Ben Mahmoud, Mahmoud (forma francesizzata di Ben Maḥmūd, Maḥmūd)
Regista cinematografico tunisino, nato a Tunisi il 25 luglio 1947. La memoria e l'identità, la spinta alla migrazione durante differenti periodi storici (dalla Tunisia verso l'Europa, e viceversa) e la contaminazione fra le culture sono gli elementi essenziali che ricorrono in ogni suo lavoro. L'opera che lo ha reso celebre, dalla quale si è poi sviluppata una filmografia legata ai temi della memoria, del rapporto con la propria terra e dello sradicamento da essa è ῾Ubūr (1982; La traversata).
Dopo essersi diplomato in filosofia e lettere a Tunisi nel 1966, ha studiato cinema all'INSAS (Institut National Supérieur des Arts du Spectacle et techniques de diffusion) di Bruxelles dal 1967 al 1970, anno in cui esordì dietro la macchina da presa con il cortometraggio Le K; tra il 1971 e il 1974 conseguì diplomi in giornalismo e comunicazione sociale, e in storia dell'arte e archeologia presso la Libre Université della capitale belga. B. M. lavorò anche, in quel periodo, come sceneggiatore (Le fils de Amr est mort, 1972, del belga Jean-Jacques Andrien, e poi Kafr Kassem, 1974, e L'émir, 1975, del libanese Borhane Alaouiè) e tecnico del suono (Yusrā, 1971, del tunisino Rachid Ferchiou). Dopo alcuni cortometraggi e mediometraggi realizzati negli anni Settanta (Il n'y a plus rien, 1974; Point de vue sur l'immigration, 1974), il regista ha firmato con ῾Ubūr una delle opere più significative della storia del cinema arabo. Il film è ambientato quasi esclusivamente su una nave in viaggio fra la Gran Bretagna e il Belgio nella data simbolica del 31 dicembre 1980. Ma per i due protagonisti, un immigrato maghrebino e un dissidente polacco, non c'è nulla da festeggiare: la nave è una prigione (nessuno dei due Paesi accetta di farli sbarcare), che rappresenta lo sradicamento totale dalle terre d'origine e l'obbligo di sottostare a repressioni e continui interrogatori di polizia. Lo stile di B. M. è rigoroso ed essenziale nel testimoniare la solitudine e il dolore dei personaggi che, pur vivendo la stessa tragedia, non riusciranno a condividerla; in particolare il lavoro sull'identità si sviluppa anche attraverso l'uso di lingue differenti che creano un'efficace polifonia semantica. Del 1991 è invece Shishkhan (Chich Khan ‒ Il gioiello di famiglia, noto anche con il titolo Poussière de diamant), diretto da B. M. insieme a Fathel Jaibi, uno dei fondatori di quel Nouveau Théâtre di Tunisi che negli anni Settanta e Ottanta ha svolto un ruolo fondamentale nella cultura araba. Gli elementi cari al regista si ripresentano in una storia contemporanea di conflitti generazionali ‒ tra padri e figli ‒ e sociali ‒ fra la comunità tunisina e quella siciliana. Chich Khan anticipa così i lavori successivi con i quali B. M. ha affrontato, con approccio documentario e ricorrendo al video, le strette relazioni storiche e culturali fra la sua terra e i popoli che vi emigrarono: Italiani dell'altra riva (1992), sulla comunità siciliana; Claudia Cardinale 'la plus belle italienne de Tunis' (1994); Anastasia de Bizerte (1996), ritratto dell'ultima testimone dell'esilio dei seimila russi zaristi giunti in Tunisia nel 1920; Albert Shammama Shikly (1996) è invece un intenso documentario dedicato all'omonimo pioniere del cinema tunisino dell'inizio del Novecento; tutte opere che concorrono a delineare un quadro visivo e sonoro di una Tunisia da sempre strutturata come una società multietnica. Nel 1999 B. M. ha girato Les siestes grenadine, lungometraggio a soggetto ambientato in una vecchia casa nella campagna tunisina dove personaggi arabi, europei e africani neri si incontrano e scontrano in intrecci familiari, sentimentali e finanziari, cui ha fatto seguito, nel 2001, Les mille et une voix. La musique de l'Islam, documentario d'ispirazione autobiografica per un viaggio nel cuore della musica islamica. Completano la filmografia di B. M. il lavoro collettivo Les travailleurs émigrés en Belgique (1994) ed Ennejma ezzahraa (propr. Naǧma al-ẓahr, 1998, La stella del promontorio).
G. Gariazzo, Poetiche del cinema africano, Torino 1998, pp. 80-85 e 193-94.