magnanimo
La qualifica di m. isola nelle opere dantesche una ben precisa categoria morale, alla cui formazione aveva contribuito in modo determinante la dottrina aristotelica della μεγαλοψυχία (v. MAGNANIMITATE), filtrata attraverso il commento tomistico all'Etica Nicomachea, la traduzione arabo-latina del libro di Aristotele con la connessa versione in volgare di Taddeo Alderotti, nonché il Tesoro di Brunetto Latini.
M. è per Aristotele colui che si ritiene degno di grandi cose, tale veramente essendo: " Videtur autem magnanimus esse, qui magnis seipsum dignificat dignus existens " (Eth. Nic. IV 3, 1123b 1-2). Precisa Tommaso: " ille videtur esse magnanimus qui dignum seipsum aestimat magnis, idest ut magna faciat et magna ei fiant, cum tamen sit dignus " (In Eth. IV lect. VIII, n. 736). A chi, invece, si considera degno di grandi cose, essendone in effetti indegno, risponde nel testo latino dell'Etica il vocabolo chaymus, inteso da Tommaso come " fumosus ", con la chiosa: " quem possumus dicere ventosum, vel praesumptuosum ".
Reputandosi meritevole di onori commisurati alla sua virtù, il m. gode quando questi gli vengano tributati da persone probe; degli onori che gli provengono da individui qualsiasi, o relativi a piccole cose, non si cura affatto, così come non si cura del disonore, che non può riguardarlo. In ogni caso si mantiene impassibile di fronte alla fortuna e alla sfortuna, non si allieta esageratamente nella buona sorte né si addolora troppo nella cattiva, benché sappia che tale comportamento possa attirargli la fama di altezzoso: " a quibusdam iudicantur esse despectores, pro eo, quod exteriora bona contemnunt, et sola interiora bona virtutis appretiantur " (Tomm., In Eth. IV lect. IX, n. 754). In verità egli non suol nutrire rancore verso alcuno. Lo conferma, tra l'altro, con affinità verbali che non lasciano dubbi sulla fonte utilizzata, Brunetto Latini, il maestro caro a D.: " il magnanimo non si rallegra troppo per cose prospere che gli avvegnano, e non si conturba mai per cose adverse... tiene ben a mente l'ingiurie, ma disprezzale e non cura. E non si loda, e non loda altrui, e non dice villania di niun uomo " (Tesoro volgarizzato, Bologna 1878-1893, VI XX b, 75-76).
Inconfondibile contrassegno del m. è infine la gravità del contegno: " Sed et motus gravis magnanimi videtur esse, et vox gravis, et locutio stabilis; non enim festinus, quia circa pauca studet; neque contentiosus, qui nihil magnum existimat. Acumen autem vocis, et velocitas propter haec " (Eth. Nic. IV 3, 1125a 12-15).
Un simile concetto di magnanimità, così ricco di sostanza morale, era di quelli che dovevano riuscire più accetti alla spiritualità dantesca, soddisfacendone, a parte l'indispensabilità della fede, le vive esigenze di ardimento, dignità, energico agire, totale impegno umano nella conquista del bene. E allora del tutto probabile che gli spiriti magni del Limbo vadano propriamente considerati come m. e trovino in questo carattere l'elemento che tutti li accomuna in tanta diversità di patrie e condizioni e attività: " ... questi chi son c'hanno cotanta onranza, / che dal modo de li altri li diparte? ". / ... " L'onrata nominanza / che di lor suona sù ne la tua vita, / grazïa acquista in ciel che sì li avanza ". /... Genti v'eran con occhi tardi e gravi, / di grande autorità ne' lor sembianti: / parlavan rado, con voci soavi (If IV 74-78 e 112-114).
L'opposizione fra magnanimità e pusillanimità, che si registra in tutti i campi dell'operare umano, fornisce a D., nel Convivio, il destro di bollare li abominevoli cattivi d'Italia, la setta di coloro che ricusano di usare il proprio volgare e commendano l'altrui (e si noti come lo sdegno sotteso al serrato argomentare comporti una qualche forzatura dei tratti aristotelici): Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è. E perché magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, avviene che 'l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori. E però che con quella misura che l'uomo misura se medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di se medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l'altrui men buone: lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui assai (I XI 18-20).
Lo stesso contrasto, ma esteso in un più ampio spazio etico e pratico, oppone la viltà improvvisa e transitoria del poeta dinanzi alla grande impresa del viaggio ultraterreno alla magnanimità di Virgilio, il maestro esemplare che lo risospinge sulla via ‛ onorata ', restituendogli la consapevolezza della sua dignità: " S'i' ho ben la parola tua intesa ", / rispuose del magnanimo quell'ombra, / " l'anima tua è da viltade offesa; / la qual molte fïate l'omo ingombra / sì che d'onrata impresa lo rivolve... " (If II 44).
Così non sorprenderà che anche Farinata si presenti agli occhi di D. quale m. (pur nella limitazione del peccato di eresia e della conseguente eterna condanna): lo innalzano a tale dignità le imprese compiute, la profondità del mondo interiore, l'intrepidezza dimostrata nel seguire in ogni occasione i dettami della coscienza, senza sottrarsi a rischi e responsabilità onerose, l'intenso ma austero dolore con cui medita, ora, sulla tragedia della patria e della famiglia: Ma quell'altro magnanimo, a cui posta / restato m'era, non mutò aspetto, / né mosse collo, né piegò sua costa (If X 73).
Bibl. - R.A. Gauthier, Magnanimité. L'idéal de la grandeur dans la philosophie païenne et dans la théologie chrétienne, Parigi 1951, 295-371; E. Auerbach, Mimesis, Torino 1956, 188; I.A. Scott, Farinata as Magnanimo, in " Romance Philology " XV (1962) 4, 395-411; ID., Politics and ‛ Inferno X ', in " Italian Studies " XIX (1964) 1-13; F. Forti, Il limbo dantesco e i megalopsicoi, in Fra le carte dei poeti, Milano-Napoli 1965, 9-40; U. Bosco, Il canto XIV dell'" Inferno ", in Nuove Lett. II 47-73.