tipiche di un approccio più burocratico, o comunque 'manageriale' (v. Friesen e altri, 1971; v. Gazell, 1975).
La tematica dell'organizzazione giudiziaria rinvia immediatamente ai rapporti fra funzione giudiziaria e altri poteri costituzionali, sia perché questi forniscono risorse vitali (finanziarie) e partecipano direttamente, in varia misura e con varie modalità, all'organizzazione medesima, sia perché tali rapporti risultano di importanza decisiva ai fini dell'atteggiarsi concreto dell'indipendenza della funzione giudiziaria, nonché del singolo giudice.In proposito è opportuno richiamare la classificazione di Shetreet (v., 1985), che distingue quattro dimensioni dell'indipendenza giudiziaria: collettiva (della magistratura nel suo complesso); individuale (del singolo magistrato); esterna, sia collettiva che individuale (nei confronti di altri poteri dello Stato e di pressioni sociali); interna, soltanto individuale (dai colleghi e dai superiori). Tali dimensioni potrebbero anche confliggere fra loro: ad esempio, l'indipendenza collettiva potrebbe esigere una forte coesione e omologazione del corpo giudiziario mentre l'indipendenza interna potrebbe richiedere esattamente il contrario. La possibilità di tali conflitti rende problematica la 'centralità' dell'indipendenza (intesa in modo indeterminato): questa non può essere vista come un fine in sé, da tutelare al massimo grado, costi quel che costi, in quanto può comportare contraddizioni sia fra le sue varie dimensioni, sia con altri elementi del tipo ideale di cui al cap. 1 (ad esempio, il massimo di indipendenza individuale confligge certamente con la soggezione alla legge).
Alcune caratteristiche dell'organizzazione giudiziaria sono comuni a tutti i sistemi giuridici qui considerati; altre sono proprie dei sistemi basati sulla carriera.
Quanto all'assegnazione del magistrato, la tendenza generale è verso la inamovibilità, salvo consenso dell'interessato, nonché al divieto di assegnazioni temporanee, o per periodi di prova, in nome dell'indipendenza individuale, interna e (nel caso in cui l'assegnazione dipenda dall'esecutivo) anche esterna. È dunque prevedibile che le assegnazioni temporanee siano rare o eccezionali, possibilmente da sottoporre all'approvazione degli organi giudiziari superiori, e lo stesso varrà per l'inamovibilità. Seppure posta a tutela dell'indipendenza individuale, l'inamovibilità non potrà essere assoluta. In presenza di magistrati di carriera, resterebbero altrimenti sistematicamente sguarnite le sedi o gli uffici poco desiderabili o scarsamente prestigiosi, e sarebbero per converso sistematicamente congestionate le sedi o gli uffici più ambiti. Una garanzia di indipendenza può dunque prestarsi alla tutela di strategie autointeressate dei magistrati.
Una seconda variabile da menzionare è la retribuzione. In generale si tende non solo alla fissazione di livelli retributivi sufficientemente elevati, ma anche ad assicurare rivalutazioni periodiche automatiche degli stipendi, nonché a escludere diminuzioni dei medesimi non rientranti in provvedimenti di portata economica generale. Ciò sempre a garanzia dell'indipendenza (collettiva ed esterna). Sarebbero in astratto ipotizzabili anche incentivi e premi di produttività, ma data la natura specialistico-professionale del lavoro giudiziario, nonché la delicatezza della valutazione della sua produttività individuale, meccanismi retributivi del genere implicano dei rischi. Ciò non significa che qualunque scarsità di rendimento vada tollerata, ma semplicemente che la sede di intervento appropriata è quella disciplinare o organizzativa, anziché quella retributiva. Sono poi talvolta previste indennità speciali per magistrati impegnati in compiti particolarmente rischiosi o gravosi (ad esempio nella lotta contro la criminalità organizzata). L'estensione di simili indennità anche a categorie di magistrati non coinvolti in compiti del genere può apparire, in nome dell'egualitarismo, impropria anche nelle magistrature di carriera. Infine, come si è già accennato parlando dell'esclusività (sub f), la possibilità di procacciarsi emolumenti aggiuntivi, connessi alla funzione di magistrato, non è di norma ammessa, salvo qualche eccezione (per il caso italiano v. Zannotti, 1981).
Una terza caratteristica organizzativa è la struttura dell'organo giudicante. Ovviamente il massimo di libertà strutturale si ha nel caso del giudice monocratico, in quanto la collegialità comporta sempre limitazioni, specie se il presidente del collegio è gerarchicamente superiore agli altri membri e se è proibita l'espressione di opinioni di minoranza. La pratica della dissenting opinion è propria delle magistrature di common law e non sembra conciliarsi con l'idea di un'applicazione tendenzialmente automatica (e pertanto univoca) del diritto preesistente, volta a suscitare la pubblica fiducia nell'obiettività del sistema giudiziario. In realtà, tuttavia, in questi paesi tale pratica appare largamente accettata, in quanto sintomo di indipendenza e di raffinatezza dottrinaria dei magistrati. Per converso, nei sistemi ove il dissenso aperto non è ammesso, la collegialità dell'organo tende a produrre conformismo e routine (v. Di Federico, 1978). Nel funzionamento concreto di organi giudicanti collegiali divengono poi particolarmente rilevanti la leadership, formale o informale, esercitata dal presidente, la scelta del relatore per il singolo caso, la personalità e le capacità di 'traino' dei singoli magistrati (v. Danelski, 1961 e 1967; v. Paterson, 1982).
Accanto agli organi giudiziari possono trovarsi diverse figure di personale amministrativo, ausiliario, di polizia, ecc., nonché vari supporti tecnologici (che vanno dalle banche di dati, ai sistemi informatici 'esperti', alla videoregistrazione delle deposizioni dei 'pentiti' e in genere dei testimoni), i quali possono, se opportunamente usati, non solo ridurre i tempi e la mole del lavoro giudiziario, ma anche fornire soluzioni a problemi processuali e probatori rimasti trascurati o insoluti. Le potenzialità di tali innovazioni (ad esempio in tema di uniformità della giurisprudenza e di certezza del diritto) sono ancora in larga misura da esplorare.
Nel caso del processo penale, di particolare rilievo appare il rapporto tra magistrato e pubblico ministero (v. Guarnieri, 1984). In modo molto sintetico può dirsi che esso assume accentuazioni diverse se l'azione penale è obbligatoria o facoltativa; se il pubblico ministero è subordinato all'esecutivo, ovvero è elettivo; se condivide o no la stessa carriera della magistratura giudicante; se il processo penale è inquisitorio o accusatorio; se la procura è organizzata in modo gerarchico o 'acefalo'; se il pubblico ministero è o no in stretta sintonia con gli organi di informazione, e quindi se gode di un forte sostegno dell'opinione pubblica; se gli è consentito un ampio margine di libertà nell'interpretazione delle norme e dei ruoli processuali (in tema di segreto istruttorio, misure cautelari, gestione dei pentiti, 'collaborazione' di imputati o testi). Ad esempio, ove l'azione penale sia facoltativa e i pubblici ministeri siano alle dipendenze dell'esecutivo, formando una carriera separata e interpretando letteralmente la legge, allora l'azione penale stessa, in sintonia con le direttive superiori, e in modo quindi alquanto uniforme, si concentrerà su certi reati e tipi di reo, mentre ne escluderà altri. Se, invece, il processo è di tipo inquisitorio, o comunque molto squilibrato a vantaggio dell'accusa, allora si avrà l'emergenza di una struttura tendenzialmente diadica (in cui pubblico ministero e magistrato collaborano strettamente), con corrispondente riduzione dell'incertezza dell'esito e pertanto (fatte salve emergenze che si suppone giustifichino tale alterazione) anche degli effetti autolegittimanti (nel senso di Luhmann: v., 1969) del procedimento. Nel caso in cui, infine, l'azione penale sia ufficialmente obbligatoria (il che significa che il pubblico ministero la avvia di fatto discrezionalmente), la procura sia 'acefala', vi sia unità di carriera, manchi la subordinazione all'esecutivo o ad altre istanze omogeneizzanti, l'interpretazione della legge sia 'flessibile' e la sintonia fra pubblico ministero e mezzi di comunicazione di massa elevata, allora sarà possibile che il singolo pubblico ministero condizioni fortemente il magistrato giudicante. Come si è già detto (sub 11), le decisioni dei magistrati sono rivedibili. A seconda degli ordinamenti, tale revisione si concentra su punti di diritto (ad esempio quando il procedimento è prevalentemente orale e la decisione spetta a una giuria popolare), ovvero si estende anche al fatto (quando questo è riportato per iscritto nel fascicolo processuale), fino a implicare una revisione de novo del giudizio. La funzione ufficiale dell'appello davanti a istanze di secondo o terzo grado è quella di fornire al perdente una chance in più, rendendogli al contempo più accettabile un'eventuale ulteriore sconfitta (anche se nella maggior parte dei sistemi - l'Italia fa eccezione - vi sono limiti alla ricorribilità, almeno in terzo grado). In concreto, si può supporre che la funzione latente delle corti superiori sia quella di esercitare una supervisione centralizzata volta a uniformare la giurisdizione delle corti inferiori, svolgendo così una attività di sostanziale creazione di diritto, più evidente nella common law (dove è anche facilitata dal principio dello stare decisis: v., per tutti, Shapiro, 1981, pp. 39 ss.). Ciò era originariamente, ed è almeno in parte tutt'ora, nell'interesse del funzionamento del sistema politico. D'altro canto, una funzione giudiziaria coerente, guidata dai suoi organi di vertice, accresce la propria indipendenza collettiva e il proprio prestigio sociale. Invero, l'adeguamento delle corti inferiori agli orientamenti di quelle superiori è stato perseguito anche in altri modi, come l'adozione di pareri, raccomandazioni o circolari da parte di queste ultime (eventualmente insieme a ispezioni o controlli relativi alla carriera).
Non è detto che la funzione latente della supervisione centralizzata indicata da Shapiro si riscontri in ogni caso. Così, a proposito della Corte di cassazione civile italiana, si è notato tra l'altro che essa "decide troppo, spesso decide non bene, e soprattutto non è in grado di intervenire razionalmente sulle questioni più rilevanti. La conseguenza è la stessa, in particolare per il venir meno della funzione di unificazione della giurisprudenza [...]. Comunque, la Cassazione ha così scarso controllo sulla continuità e sull'uniformità della propria giurisprudenza, da produrre spesso precedenti ambigui, contraddittori e destinati a durare assai poco" (v. Taruffo, 1991, p. 115).
Sempre dal punto di vista dell'organizzazione, è necessario menzionare le varie forme di responsabilità dei magistrati. Al riguardo va notato che esporre il magistrato a qualunque azione di rappresaglia delle parti o di altri soggetti, comprometterebbe la sua indipendenza. D'altro canto, magistrati del tutto irresponsabili non solo non si sentiranno sottomessi ad alcuno, ma tenderanno a nutrire una concezione eccessivamente soggettiva della loro obbedienza alla legge. Cappelletti (v., 1988) ha indicato varie forme di responsabilità presenti nei diversi ordinamenti: politica, sociale, giuridica. Quest'ultima viene distinta a sua volta in statale (vicaria) e personale del magistrato. Nei sistemi di common law vige il principio di immunità del magistrato; nei sistemi di civil law, dove invece la responsabilità è prevista in varie forme, le relative procedure sono spesso defatigatorie per le parti, sicché si tende in pratica a un regime di immunità (v. Giuliani e Picardi, 1995²).
La questione disciplinare riveste un ruolo centrale, anche in vista dell'omogeneizzazione e della razionalizzazione delle attività dei magistrati. Al proposito, occorre chiedersi su cosa si eserciti il controllo disciplinare e chi lo eserciti. Quanto al primo aspetto, esso può riguardare soltanto gravi violazioni di doveri professionali, o anche una riduzione del rendimento individuale al di sotto di una soglia minima. In questo senso, il controllo disciplinare confina con un potere di amministrazione e organizzazione del lavoro dei singoli magistrati, che assume un'importanza crescente anche nei sistemi di common law (v. Shetreet, 1985, pp. 638-639, sul caso di un consiglio giudiziario che non ha assegnato nuovi processi a un giudice con eccessivi arretrati). Quanto al secondo aspetto, esso, per quanto concerne il 'governo centrale' (dotazioni di magistrati, assegnazioni, promozioni) e l'assegnazione delle risorse, di norma spetta all'esecutivo, che spesso può anche iniziare l'azione disciplinare, restando di competenza dei 'pari' il giudizio (a fini disciplinari o di carriera) sul singolo magistrato. Il 'governo' dei singoli tribunali (assegnazione dei casi, programmazione del lavoro, rilevazioni del rendimento, trasferimenti interni) spetterebbe invece allo stesso corpo giudiziario, a tutela dell'indipendenza esterna dei singoli processi o magistrati (per il Regno Unito v. Scott, 1989; v. Browne-Wilkinson, 1988). Vi sono anche rari ma significativi esempi di controllo dell''utente', come la California judicial commission (formata da rappresentanti di giudici, avvocati e cittadini) che può raccomandare l'applicazione di sanzioni disciplinari e ricevere lamentele da comuni cittadini (v. Shetreet, 1985; v. Cappelletti, 1988).
In alcuni casi, come in Francia e in minor misura in Germania, l'esecutivo svolge, direttamente o indirettamente, un ruolo rilevante anche nelle valutazioni a fini disciplinari o di carriera, talvolta a detrimento dell'indipendenza individuale o collettiva esterna. In Italia, invece, l'esigenza di autogoverno della magistratura ha dato vita alla configurazione odierna del Consiglio Superiore della Magistratura. Questo organo è titolare di competenze che altrove spettano all'esecutivo (promozioni, assegnazioni, trasferimenti), anche se, per la sua composizione elettiva proporzionale, incontra di fatto forti difficoltà a 'governare' il suo stesso corpo elettorale e a garantire livelli minimi di efficienza della macchina-giustizia (v. Guarnieri, 1992). In campo disciplinare la sua incidenza è modestissima (rare sanzioni, e irrilevanti a fini di carriera), mentre pressoché nulla risulta la sua rilevanza nel campo della progressione formale della carriera. Ciò deriva anche dal fatto che in Italia le valutazioni dei titoli degli aspiranti ad avanzamenti di carriera (presenti in tutti gli ordinamenti di civil law), un tempo effettuate dai giudici di Cassazione, sono state soppresse in quanto 'meritocratiche' (v. Freddi, 1978), sicché gli avanzamenti medesimi vengono a dipendere in pratica solo dall'anzianità.
Negli altri ordinamenti di civil law, per contro, la carriera, scandita da tali valutazioni (effettuate da altri magistrati), costituisce un potente fattore di unificazione, e inevitabilmente di 'normalizzazione' della giurisprudenza, in certa misura a scapito dell'indipendenza interna (in paesi come la Francia anche di quella esterna). Quanto all'Italia, si può dire che, come nei sistemi di common law ma con presupposti e conseguenze ben diversi, anche qui manca ormai una carriera dei magistrati. Pertanto, ogni magistrato può prevedere con ragionevole certezza di raggiungere, salvo imprevisti eccezionali, la retribuzione massima di consigliere di Cassazione dopo circa 28 anni di servizio, indipendentemente dal rendimento, e anche se di fatto svolge funzioni inferiori. D'altro canto, però, al momento di coprire effettivamente una posizione di vertice, il numero degli aventi titolo è, per lo stesso motivo, estremamente elevato, e la scelta del Consiglio Superiore della Magistratura diviene quindi ampiamente discrezionale e influenzabile da criteri 'extragiudiziari' (v. Rebuffa, 1993³).
Nel cap. 1 si è delineato un 'tipo ideale' di funzione giudiziaria e di giudice che, in quanto tale, ammette già di per sé 'deviazioni' empiriche frequenti e rilevanti. È noto, per fare qualche esempio, che l'applicazione da parte del magistrato di norme giuridiche preesistenti, siano esse di fonte legislativa o giurisprudenziale, richiede un processo in certa misura 'creativo'; che spesso a decisioni dicotomiche, vale a dire costruite secondo lo schema 'o tutto o niente', subentrano tentativi di mediazione o di contrattazione della pena, o riaggiustamenti delle misure nel corso del tempo (come nel campo della tutela dei minori); che talvolta, a dispetto della coercitività, le sentenze finiscono col non avere esecuzione; che più in generale - diversamente da quanto postulato sub (5), (6) e (7) - il magistrato può atteggiarsi, piuttosto che ad arbitro super partes, a tutore di interessi che trascendono quelli individuali coinvolti nella singola controversia, producendo sentenze esemplari, preventive, deterrenti e, 'in genere', orientate all'ottenimento di conseguenze ritenute desiderabili.
È ora opportuno soffermarsi brevemente su alcune di queste deviazioni, facendo in particolare riferimento all'affermarsi di compiti e ruoli diversi da quelli direttamente riconducibili all'idealtipo.
Si è già accennato al fatto che i magistrati possono svolgere in concreto anche compiti diversi da quelli strettamente giurisdizionali (mediazione, forme di 'terapia' sociale). Va ora notato che, specie per quanto concerne la mediazione, ciò è vero assai più nella common law che nel diritto continentale. Negli Stati Uniti, ad esempio, la maggior parte delle cause civili viene decisa stragiudizialmente. Occorre quindi domandarsi quali caratteristiche debba avere in tale contesto una controversia per condurre, eccezionalmente, a una sentenza (v. Galanter, 1986, p. 203). Anche nella civil law peraltro le tendenze in questione stanno fortemente espandendosi.
Tali tendenze riguardano un'attività concettualmente distinta da quella strettamente giurisdizionale. È quindi possibile ipotizzare che un coinvolgimento così frequente dei magistrati in compiti diversi da quello giurisdizionale (v. Lempert, 1978; v. Mnookin e Kornhauser, 1979; v. Feeley, 1979; v. Ryan e altri, 1980; v. McEwen e Maiman, 1984; v. Galanter, 1988) possa indurli a modificare il modo in cui essi svolgono questo compito. I magistrati mostrano una spiccata predilezione per la mediazione perché essa ottiene il consenso di entrambe le parti, sfugge a istanze giudiziarie ulteriori, pone meno problemi esecutivi, è più gratificante, è ritenuta, forse erroneamente (in un procedimento orale e concentrato come quello di common law), più celere del processo. È anche possibile che i magistrati 'usino' il processo al fine di sollecitare mediazioni (tramite la scansione dei tempi processuali, il rigetto di eccezioni, ecc.) anche in campo penale, e anche al di là della volontà o dell'interesse delle parti. In definitiva, lo svolgimento di compiti non giurisdizionali da parte dei magistrati, anche se non è senz'altro da riguardarsi in sé come una deviazione dal tipo ideale che si è presupposto, rientra oggi in modo rilevante tra le attività dei magistrati, e condiziona probabilmente anche l'attività giurisdizionale di tipo più tradizionale.
L'inevitabile creatività, e quindi la sostanziale politicità, del lavoro dei magistrati appare come un'ulteriore importante deviazione dal tipo ideale che si è inizialmente indicato. Pritchett osservava, riassumendo i capisaldi della political jurisprudence, che "i giudici sono inevitabilmente dei partecipanti al processo di formazione delle politiche pubbliche; che in effetti essi 'creano diritto'; e nel creare il diritto sono necessariamente guidati almeno in parte dalle loro personali concezioni di giustizia e di politica pubblica; che il diritto scritto richiede un'intepretazione a sua volta implicante delle scelte; che la regola dello stare decisis è vulnerabile perché i precedenti sono tipicamente utilizzabili per sostenere ciascuna delle due parti in una controversia" (v. Pritchett, 1969, p. 31).
Invero, se detta creatività si limita a un ruolo interstiziale (cioè alla funzione di colmare lacune e punti oscuri del diritto preesistente) e se si sostengono le scelte creative con argomentazioni letterali e logico-sistematiche, essa non comporta necessariamente la rinuncia pratica alla soggezione alla legge. Molti degli stessi giudici della Corte Suprema statunitense (oggetto privilegiato della political jurisprudence), pur riconoscendo l'eventualità di scelte creative, professano infatti la loro soggezione alla legge, in nome della dottrina del self restraint (v. Abraham, 1993⁶, p. 347). In altri termini, se una giurisprudenza totalmente non creativa è impossibile, sono tuttavia pensabili, ed empiricamente osservabili, magistrati che, nell'esercizio della loro creatività, si sentono per quanto possibile comunque vincolati alla legge. Peraltro, il fenomeno della politicizzazione dei magistrati (per una ricognizione comparativa v. Shetreet, 1988) costituisce effettivamente una possibile deviazione dal modello, con riguardo all'applicazione del diritto, all'imparzialità, all'indipendenza esterna individuale e collettiva. I magistrati infatti possono praticare una ricostruzione deliberatamente dilatata delle norme vigenti, che ne contraddice la lettera e punta ad attivare 'feconde contraddizioni' nell'ordinamento, oppure possono in vario modo 'supplire' altri poteri (il legislativo o l'esecutivo), incaricandosi di trovare, pur in presenza di dati normativi cogenti, soluzioni che rappresentino compromessi o allocazioni eque di costi e benefici fra interessi sociali in gioco, oppure ancora, assumendosi scopi sociopolitici e finalità generalmente condivise nella società civile - quali la 'pulizia' della pubblica amministrazione, lo sradicamento della criminalità organizzata, e così via - possono finire col rendere il processo strumento di attuazione di scelte politiche (v. Damaska, 1986), non effettuate sempre dall'assemblea elettiva, ma almeno in parte dai magistrati stessi.
Lo stesso vale per l'adozione e l'ufficializzazione di posizioni di politica del diritto in quanto in alcuni ordinamenti, anche se il magistrato non sta trattando la materia in questione, canoni di opportunità deontologica o prescrizioni legislative impediscono prese di posizione che verrebbero avvertite come imbarazzanti per l'intera magistratura. Specie nei sistemi di common law, nel redigere le regole di un 'involucro' che ricopre l'ufficio di magistrato, "la tendenza è stata a non aver paura di esagerare con la cautela [...]. Così troviamo norme restrittive che vietano ai giudici di collaborare con altre branche del governo, che limitano le loro associazioni professionali, che proibiscono loro di prendere posizione su materie pubblicamente controverse o su materie che potrebbero porre in questione la dignità e l'integrità della magistratura" (v. Shetreet, 1985, p. 631).
In alcuni casi la figura di singoli magistrati può acquistare connotazioni e visibilità estranee al proprio ruolo. La candidatura dei magistrati a seggi parlamentari o ad altre cariche elettive è in genere ammessa in molti sistemi di civil law. Anche nei casi in cui il magistrato è costretto a dimettersi prima di candidarsi, si tratta tuttavia di una lesione dell'indipendenza, in quanto su di lui graverà il sospetto di aver potuto assumere, prima della candidatura, certe decisioni o atteggiamenti perché graditi all'elettorato o alla parte politica che lo candida. Inoltre la magistratura, specie se di carriera, è già in grado di agire come un potente gruppo di pressione, a tutela degli interessi corporativi (retribuzioni, incarichi esterni, organici, selezione, ecc.: v. Zannotti, 1989) e delle prerogative (poteri cautelari, poteri processuali, ecc.) dei magistrati.
Nonostante la sua crescente importanza, la politicizzazione è certamente una deviazione dal modello, ma non sembra, almeno nelle sue forme più pronunciate, un fenomeno necessario, né universale.La consapevolezza dei limiti di applicabilità agli ordinamenti giuridici concreti dei vari caratteri che compongono il modello qui adottato ha portato alcuni autori a ridurne drasticamente il numero e a tentare addirittura una reductio ad unum. Secondo Cotterrell (v., 1984, p. 227), se si volesse indicare un'autentica peculiarità empiricamente generalizzabile della funzione giudiziaria, questa sembrerebbe consistere non tanto in caratteri quali quelli precedentemente elencati sub 1-9 o sub a-e, bensì in quello che soltanto il magistrato (e nessun altro) fa, vale a dire nella "esposizione ed elaborazione autoritativa della dottrina giuridica" (sub 10).
Ora, si può certo concordare con Cotterrell sulla distintività di tale tratto. Tuttavia da ciò non segue necessariamente la rinuncia al tipo ideale proposto, che intende semplicemente fungere da punto di riferimento per l'analisi del comportamento concreto dei magistrati in un certo sistema politico.Di tale ricostruzione idealtipica lo scienziato sociale è peraltro tenuto a controllare la validità e l'utilità conoscitiva, suggerendo ipotesi volte a spiegare le deviazioni che si incontrano nella concreta esperienza storica e tenendo presente in particolare che tanto la più o meno profonda distorsione quanto la più o meno fedele realizzazione dell'idealtipo dipendono non solo da fattori macrosociologici, come l'influsso dei principî ancora oggi di fatto prevalenti nella cultura giuridica delle liberaldemocrazie, ma anche da fattori di livello intermedio, subsistemico: ad esempio, nel sottosistema giuridico un accentuato orientamento creativo dei magistrati può essere favorito, oltre che da una ideologia professionale e da vincoli e incentivi organizzativi (cfr. quanto detto sulle 'correnti'), anche da altri fattori qui non esaminati - e da specificare caso per caso - come una legislazione che affidi esplicitamente ai magistrati funzioni di intervento o terapia, o sia ricca di 'clausole generali'. (V. anche Informatica giuridica; Interpretazione giuridica; Magistratura).
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