Pittore (Genova 1667 - ivi 1749). Fu dapprima ritrattista (ma non rimane nessun suo ritratto sicuro); si volse poi alla pittura di genere, prediligendo scene di monasteri e conventi di frati, aspetti della vita popolaresca con botteghe e artigiani, soldati in castelli in rovina, paesaggi e marine tempestosi, in cui il tono drammatico della composizione è accentuato dalle pennellate rapide e dai contrasti luministici.
Figlio del pittore Stefano M., alla morte del padre andò a Milano, dove lavorò con il veneziano F. Abbiati, e vi rimase fino al 1703 quando si stabilì di nuovo a Genova. Fu poi a Firenze, pittore di corte del granduca; in seguito, dopo vari viaggi in Toscana e in Emilia, si trasferì a Milano (1711-35), dove lavorò specialmente per il conte Colloredo, allora governatore della Lombardia. Ritornò quindi a Genova.
Nei suoi quadri - scene di monasteri animate da fantomatiche figure di frati, scene di magia o di occultismo, di soldati e di zingari, paesaggi e marine sinistre e tempestose - la materia plastica e luminosa gioca in arrischiate, instabili armonie, dando al soggetto di genere un tono drammatico e fantastico potentemente evocativo. Se si possono ritrovare alcuni aspetti del suo stile nel misticismo del Morazzone e di Francesco del Cairo, nelle acqueforti di J. Callot o nei tempestosi paesaggi di S. Rosa, il vero significato di quelle che L. Lanzi chiamava bizarrie sfugge ancora, soprattutto per la particolare irrealtà delle sue figure (Trattenimento in un giardino d'Albaro, Genova, Palazzo Bianco; Corteo nuziale di zingari, Berlino, Gemäldegalerie; Banchetto nuziale di zingari, Parigi, Louvre). Tra le opere di soggetto sacro: Cena in Emmaus (Genova, S. Francesco d'Albaro), S. Carlo Borromeo riceve gli Oblati e le Tentazioni di s. Antonio (Milano, museo Poldi Pezzoli), il Furto sacrilego (Siziano, Pavia, S. Maria di Campomorto). Grande importanza ebbe il suo influsso, esercitato attraverso l'allievo S. Ricci, sulla pittura veneziana del sec. 18º.