MAGNA GRECIA
. Origine ed estensione del nome. - Con l'espressione Μεγάλη 'Ελλάς (lat. Graecia magna, anche Graecia maior) si designarono, complessivamente, nell'antichità, le città greche poste sulle coste dell'Italia meridionale: non ben sicura è però l'origine di tale designazione, come varia fu l'estensione del territorio in essa compreso. Il nome compare per la prima volta, usato direttamente, in Polibio (II, 39, 1); ma è probabile (E. Pais) che, già prima di lui, l'avessero usato storici del sec. IV (Eforo, Aristotele, Timeo) e che venisse fin d'allora ricongiunto con Pitagora e col movimento pitagorico. E in realtà i decennî nei quali le città italiane furono dominate dalle consorterie pitagoriche, prima quella di Crotone (all'incirca fra il 520 e il 460 a. C.), segnarono, per la maggior parte di esse, tale splendore di fioritura materiale e spirituale, da giustificare appieno per esse la designazione di Magna Grecia. Dobbiamo ritenere che tale espressione sia stata foggiata alla fine del sec. VI o al principio del V, nel territorio delle città "achee" dell'Italia meridionale (da Metaponto a Crotone): venuta in disuso nella seconda parte del sec. V, fu riesumata e rimessa in vigore dagli storici del sec. IV e del sec. III, i quali la usarono, ora con riferimento esclusivo alla prosperità materiale raggiunta, intorno al 500 a. C., dalle città greco-italiote, ora ricollegandola al benefico effetto esercitato dalle riforme e dalle istituzioni pitagoriche.
E. Meyer (in Philologus, XLVIII, 1889, p. 274), seguito da G. Busolt, ritenne che gli Achei d'Italia abbiano chiamato Μεγάλη 'Ελλάς il paese da essi occupato, in opposizione all'Ellade tessalica, loro patria originaria. E. Ciaceri ritiene più probabile che tale designazione sia sorta in età anteriore al pitagoreismo, in quella Ionia asiatica che ebbe (come Mileto e Samo) rapporti antichissimi e intimi di amicizia e di ospitalità con le città italiote, soprattutto con Sibari.
Quanto all'estensione di tal nome, non v'ha dubbio che esso dovette abbracciare in origine non più del territorio della costa lucanobruzia, da Metaponto (o forse da Taranto) a Locri o a Reggio; ritornato in uso negli scrittori del sec. IV e del III, se ne dovettero estendere i limiti in corrispondenza di quelli della Lega italiota, dominata allora dalla pitagorica Taranto; finché dagli autori della età romana (come Livio e Strabone) fu allargato a comprendere anche la Sicilia. Ma tale estensione non ebbe fortuna, e l'espressione di Magna Grecia rimase poi usata normalmente (ancora in Tolomeo) per indicare le città greche della costa meridionale d'Italia da Cuma a Taranto.
Topografia storica. - Fra gli autori antichi, descrizioni particolareggiate dell'Italia meridionale si trovavano già in Ecateo di Mileto, in Eforo, in Timeo, le cui opere, peraltro, non sono giunte fino a noi; e pertanto per la conoscenza geografica della Magna Grecia antica, possono esserci fonti, oltre Polibio, Strabone (libri V e VI), Pomponio Mela (II, 58 segg.), Plinio (Nat. Hist., III, 38 segg.).
Della seconda regione augustea dell'Italia (Apulia et Calabria) non spetta propriamente alla Magna Grecia se non il territorio di Taranto (v. apulia). Dell'Apulia le città costiere, come Sipontum, Salapia, Barium, Gnathia, risentirono tutte, più o meno, l'influsso della colonizzazione e della cultura greca. Col nome di Calabria si designò tutta la regione, propriamente peninsulare, a sud dell'Apulia, compresa fra il Golfo di Taranto e l'Adriatico. Quivi, sulla costa adriatica, sud della messapica Brundisium (Brindisi), che salì in grande importanza solo in età romana, sorse lo stabilimento greco di Hydruntum (‛Υδρῦς, oggi Otranto), fiorito anch'esso notevolmente in età romana. Un secondo stabilimento greco, di derivazione probabilmente tarantina, fu quello di Καλλίπολις, nel Golfo di Taranto, chiamato poi dai Romani Anxa Callipolis (Gallipoli). Nell'angolo più interno del Sinus Tarentinus fu fondata da coloni laconici la città di Taras (Tarentum, Taranto). Costretta a entrare nell'alleanza romana nel 272 a. C., passò ad Annibale durante la seconda guerra punica; ripresa dai Romani e duramente trattata, fu costituita in colonia Neptunia nel 123 a. C.
Tutta compresa nella Magna Grecia restava invece la terza regione augustea (Lucania et Bruttii). La I-ucania, compresa fra il Mar Tirreno a O. e il Golfo di Taranto a E., confina a NO. con la Campania lungo il corso del fiume Silaro, a NE. con l'Apulia, dalla quale la divide il Bradano; a S., il Lao la separa dal Bruzio. Dalle alte montagne dell'interno attingono acque abbondanti i numerosi fiumi: Siris, Aciris, Bradánus, che sboccano nel golfo di Taranto; Silárus col Calor, Tanager, Laus, defluenti nel Tirreno. Mentre nella zona montuosa dell'interno fioriva l'allevamento del bestiame, la pianura costiera produceva frutta vino, cereali: quivi furono fondate le colonie greche, che, fin dal primo secolo dopo la loro origine, attinsero un alto grado di prosperità. Sul golfo tarantino, cominciando da oriente, troviamo: Μεταπόντιον (Metapontum, Metaponto), tra le foci del Bradano e del Basento (Casuentus); Σῖρις (Siris; presso l'odierna Nova Siri), fondata alla foce del fiume omonimo (oggi Sinni), la cui vallata inferiore prese appunto il nome di Siritide; distrutta la città, il suo territorio fu conteso, nella seconda metà del secolo V, fra Turini e Tarantini, i quali ultimi, usciti vincitori, fondarono, nel 433 a. C., la nuova città di ‛Ηράκλεια (Heraclea; presso l'od. Policoro), tra i fiumi Agri e Sinni, circa 5 chilometri a nord della distrutta Siri, la quale risorse come porto navale della nuova città; infine Λαγαρία (Lagaria), probabilmente a metà strada fra Siri e Sibari.
Sulla costa tirrena della Lucania, procedendo da sud verso nord, si succedevano: Λᾶος (lat. Laus), fondata dai Sibariti alla foce del fiume omonimo (oggi Laino); Σκίδρος (lat. Scidrus), anch'esso stabilimento dei Sibariti, probabilmente non eretto mai a comunità indipendente e che alcuni (J. Beloch) ritengono posto a sud di Lao, altri invece (Ciaceri) a nord, sulla costa verso Pissunte; Πυξοῦς (lat. Buxentum, Pissunte), da cui traeva nome il golfo, oggi di Policastro, stazione commerciale fondata dai coloni di Siri sulla sponda sinistra del fiume omonimo, forse non lungi dall'odierna Policastro di Busento; 'Ελέα (Velia), fondata dai Focei nel luogo di un preesistente abitato italico, su ma collinetta ov'è ora il borgo di Castellamare di Veglia, Ποσειδωνία (lat. Paestum), anch'essa fondazione dei Sibariti, poco a sud della foce del Sele (l'antico Silarus).
Bruzio, propriamente detta ager Brutius, fu chiamata dai Romani la penisoletta sporgente dalla Lucania (a sud del fiume Lao) verso la Sicilia. La costa della penisola disegna varî golfi, i due più notevoli dei quali - e cioè il G. Terineo o Lametino (oggi Golfo di S. Eufemia) a O. e il Golfo Scilacense o Scilletico (oggi Golfo di Squillace) a E. - determinano il restringersi della penisola in un istmo largo circa 30 km. La parte più meridionale della penisoletta è ricoperta dalla Sila, le cui propaggini, allungandosi sul mare, formano i promontorî di Cocinto, Zefirio, Eraclio, sulla costa orientale, Leucopetra, su quella meridionale; Scilleo e Tauriano, sulla occidentale: nella metà settentrionale della costa orientale sporgono i promontorî di Crimisa e del Lacinio. L'Appennino calabrese raggiunge la sua massima altezza (1550 m.) presso Consentia (Cosenza). Il Bruzio fu rinomato per l'allevamento del bestiame, per la sua produzione di vino e d'olio, per il legname della Sila. Sulle coste di questa regione si trovava stanziato il maggior numero di colonie greche. Sorsero sulla sponda ionica: Σύβαρις (Sybáris, Sibari), posta tra i due corsi inferiori dei fiumi Crathis e Sybaris (oggi Coscile), in ampia e feracissima valle; distrutta dai Crotoniati nel 510, fu rifabbricata, nel 445 a. C., come colonia panellenica, col nome di Θοῦριοι (Thurii, Turî); quasi contemporaneamente, fu fondata, poco a sud, sul fiume Trionto, una nuova Sibari (Sibari sul Traeis); nella pseudo-penisola quadrangolare sporgente nello Ionio tra il Golfo di Squillace e il Golfo di Taranto e culminante col Capo Colonne e con la punta dell'Alice, furono tre piccole città che si dicevano fondate da Filottete, e cioè Κρίμίσσα (Crimissa, Crimisa), probabilmente presso l'odierna Cirò, Πετηλία (Petelia), non lungi dall'odierna Strongoli, e Μάκαλλα (Macalla), ancora più a sud, in direzione di Crotone, da cui distava 120 stadî; ignota è infine la posizione di Χώνη (Chone), la supposta capitale della gente dei Coni; Κρότων (Croton, Crotone), tra la foce del Nieto e quella dell'Esaro, distante circa 9 km. da quel Promontorio Lacinio, ove sorgeva il santuario di Era Laeinia; Σκυλλήτιον (Scylaceum, Squillace), sul golfo omonimo; Καυλωνία (Caulonia, Caulonia), presso il promontorio Cocinto, poco a nord dell'odierna Monasterace Marina; Λοκροὶ οἱ 'Επιζεϕύριοι (Locri), su un colle a circa 30 km. a nord del Capo Spartivento, non lungi dall'odierna Gerace Marina. Sulla sponda tirrena, procedendo da sud a nord, s'incontravano: ‛Ρῆγιον (Rhegium, Reggio Calabria), Μάταυρος (Metaurum), alla foce del fiume omonimo, in vicinanza dell'odierna Gioia Tauro; Μέδμα o Μέσπα (Medma), sul fiumicello omonimo (Mesima), presso l'odierna Rosarno ‛Ιππώνιον, su un'altura dominante la costa sud del Golfo Lametino (in corrispondenza di Monteleone Calabro), trasformata poi in colonia romana col nome di Vibo Valentia (ora ripristinato) o anche di Vibona; Τεμέση (Tempsa), in località incerta, nella vallata inferiore del Savuto; Τέρινα (Terina), che alcuni (E. Pais) collocano nell'interno, presso l'odierna Tiriolo, ma che più probabilmente è da porre in vicinanza del mare, presso l'odierna Πανδωσία (Pandosia), nella valle dei Crati, non ungi dall'odierna Cosenza, città probabilmente indigena e colonizzata poi dai Sibariti o dai Crotoniati.
Rimaneva infine compresa nella Magna Grecia anche una piccola parte della prima regione augustea (Latium et Campania), e cioè il tratto più meridionale della costa campana (e precisamente l'odierno Golfo di Napoli) con i seguenti stabilimenti greci (da sud a nord), quelli della penisola sorrentina, la cui colonizzazione da parte dei Greci è attestata dal ricordo dei culti e dei santuarî di Atena e delle Sirene e dai resti archeologici rinvenuti nel sobborgo dell'antica città (Συρρεντόν); 9uelli della regione di Pompei, le cui testimonianze ci rimandano almeno alla metà del sec. VI a. C.; Herculaneum, costruita, a nord-ovest dell'odierna Torte del Greco, sullo stesso piano di Neapolis; Δικαιάρχεια (lat. Puteoli, Pozzuoli); Κύμη (Cumae, Cuma), donde fu dedotta, intorno al 600 a. C., la colonia di Νεάπολις (Neapolis, Napoli). Colonizzate dai Greci furono anche le isole del Golfo: Πιϑηκοῦσσαι (Aenaria, Ischia), Καπρίαι (Caprae, Capri), Ποντία (Pontia, Ponza), Πανδώτειρα (Pandataria, Pandataria).
Etnografia. - Quando, nel corso del sec. VIII a. C., arrivarono i coloni greci a prendere stanza sulle coste dell'Italia meridionale, trovarono ivi più popoli, diversi per stirpe e per civiltà. Tutta la regione a oriente del Bradano e a sud del Gargano (l'Apulia) era occupata da un popolo di stirpe illirica, gli Iapigi (v.), divisi nei popoli dei Dauni, Peucezî, Messapî, e questi alla lor volta distinti in Calabri e Salentini; e se il Bradano segnava, al tempo della colonizzazione greca, il confine dello stanziamento iapigio verso il sud-ovest, è molto probabile che, in età di poco anteriore, questo popolo si estendesse assai di più in tale direzione, forse fino alle montagne stesse del Bruzio. Certo è invece che, nel sec. VIII, i coloni greci trovarono, in tutta la regione tra Metaponto e Crotone, un'altra gente, quella dei Coni (Χῶνες), che gli antichi reputavano di stirpe enotrica ma che la maggior parte dei moderni studiosi ravvicinano ai Caoni dell'Epiro, considerandoli come un vero e proprio substrato della colonizzazione greca nel golfo di Taranto. Genti italiche occupavano invece il Bruzio a sud del golfo di Squillace e la costa tirrenica della Lucania e della Campania: da nord a sud, gli Ausonî-Opici, gli Enotrî, i Morgeti, gl'Itali o Vitali, tutti di stirpe enotrica; ed è probabile che la gente enotrica abitante l'estremità meridionale del Bruzio fosse un ramo di quei Siculi che, oltrepassato lo stretto di Messina, diedero poi alla Sicilia la sua popolazione italica.
Passando a trattare dell'etnografia delle colonie greche, ci richiameremo anzitutto a quanto è stato scritto sui caratteri generali della colonizzazione greca (v. colonizzazione), per ricordare che le colonie della Magna Grecia - che furono prevalentemente colonie di carattere agricolo e perciò di popolazione assai numerosa - presentano, ancor più di altre, quel fenomeno della mescolanza di elementi etnici, che pure è comune a quasi tutte le colonie greche: ciò che non esclude che in ogni città l'uno o l'altro elemento abbia preso, o per superiorità numerica o per ragioni di ordine politico, economico o culturale, la prevalenza sugli altri, determinando così il tipo e l'aspetto etnico della colonia e fissandone, in certo modo, la nazionalità. Si tratta dunque di riconoscere la nazionalità dei gruppi di coloni che parteciparono alla fondazione dei centri della Magna Grecia o almeno di quel gruppo che, in ogni città, s'impose sugli altri.
La più orientale delle colonie della Magna Grecia, Taranto, ci si presenta come una delle più omogenee etnicamente: fu colonia spartana, e laconiche furono le leggi, le istituzioni, le magistrature, il dialetto, la religione dei Tarentini; certi indizî potrebbero, tutt'al più, far supporre che Arcadi della Messenia meridionale, allora recentemente conquistata da Sparta, siano stati ammessi od obbligati a partecipare alla colonizzazione di Taranto.
Nella regione apulo-salentina, mentre si rivela assai scarso l'influsso culturale esercitato da Taranto, varie prove confermano l'arrivo di coloni rodî (ammesso dalla tradizione) e lasciano supporre la presenza di genti provenienti dalla Locride.
Segue il gruppo delle grandi città fondate sul golfo di Taranto e sulla costa bruzia: Metaponto, Siri, Sibari, Crotone, Scillezio e Caulonia. Sono queste le colonie cosiddette "achee" e la tradizione prevalente le faceva derivare appunto dall'Acaia del Peloponneso, a eccezione di Siri, della quale la tradizione predominante ascriveva la fondazione agli Ioni di Colofone. In realtà, la prevalenza di coloni propriamente achei risulta solo per Sibari, ai quali, peraltro, dovettero unirsi in buon numero anche emigranti trezenî, che poi, separatisi dai Sibariti, andarono a dar vita alla città di Posidonia, alle foci del Silaro. Una forte partecipazione di elementi achei è da ritenersi probabile anche per Crotone, ma i culti e le saghe localizzate in Crotone fanno sospettare la presenza, fra quei coloni, di numerosi elementi corinzî. Per Metaponto e per Siri nulla di certo si può affermare se non che alla loro fondazione parteciparono coloni di varie parti del Peloponneso e della Grecia centrale, esclusa però l'Acaia; elementi della Beozia e dell'Acarnania sembrano presenti a Metaponto, come rappresentanti della Focide in Siri e nella vicina Lagaria. La denominazione di "achee" data, in blocco, a questo gruppo di città può spiegarsi, sia ritenendo che i coloni abbiano chiamato sé stessi "Achei", quando così si designavano la maggior parte dei Greci, e più tardi, ristrettasi tale denominazione ai soli abitanti dell'Acaia, si siano creduti perciò derivanti tutti da tale regione; sia perché Achei furono gli abitanti di Sibari, per lungo tempo la più potente e la più famosa delle città della Magna Grecia.
Locresi (in prevalenza Opunzî) furono i coloni che dettero vita alle città di Locri, di Ipponio e di Medma e che occuparono, in un secondo tempo, Temesa, fondata però probabilmente da coloni di altra stirpe. Reggio e il golfo di Napoli furono colonizzati da quegli stessi coloni calcidesi che già s'erano fissati sulle coste orientali della Sicilia (a Nasso, Catania, Leontini, Zancle).
Storia. - La cronologia tradizionale, riferita principalmente da Eusebio, assegna al 1051 a. C. la colonizzazione di Cuma; al 773 a. C., la fondazione di Metaponto; seguono le prime fondazioni siceliote, e cioè Zancle e Selinunte (756), Nasso (736), Siracusa e Catania (734); indi le altre colonie della Magna Grecia, Crotone e Sibari (708), Taranto (706), Locri (673). Si può ritenere per certo che il movimento migratorio dei Greci verso l'Italia meridionale e la Sicilia sia cominciato verso la metà del sec. VIII a. C.; ed è evidente che sulla scelta della regione da colonizzare dovettero pesare soprattutto ragioni geografiche e di convenienza. Non pare dubbio pertanto che le coste italiane dello Ionio dovettero essere occupate dai coloni greci prima di quelle della Sicilia orientale e che, d'altra parte, le città greche del Tirreno che non furono fondate dai coloni di Siri, di Sibari, di Crotone e di Locri - che vi giunsero per via di terra - e cioè le città della Campania, non poterono sorgere se non quando i Greci padroneggiavano, con Zancle e Reggio, lo Stretto di Messina. Il più antico gruppo di colonie va pertanto riguardato quello delle città del golfo di Taranto: Taranto stessa, Sibari, Metaponto e la stessa Siri, la cui fondazione si vorrebbe da alcuni (Pais, Beloch) ritardare di circa un secolo. Tutte e quattro queste città dovettero pertanto avere origine intorno alla metà del sec. VIII: Metaponto, Siri e Sibari - e probabilmente la stessa Crotone - forse prima di Taranto. Intorno al 720 a. C. tutta la costa dello Ionio, fino a Crotone, doveva essere stata occupata dai coloni greci; e mentre, nel corso del sec. VII, Siriti e Sibariti, attraversato il retroterra, sboccavano sull'opposta sponda tirrena e vi fondavano le città di Pissunte, di Lao, Scidro e Posidonia, i Crotoniati si spingevano, con Scillezio e Caulonia, verso il Bruzio meridionale. Sull'estrema punta di questo era sorta intanto, fin dagli ultimi decennî del sec. VIII, la città di Reggio; ma tutta questa regione doveva presentarsi come poco ospitale e difficile a colonizzare, forse per la stessa ragione per cui i primi coloni greci avevano schivato la terra degli Iapigi, cioè per la natura ostile e fiera degli indigeni; questo spiega perché soltanto verso la metà del sec. VII, i Locresi, in mancanza di altre coste su cui posarsi, abbiano deciso di sbarcarvi. Che anche nella Magna Grecia, come nella patria d'origine, siano presto insorte rivalità cittadine, si spiega tanto più facilmente se si considera che appunto di diversa provenienza e di diversa stirpe erano i coloni fondatori di quelle città. Più presto crebbero in potenza e in territorio Taranto e Sibari: quest'ultima toccò l'apogeo della sua potenza fra la metà del VII e la fine del VI secolo, quando il suo territorio attraversava tutta la penisola dallo Ionio al Tirreno e fiorivano i suoi commerci con le più lontane città dell'Egeo; la tradizione, certo esagerando, enumerava venticinque città e quattro popoli indigeni a essa sudditi e assegnava alla città stessa cifre favolose di abitanti. Certo all'ombra della sua potenza vissero allora i coloni di Metaponto e quelli della stessa Crotone. La crescente potenza della vicina Siri non la turbò, ma essa accettò ben volentieri l'appello di Metaponto, incapace di tenere testa da sola ai Siriti; e così, insieme con Metaponto, i Sibariti presero e distrussero lo stato rivale, nonostante l'aiuto recato a esso probabilmente dai Tarantini (circa 530 a. C.). Il territorio della Siritide andò diviso fra Sibari e Metaponto, mentre Taranto era impedita dalla continua lotta con gli Iapigi dall'occuparsi delle cose che si andavano sistemando a suo danno.
Alleati dei Sibariti nell'impresa erano stati anche i Crotoniati i quali, cresciuti anch'essi di numero e di prosperità, soffocavano fra i due potenti vicini: Sibari a settentrione, Locri a mezzogiomo, verso i cui confini essi si erano avanzati con gli stabilimenti di Scillezio e Caulonia. Arse prima la guerra con Locri, nella quale Crotone fu sconfitta (verso il 520 a. C.); ma la città seppe presto risollevarsi: restaurazione alla quale è da credere non sia stato estraneo Pitagora.
La guerra con Sibari e l'annichilamento della rivale segnano l'inizio dell'egemonia di Crotone nella Magna Grecia (510 a. C.). I suoi confini si estesero, a nord, a comprendere tutto il territorio della distrutta Sibari, fino alla Siritide; caddero in suo potere le città di Pandosia e di Temesa e il territorio ove, al principio del secolo V, fu fondata Terina.
Ma altrettanto rapido com'era stato l'affermarsi, fu il decadere del predominio crotoniate; ne fu causa la lotta civile che imperversò a Crotone - e si estese in quasi tutte le città italiote - fra il regime oligarchico-pitagorico, allora al potere, e le fazioni democratiche: i pitagorici furono dovunque sconfitti, la loro setta perseguitata a Crotone e nelle altre città italiote, le quali si sciolsero così dal vincolo di sudditanza, o almeno di dipendenza, che fino a quel momento le aveva tenute avvinte a Crotone (459-454 a. C.). Fu allora che Crotone dovette assistere inerte alla reazione dei Sibariti, i quali ottennero l'appoggio di Pericle per la restaurazione della loro città, trasformata però in colonia panellenica: l'impresa non andò a buon fine, per le discussioni sorte fra i nuovi coloni e gli antichi Sibariti: si venne a una scissione, e questi si ritirarono a fondare una nuova città sul fiume Trionto (Sibari sul Traente), mentre quelli rimasero nella colonia risorta nella valle del Crati, che s'ebbe il nome di Turî (444-3). I coloni di Turî, se poterono stabilire con Crotone rapporti cordiali, dovettero invece combattere lungamente con Taranto per il possesso della Siritide, e con le tribù dei Lucani, che sempre più minacciose premevano dall'interno verso la costa: il primo conflitto si chiuse con la vittoria dei Tarantini, che si annetterono la Siritide e vi fondarono Eraclea (433 a. C.); il secondo, iniziatosi pochi anni dopo, era destinato a prolungarsi, a più riprese, fino all'annichilimento di questa come delle altre città italiote.
Fu appunto la minaccia dell'invasione lucana che spinse, negli ultimi decennî del sec. V, le più pericolanti delle città italiote (Crotone, Sibari sul Traente e Caulonia) a stringersi in una lega, alla quale aderirono in seguito varie altre città, quando, intorno al 400 a. C., le colonie del Tirreno (Cuma per prima, indi Posidonia, Lao, Pissunte, Scidro) cominciarono a cadere nelle mani degli Italici: e intanto, l'insanabile conflitto tra Locri e Reggio e l'ostinata avversione mostrata dai Reggini al nuovo signore di Siracusa preparavano l'intervento di Dionisio nella Magna Grecia.
Accordatosi coi Locresi, Dionisio iniziò le operazioni contro Reggio, invano sostenuta dalle forze della Lega italiota, alla quale dovettero appartenere in questo tempo - almeno formalmente - anche Taranto e Metaponto. Reggio fu vinta e distrutta (387 a. C.); ma le altre città italiote furono ben trattate da Dionisio, il quale anzi assunse, da questo momento, il compito di protettore dell'ellenismo d'occidente contro le minacce delle stirpi italiche (Lucani e Bruzî) e semitiche (Cartaginesi). A capo della lega italiota si assise ora Taranto, che rimase la più potente delle colonie della Magna Grecia, in buon accordo (sotto il governo di Archita) con i tiranni di Siracusa.
Da Taranto appunto partirono gli ultimi tentativi di resistenza e gli ultimi appelli alla madrepatria contro il fato, ormai ineluttabile, dei Greci d'Italia. Venuta meno, dopo la caduta di Dionisio II, la protezione di Siracusa, Sibari sul Traente, Terina, Ipponio e altre città minori, caddero, l'una dopo l'altra, abbattute dalla potenza dei Bruzî; e Taranto, minacciata a sua volta da Messapî e Lucani, domandò soccorso a Sparta, che lasciò partire alla volta dell'Italia il re Archidamo, con un esercito di mercenarî; ma l'impresa finì infelicemente con la morte dello stesso re (342-338 a. C.). Fu poi la volta del re Alessandro d'Epiro (zio di Alessandro Magno) che accorse all'appello dei Tarantini; osteggiato dai Tarantini stessi, preoccupati per la loro libertà, cadde in battaglia contro Lucani e Bruzî (334-330 a. C.). Intanto la pressione dei Lucani e Messapî si alleggeriva: apertasi la strada attraverso il Sannio, apparivano nell'Italia meridionale i primi eserciti e i primi coloni romani.
Avvenuta l'alleanza romano-lucana, i Tarantini ottenevano ancora una volta l'aiuto di Sparta, che inviò in Italia l'Agiade Cleonimo (303 a. C.); questi riuscì a ricondurre la pace fra Roma e Taranto e a garantire per qualche tempo le città italiote superstiti dagli assalti dei Lucani. Ma di lì a poco, contro la rinnovantesi offensiva di Lucani e Bruzî, non vi fu per i pochi Italioti superstiti altra difesa possibile all'infuori di quella di Roma: presidî romani furono accolti in Turî (285 a. C.), indi in Locri, in Reggio, in Crotone. Taranto tentò di opporre ai Romani l'esercito di Pirro, ma a nulla valse questo estremo tentativo di salvare le reliquie della nazione greca in Italia: ritiratosi Pirro dall'Italia, anche Taranto dovette adattarsi a seguire la sorte degli altri Italioti e a entrare nel novero degli alleati di Roma (272 a. C.). G. Gi.
La civiltà della Magna Grecia. - Molte difficoltà si oppongono a un'esatta valutazione della civiltà della Magna Grecia. Innanzi tutto essa è direttamente connessa con la civiltà della Sicilia greca: Empedocle di Agrigento non si comprende senza Alcmeone di Crotone; Epicarmo (nato a Coo, ma vissuto in Sicilia) e Gorgia di Leontini presuppongono Pitagora; mentre viceversa, ad es., Ibico di Reggio continua l'opera di Stesicoro di Imera. In secondo luogo è arduo discernere quanto è originale nella civiltà della Magna Grecia, e quanto invece è stato importato o al tempo della colonizzazione o più tardi sia dalla madrepatria sia dalle colonie dell'Asia Minore, che avevano già un lungo sviluppo autonomo. Sono noti per es., gl'intensi scambî economici culturali durante il sec. VI a. C., tra la Magna Grecia e la Ionia, dalla quale appunto giunsero in Italia Pitagora di Samo e Senofane di Colofone; ma è press'a poco impossibile determinare quanto la Magna Grecia ha dato e quanto ha ricevuto. Infine il problema più spinoso è posto dall'indubbia mescolanza etnica predominante nelle città greche dell'Italia meridionale. Gl'influssi culturali di queste popolazioni, inevitabili in ogni caso, furono inoltre rafforzati certamente da vincoli familiari stretti fra i coloni - giunti senza donne - e gl'indigeni. Ma per noi, che abbiamo una conoscenza estremamente scarsa delle peculiarità di questi indigeni, riesce impossibile distinguere con sicurezza gli elementi non greci della civiltà della Magna Grecia. E perciò si continua a discutere quanto le credenze orfiche e pitagoriche debbano in molti particolari a vecchie credenze indigene; quanto ci sia di non greco nelle tracce di matriarcato evidenti in Locri e in Taranto; quali siano gli elementi italici di molti culti; quale soprattutto sia l'apporto della mentalità indigena nel riplasmare e trasformare l'arte, la filosofia, le istituzioni politiche venute dalla Grecia.
Nonostante queste difficoltà, si può dire che la civiltà della Magna Grecia ha nel complesso una fisionomia che la distingue dalla civiltà degli altri territorî occupati da Greci: perciò il nome di civiltà italiota datale è giustificato. Il periodo di maggiore sviluppo e anche di maggiore autonomia di questa civiltà cade fra il principio del sec. VI a. C., e la metà del V. S'inizia con un intenso movimento di rinnovamento politico e religioso, che, nell'aspetto politico ha la sua principale espressione nella codificazione delle leggi di Zaleuco e Caronda, mentre nell'aspetto religioso dà luogo alla diffusione dell'orfismo, e di altre credenze misteriosofiche, di cui sono testimonianza, per es., i rilievi fittili di Locri dedicati alla dea della morte Persefone. Tale bisogno di purificazione e di certezza nella vita futura, penetrato largamente nelle masse, non rimaneva certo estraneo agli spiriti più aristocratici, ma, per reazione alle tendenze democratiche e anti-intellettualistiche, prendeva in questi la forma di una filosofia e di una prassi politica riservate a ristrette cerchie di iniziati. A costituire questo nuovo indirizzo contribuivano soprattutto due elementi: la tradizione scientifica di Crotone, dalla cui scuola di medicina uscì, ad esempio, Democede, il famoso medico di Dario di Persia, e la personalità di Pitagora che, attratto da Samo nella Magna Grecia, vi rafforzerà, a contatto col misticismo italiota, le sue tendenze di profeta e di maestro, oltre che di scienziato. Il pitagorismo è dunque essenzialmente la risultante della fusione della scuola di Crotone con le dottrine personali di Pitagora, come si vede bene soprattutto nei suoi discepoli, quali Milone e Alcmeone. E da allora pitagorismo e orfismo divennero elementi costitutivi della civiltà della Magna Grecia: affini e pure contrastanti e collegati a due diverse tendenze politiche e perciò l'uno, il pitagorismo, aristocratico, l'altro, l'orfismo, democratico. In taluni dei più gravi contrasti politici della Magna Grecia, come la lotta fra Crotone prevalentemente pitagorica e Sibari, il conflitto fra le due tendenze si rivelerà particolarmente netto. E tanto il pitagorismo quanto l'orfismo si conserveranno fino in età ellenistica e romana. Il pitagorismo, combattuto da Senofane, immigrato anch'egli in Italia, ma conciliato con le esigenze del pensiero di Senofane da Parmenide di Elea - donde attraverso tutta la scuola eleatica, s'inserirà nella principale linea di sviluppo della filosofia greca - influirà su Empedocle, avrà tra la fine del V e il IV sec. svolgimenti teorici e pratici assai interessanti con Filolao, con Archita di Taranto; con Aristosseno penetrerà ben presto in Roma, dove a diffonderlo contribuì col suo Epicarmo Ennio, nutrito di cultura greco-italiota. E maggiore importanza ancora ebbe l'orfismo, diffusosi prima in Etruria fin dal sec. V, poi risvegliatosi fortemente nel IV e nel III secolo, dando luogo a nuove elaborazioni misteriosofiche, tra cui i Baccanali che penetrati in Roma sollevarono il noto scandalo del 186 a. C.
In queste tendenze metafisiche e mistiche, non si esaurì certo la cultura della Magna Grecia. Ma il resto ebbe assai minore originalità. Lirici come Ibico, epigrammisti come la poetessa Nosside di Locri e Leonida di Taranto, commediografi come Alessi, storici come Ippia di Reggio continuarono nella Magna Grecia tradizioni inaugurate altrove. Più originale fu invece la commedia fliacica (v. fliaci) assurta a dignità di arte con Rintone, nato a Siracusa, ma vissuto a Taranto, in cui s'intravvedono più che non si vedano elementi indigeni richiamati a nuova vita dal movimento religioso del sec. IV - III. Discussa è poi l'originalità dell'arte della Magna Grecia. Ma pare assodato che la forma del tempio dorico, di cui pure restano così perfetti esemplari in Italia (Paestum), sia stata importata dalla Grecia. Carattere ionico hanno le celebri terrecotte di Locri. E della scultura arcaica sono incerte le peculiarità soprattutto perché i monumenti sono scarsi e di malsicura attribuzione. Anzi del maggiore scultore, che parrebbe originario dell'Italia meridionale, Pitagora, è in realtà malsicura anche la patria, perché alla tradizione in favore di Reggio si oppone quella in favore di Samo. Ciò, s'intende, vale solo per la tipologia dell'arte, non per l'intrinseco valore artistico dei monumenti, che, come è noto, può paragonarsi a quello delle maggiori opere d'arte della Grecia. E non c'è dubbio pure che nella Magna Grecia furono fiorenti centri di cosiddette arti minori, come ancora testimoniano i vasi dipinti, le argenterie, i vasi di bronzo e le monete.
Ma dal sec. IV a. C., in poi l'assai minore originalità che si riscontra nella cultura della Magna Grecia in confronto ai secoli anteriori - e ciò perché Atene prima e poi Alessandria e Pergamo divennero i centri spirituali del mondo greco - è compensato dalla straordinaria importanza dell'influsso italiota sia sui vicini Osco-Umbri, Messapî, ecc., sia direttamente sui Romani. Gran parte di ciò che della civiltà greca penetrò in Roma - dalla religione alla letteratura, dalla tecnica militare alle norme giuridiche - proviene dalla Magna Grecia. Il centro di diffusione fu Taranto, da cui veniva appunto quell'italiota Livio Andronico che contribuì fortemente a dare vita alla letteratura latina.
Monetazione. - Comprendiamo in questa trattazione le serie monetali coniate dalle colonie elleniche dell'Italia meridionale, a eccezione della serie tarentina (v. taranto).
Le colonie greche dell'Italia meridionale che ebbero una propria monetazione sono: Cuma e Napoli in Campania; Eraclea, Lao, Metaponto, Posidonia, Siri, Pissunte, Sibari, Turî, Velia in Lucania; Caulonia, Locri, Crotone, Pandosia, Reggio, Terina nei Bruzî. La monetazione di queste zecche consiste quasi esclusivamente di serie di argento, il metallo più proprio della monetazione greca, il cui nominale base è il didrammastatere, il più comunemente coniato, al quale si accompagnano la dramma, il diobolo, ecc., ed eccezionalmente il distatere, come a Turî e a Metaponto, oltre ai tetradrammi di Reggio. Pochissime e di effimera durata devono essere state le emissioni di oro, tutte di carattere eccezionale: le più arcaiche si appongono a circa il 490 e alla zecca di Cuma; sono oboli e semioboli di gr. 1,42 e gr. 0,37, rarissimi; qualche quarto di statere risalente al sec. IV si appone a Eraclea e a Metaponto.
La monetazione del bronzo è propria del periodo seriore (sec. IV e III), è piuttosto ricca per le zecche maggiori, povera e appena nota per le minori, avendo rappresentato la moneta spicciola, di minimo valore e più sovente convenzionale, di corso limitato al territorio della zecca. L'inizio della monetazione delle colonie succitate varia per ciascuna di esse. Risalgono alla seconda metà del sec. VI le serie di Sibari, Lao, Siri, Pissunte, Metaponto, Posidonia, Velia, del maggior numero, cioè, delle zecche della Lucania, e quelle di Caulonia, Crotone e Reggio dei Bruzî. Iniziano la loro attività nel sec. V Cuma e poi Napoli della Campania (circa 480 e 450 a. C.); Eraclea (circa 432), Turî (circa 440) della Lucania; Pandosia (circa 450) e Terina (circa 480) dei Bruzî. Sono ancora più recenti le serie delle altre colonie succitate, fra le quali notevole Locri, che inizia una monetazione solo nel periodo del suo apogeo, circa la metà del sec. III.
Anche per la definitiva sospensione della monetazione variano i termini cronologici per quasi ciascuna zecca, questa forma di attività statale derivando dalla più piena e completa indipendenza politica, dalle condizioni finanziarie, dall'estensione e complessità delle relazioni commerciali e degli scambî.
Le serie di Crotone perdurano da circa il 550 sino al momento della conquista della città per opera di Agatocle di Siracusa, che prelude all'occupazione da parte dei Romani (circa 277), con una breve interruzione al tempo dell'occupazione della cittadella per opera di Dionisio (388-370). Le serie di Metaponto vanno dallo stesso periodo al 300, al momento cioè della conquista per opera dei Lucani. Velia, la cui monetazione prende inizio ancora prima del 500, ha ricche serie per tutto il sec. V e buona parte del IV; lo stesso si dica per Turî, fondata circa il 443, non lungi dalla distrutta Sibari, la quale inizia subito una sua monetazione, che dura sino al 268, quando le sue serie vengono sostituite da quelle dei Brettî. La monetazione di Caulonia viene a mancare al momento della distruzione della città per opera di Dionisio nel 338; quella di Pandosia, iniziatasi alla metà del sec. V, cessa già 50 anni dopo, nessun pezzo potendosi datare oltre il 400; e quella di Terina, colonia di Crotone, che s'inizia circa il 480, prende fine già nella seconda metà del sec. IV, forse quando Alessandro d'Epiro liberava la città per breve periodo dal dominio dei Brettî, e i suoi bellissimi stateri col tipo di Terina-Nike cedono il posto a quelli di tipo corinzio, i noti pegasi segnati TE, che contemporaneamente compaiono a Locri e a Reggio ivi segnati dai relativi monogrammi. La monetazione di Sibari è contenuta tutta nel sec. VI, datando le successive numerose emissioni a rovescio incuso al periodo 550-510; quella di Cuma nel V, laddove le ricchissime serie di Napoli, ricolonizzata più volte, e la cui importanza crebbe solo col tramontare della vicina Cuma, si estendono da circa il 450 alla fine della prima guerra punica (241 a. C.), e infine quelle di Reggio, dopo una lacuna di parecchi decennî, dal momento della distruzione della città per opera di Dionisio (387) sino alla sua ricostruzione per opera di Dionisio il Giovane, circa la metà dello stesso secolo, persistono sino forse alla fine del see. lII con quei rari gruppi di pezzi che si dimostrano contemporanei delle più tarde serie di Siracusa, Agrigento e Tauromenio.
Sino dagl'inizî sono varî i sistemi ponderali adottati dalle singole zecche, dipendendo quest'elemento intrinseco della moneta dall'origine della colonia, dalle sue relazioni politiche e commerciali con la madrepatria e con le altre colonie affini o vicine, dalla direzione dei suoi commerci, ecc. Delle città che ebbero serie a rovescio incuso, Reggio, insieme con Zancle-Messina, adotta il sistema eginetico (dramma di gr. 5,70-5,60); Posidonia e Velia il sistema campano (statere di gr. 7,64; dramma di gr. 3,83); le altre quello acheo-euboico-corinzio (statere di gr. 8,37 diviso in terzi di circa gr. 2,72). Nel corso del tempo poi singole zecche modificano il loro sistema; così Cuma e Reggio mutano l'eginetico nell'euboico, Velia il campano nel tarentino; Posidonia si riattacca a quello corinzio; laddove Turî ed Eraclea, che seguono il sistema tarentino, ad esempio di Taranto, diminuiscono nel sec. III il peso delle loro emissioni, equiparandole a quello che ora viene denominato il sistema romano-campano di 6 scrupuli.
I primi prodotti monetarî, risalentí al sec. VI, presentano un comune carattere peculiare che li differenzia da ogni altro gruppo dell'antichità greca: il tipo del rovescio incuso. Esso perdura per tutto il periodo arcaico, e risulta da una tecnica peculiare e originale, propria della regione e dell'epoca, che viene abbandonata dalle singole zecche, l'una dopo l'altra, nei primi decennî del sec. V (v. incuse, monete). Alle emissioni a rovescio incuso seguono ovunque le emissioni a rovescio in rilievo, rientrando così questa serie, anche in riguardo alla tecnica, nel campo generale della monetazione greca, di cui costituisce uno dei gruppi più cospicui.
Le serie, che a volta si associano, si susseguono o si sorpassano, coprono complessivamente un periodo di 3 secoli, dalla metà del VI alla metà del III a. C., rispecchiando, nella grande varietà dei tipi e nella loro impronta artistica, tutte le fasi dell'arte greca, dall'arcaismo e dallo stile severo e di transizione all'arte più evoluta e più fine, a quella declinante, ecc., e ne fissano cronologicamente le caratteristiche.
Immensa è la varietà dei tipi adottati, ciascuno dei quali viene, dall'artista incisore del miglior periodo, trattato e sfruttato in tutte le varianti che esso può comportare e con la maggior arte e finezza di cui il tipo stesso è suscettibile, e che l'artista sa sentire e tradurre sul minuscolo campo della moneta. Mentre Sibari, Posidonia e Caulonia ci presentano tre tipi arcaici possenti: il toro retrospiciente, il Posidone combattente e l'enigmatico Apollo Catarsio, Metaponto ha nella turgida spiga di grano l'emblema più eloquente e significativo della feracità della sua terra, insieme con la quale eterna il fiume-dio Acheloo dalle forme umane e belluine insieme, ed Eracle e Apollo e Demetra e l'eroe Aristippo, in una varietà grandissima di tipi; Crotone ha l'aquila e il tripode del culto apollineo, e insieme le magnifiche figurazioni di Era Lacinia e di Eracle oikistäs della colonia, tipi di una plastica bellezza che risentono certo l'influenza delle opere di Zeusi, che lavorava a Crotone alla fine del sec. V, e gareggiano con i migliori prodotti degli artisti siciliani. Mentre poi Turî accoppia all'Atena dall'elmo ornato della corona d'ulivo, dell'ippocampo, e del grifone, il possente e impetuoso toro cornupete o andante, Velia ha il gruppo del leone assalente il cervo; Eraclea l'Atena Nike e l'Eracle o bibax o nella sua fatica più immane, l'uccisione del leone nemeo; Pandosia la suggestiva figurazione di Pan seduto in riposo presso il suo cane; Reggio l'imponente e severa figura seduta del Demos e le plastiche effigie apollinee. Le serie campane infine celebrano la ninfa Neapolis, e il toro androprosopo, Terina la dea della Vittoria, la Nike-Terina, in una serie di figurazioni che hanno sempre e dovunque destato l'ammirazione di archeologi e artisti. E che gl'incisori dei conî fossero consci della nobiltà della loro arte e della perfezione dei loro prodotti provano le tante firme che essi vi apposero, onde noi possiamo oggi identificare in Aristippo e Aristosseno, Apollonio e Cimone, Filistione e Cleodoro, Istoro e Molosso, gli autori dei migliori pezzi di Metaponto, di Velia, di Turî e di Eraclea, mentre numerosi altri si nascondono nelle sigle che non sappiamo completare ancora.
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