MAIOLICA (fr. majolique; sp. barro esmaltado; ted. Majolika; ingl. maiolica)
È il nome (storicamente inesatto, ma in uso comune in Italia sin dalla metà del sec. XVI, v. sotto) di una sorta di produzione ceramica a rivestimento metallico opaco (smalto stannifero) più spesso bianco, talora variamente colorato, il quale, nelle varietà artistiche, serve di base all'ornato dipinto (v. ceramica).
La tecnica di lavorazione delle maioliche presenta, nelle varie fasi, molti punti di contatto con quelle delle altre ceramiche.
La pasta da maiolica è costituita di due principali elementi: una marna calcarea e una marna argillosa, mescolate in determinate proporzioni, allo scopo di ottenere un biscotto (v. Ceramica) avente le qualità richieste per tenere aderente fortemente lo smalto stannifero da cui deve essere ricoperto. Essa si prepara, si modella ed essicca con gli stessi sistemi delle altre ceramiche. Dopo l'essiccazione, durante la quale devono essere osservate diverse precauzioni, le maioliche vengono infornate per essere sottoposte a una prima cottura (biscottatura) nei forni comuni. L'infornatura dev'essere particolarmente curata, specialmente allorché si tratta di pezzi di varie dimensioni e di diverso spessore, e dipende dall'abilità di chi inforna la giusta disposizione dei pezzi stessi, allo scopo di ottenere una cottura uniforme.
La cottura - che avviene a circa 800-850° - non deve essere né troppo spinta né troppo debole, allo scopo di ottenere un biscotto atto a tenere aderente lo smalto. Un buon biscotto deve essere leggiero, compatto, sonoro, di un colore roseo-carnicino chiaro, qualità tutte che stanno in dipendenza degli elementi che compongono la pasta e relative proporzioni dei medesimi, nonché delle condizioni di cottura.
La smaltatura del biscotto, in precedenza spolverato accuratamente è sgrassato per evitare che lo smalto sfugga in alcuni punti durante la cottura, viene fatta per immersione, oppure per aspersione (questo metodo viene usato specialmente per smaltare piani in genere, piastrelle, ecc.), o per insufflazione, a mezzo dell'areografo, il quale spruzza sull'oggetto la poltiglia di smalto polverizzata (sistema usato per smaltare pezzi con bassorilievi), ecc. Si usano nella smaltatura due principali elementi: una fritta silico-alcalina e un composto di piombo e di stagno detto calcino (v. più oltre). Anche nella maiolica, come nelle altre ceramiche, per dare una maggiore brillantezza allo smalto, si usa ricoprirlo con una vernice costituita da elementi che alla fusione dànno un vero e proprio vetro e che si chiama vetrina o cristallina (v. ceramica).
Dall'esame comparativo dei cimelî superstiti delle antiche botteghe (vedi le vaste serie didattiche del Museo ceramico di Faenza) si può affermare che lo smalto stannifero non è che il perfezionamento dei precedenti modi di rivestimento della ceramica, rivestimento che si ottenne dapprima con la sola vetrina (vernice silicoalcalina) resa poi più fusibile dall'aggiunta di piombo (cristallina). Questa tecnica era già nota ai figuli romani (si disputa se il termine vitrum romanum, impiegato come voce tecnica, sembra nel secolo X, da Eraclio [de coloribus et artibus Romanorum], contenesse o no del piombo; ma già vi accenna chiaramente Alberto Magno in Vera Alchemia, di due secoli posteriore). Comunque, superò le profonde crisi economiche del primo millennio, mantenuta da quelle pratiche di officina che conservarono gli antichi insegnamenti nella manipolazione di un prodotto certamente rozzo, ma allora sufficiente ai bisogni quotidiani della vita, quale ci mostrano le grevi stoviglie sommariamente adorne anche di elementi plastici in rilievo, a ricordo degli archetipi ellenistici e romani (se ne rinvennero a Ostia, nel Foro romano, in tombe sarde presso il golfo di Oristano, in taluni luoghi della Germania, già colonizzati da Roma) variamente assegnabili ai secoli VII-IX, che ci dànno indubbia la presenza di una cristallina verde o giallo-bruna. Questa noi potremmo chiamare la fase paleo-italiana delle faenze. Quindi, e forse sugli esempî bizantini, la pasta dei vasi venne celata con un velo di terra cocente in bianco (ingubbiatura) applicata all'oggetto ancor crudo e resa poi impermeabile in cottura dalla cristallina; e tale velo servì di base tanto per l'ornato dipinto quanto per quello graffito.
La cristallina, di sua natura trasparente, composta di ossido di piombo (piombo calcinato o piombo giallo, in qualche vecchia carta chiamato anche terra ghetta) e di sabbia silicea insieme macinati, come si usa ancora qua e là nella produzione di stoviglie grossolane, e talora anche colorata con ossidi metallici, si trova indicata in testi trecenteschi col nome di corollo (cfr. alcofoll dei vasai della Spagna moresca, alquifoux di quelli francesi e, ancora nel Seicento in Lombardia, aquifoglio); voce che si confonde, nelle incertezze della terminologia tecnologica, con la parola marzacotto (mazzicot dei testi faentini del sec. XVI, fr. massicot) che stette a designare tanto uno degli elementi dello smalto della maiolica (v. sotto; nell'Italia meridionale addirittura lo smalto stannifero stesso), quanto la cristallina incolore con la quale in tempi avanzati (sec. XVI) si usò spruzzare come di un involucro di vetro i colori del dipinto sullo smalto per renderli più brillanti, pratica che ancora si attua.
In tempi imprecisati e certamente per effetto di successive inconscie manipolazioni, che, come è avvenuto in altri campi, hanno sempre portato a straordinarî progressi nella tecnica delle arti industriali, nel primitivo composto usato per il rivestimento vennero introdotti minerali di stagno, dapprima, è da credersi, senza esatta conoscenza né dell'ingrediente né del suo reale effetto, poi all'intento preciso di raggiungere con un' unica manipolazione il risultato che si otteneva già con le successive applicazioni dell'ingubbiatura e della cristallina; il che condusse alla pratica ben definita e caratteristica della maiolica (invetriatura), mediante l'impiego di due distinti elementi insieme congiunti: la fritta e il calcino. Ebbe così inizio la vera e propria tecnica della maiolica.
La fritta (detta da taluno anche marzacotto), trae le sue origini dalle antiche pratiche di bottega; è di natura silico-alcalina, constando di sabbia silicea o feldspatica e di alcali (carbonato di potassa e di soda e cloruro di sodio immessi nel composto, secondo gli antichi didascalici, sotto forma di grumo o tartaro di botte e di sale da cucina) mescolati e cotti in apposito luogo della fornace (o in fornello idoneo).
Il calcino (detto anche piombo accordato) è formato da una data quantità, variabile secondo la ricetta di ciascuna bottega, di piombo e di stagno metallici, puri (una formula del Cinquecento diceva: stagno fiandresco, piombo tedesco) insieme ossidati in uno speciale fornello da calcinare. Aumentando il tenore di stagno (comunem. 25-35 su 100 di Pb) aumentano l'opacità, il candore, la levigatezza dello smalto. La fritta e il calcino, congiunti in date proporzioni, macinati a umido e spappolati in acqua, formano lo smalto (maiolica) nel quale s'immerge rapidamente la stoviglia in biscotto, che si riveste così di un involucro bianco più o meno polverulento; su esso si dipinge l'ornamento voluto con colori atti a resistere al fuoco (950°-970°) della seconda cottura. Di talune vecchie botteghe maiolicare (ad es.: romagnole e metaurensi) le superstiti stoviglie anche comuni ci si mostrano invetriate da uno smalto "allattato", cioè vellutato e brillante; di altre (ad es., in Toscana) sono più facilmente avvertibili la "magrezza" dello smalto, che in qualche caso non diversifica troppo dalla ingubbiatura, e il fenomeno della "scagliatura" o distacco dello smalto dal biscotto per difetto di coesione fra pasta e rivestimento; particolari tecnici sovente preziosi all'occhio esperto come elementi di appoggio nell'attribuzione di una vecchia maiolica ad una officina storica più che ad un'altra.
Le fonti scritte ci ricordano per tempo l'uso dello smalto stannifero da parte dei vasai. Un Pietro Antonio Boni da Ferrara, nel suo trattato di chimica composto a Pola d'Istria nel 1330 col titolo Praeciosa Margarita Novella (varie ediz. a stampa in centoni alchimistici dei secoli XVI e XVII), ne dà un cenno così esatto, da far ammettere che si tratti di una vecchia pratica, risalente almeno al sec. XIII, il che è confermato dai cimelî che ancora ci restano. Le successive didascalie parlano di quell'uso come di cosa comune: ad es.: i Trattatelli dell'arte del vetro e del musaico, dal Milanesi (Bologna 1864) attribuiti al fiorentino Benedetto Ubriachi (quindi fra il sec. XlV e il XV); il Libro dell'Arte di Cennino Cennini, ca. 1400, e via via, fino, per dir di taluni cinquecenteschi, al Cardano, allo Scaligero, al Biringucci e più specialmente a Cipriano Piccolpasso, il maggiore trattatista dell'arte (cfr. I Tre Libri dell'Arte del Vasaio redatti intorno al 1550, mss. ora della Libreria del Victoria and Albert Museum di Londra, e in corso di pubblicazione integrale dopo le due edizioni italiane del 1857 [Roma] e del 1879 [Pesaro] e la francese del 1861 [Parigi]).
Il nome maiolica, peraltro, ci viene da Maiorca nelle Baleari (raddolcito alla toscana, cfr. Dante, Inferno XXVIII, 82) non perché in quel luogo si siano eseguite ceramiche tali da imporre una moda, ma perché interessato - come quanto avvenne per altri prodotti di grande diffusione (cfr. i nomi arazzo, damasco, delft, faenza, ecc.) - al traffico di esportazione che raccoglieva dal litorale iberico e spacciava le ceramiche specialmente valenzane a lustro metallico, le più con note araldiche, ambitissime anche dalle grandi case italiane del Trecento (fine) e del Quattrocento. Tale nome sino a circa la metà del sec. XVI stette nel linguaggio comune a indicare i "lavori di pietra" o di "vetrame" cioè di terracotta smaltati e dipinti e poi "finiti" a terzo fuoco con effetti di iridescenze e brillantezze di metallo (v. Giorgio Andreoli), ottenute mediante la tecnica più propriamente orientale del lustro, appresa dai nostri vasai nel tardo Quattrocento se non proprio agl'inizî del secolo dopo. Verso il 1540 (se ne hanno esempî anche anteriori) la voce maiolica fu estesa a designare tutta la produzione a smalto stannifero, indipendentemente dalle applicazioni a "terzo fuoco", e tale uso rimane.
Nate dallo stesso bisogno estetico e quindi dallo stesso movimento di ripresa dell'industria d'arte in Italia, la tecnica dell'invetriatura (d'ora innanzi diremo maiolica) si separò da quella della ingubbiatura o mezzamaiolica (come impropriamente fu chiamata), benché in certi periodi di talune officine, anche in tempi più avanzati, sia difficile la loro distinzione; e ciascuna delle due varietà conquistò un suo speciale carattere. La maiolica divenne il veicolo di un gusto d'arte che, dagli albori del '400 può dirsi a tutt'oggi, attraverso decadenze e risorgenze imposte dai nuovi modi di vivere, dalle esigenze dei mercati, dalla necessità di utilizzare nuovi materiali, ma soprattutto dal diffondersi del gusto d'arte e dal vario atteggiamento della cultura, seppe assumere, specie con la pittura figurata in policromia sul candido smalto, la nobiltà di espressione di un fenomeno squisitamente, propriamente italiano, talora assurgendo all'altezza di esponente di una fase del vivere nazionale a irradiare i suoi influssi sull'opera similare, ma infinitamente inferiore, delle altre nazioni. La mezzamaiolica (detta anche "bianchetto") confinata dal suo più crudo mezzo tecnico - il graffito dell'ingubbio - a un tipo più corrente destinato nella quasi totalità al consumo delle classi medie e minori, si limitò a rudi e ingenue rappresentazioni ornamentali che lungamente restarono fedeli ai canoni goticizzanti che avevano presieduto al primo sviluppo del suo repertorio decorativo e chiuse il suo ciclo d'arte all'incirca con la metà del Cinquecento per continuare sotto un aspetto piuttosto popolaresco e anche rustico.
Scoprendo con idonea punta il fondo ingubbiato dell'oggetto, che la cristallina, fondendo in cottura, rendeva ancora più caldo di tono in contrasto eol bianco avorio del restante velo terroso, i ceramisti seppero ottenere effetti notevoli, talora delicati, il più sovente robusti e incisivi, sia che l'ornamento fosse riservato in bianco sul fondo, sia, al contrario, che risultasse in color rosso bruno nei tratti del fondo stesso messi allo scoperto con la graffitura. Sovente l'effetto veniva rialzato da larghe macchie di verde e di ruggine gettate a caso qua e là, dovute a ossidi metallici molto fusibili scorrenti sull'oggetto con trasparenze quasi di acquarello; meno spesso da tocchi di turchino, d'indaco, di manganese, finanche di giallo, che seguono una data linea dell'ornamento.
Dappertutto, con maggiore o minore gusto e sentimento d'arte, si è fatto di codesta ceramica per le necessità ordinarie del vivere. I centri più rappresentativi - allo stato degli studî - sono da vedersi nell'Italia nord-orientale, che a Bologna, Modena, Parma, Ferrara, Padova, Verona, Venezia, ci ha dato esempî dei più notevoli. È celebre il disco quattrocentesco padovano con la Madonna in trono, segnato Nicoleti (dalla xilografia così firmata di Nicoletto da Modena, che servì di modello al ceramista); ma si conoscono molti altri capi - piatti, pezzi da forma sostenuti da figurette a guisa di cariatidi, stoviglie varie - con motivi animali, vegetali e araldici, profili di dame e di cavalieri, simboli e ornati di ogni sorta, tracciati con gusto e con sicurezza. La laguna di Venezia ha in questi ultimi anni restituito innumerevoli quantità di frammenti, che si possono scaglionare lungo la durata di più secoli.
Pavia, nel tardo Seicento, produsse per alcun tempo piatti "da pompa" graffiti, per opera dei Cuzio; Bologna, ancora nel primo trentennio del Settecento, ci mostra grandi giarre farmaceutiche, che incredibilmente mantengono vivi i vecchi schemi goticizzanti.
A questa classe di ceramiche (che si trova chiamata anche "della Fratta" o "alla castellana" senza giustificazione) potremmo accostare anche quella delle cosiddette "marmorizzate", dove non è elemento d'arte, bensì un certo gusto e perizia di tecnica, perché si tratta di produrre un rivestimento che dia alla stoviglia l'aspetto dell'agata, dell'onice o di altre pietre dure a frattura variegata; il che si ottiene mescolando materiale di vario colore all'ingubbiatura di base: tecnica, anche questa, praticata nel mondo antico, ripresa da ceramisti bizantini e musulmani e poi da quelli italiani.
Quando poco oltre il Mille, prima che altrove in Italia, col rifiorire della vita e delle arti che vi sono connesse, all'architettura si richiesero ancora i segni della ricomposta civiltà, negli edifici romanici per ogni dove sorgenti nella penisola si videro applicati, a modo di decorazione (che qua e là è ancora superstite entro appositi "nidi" nelle cortine di laterizio), scodelle o bacini di ceramica a ornati variamente dipinti o graffiti o a riverberi quasi di metallo o anche, più semplicemente, di un unico colore uniforme. Pensò taluno che per l'origine di quest'uso fosse ancora necessario rivolgersi all'Oriente musulmano, la cui ceramica era allora splendidissima - all'Egitto, alla Siria, alla Persia e anche alla Spagna dei Mori - di dove certamente ci vennero, con i traffici ripresi per i più intensi rapporti stabiliti attraverso il mondo mediterraneo, i più cospicui di quei bacini. E fu dimenticato che tale uso non era se non una diretta discendenza di un gusto ornamentale romano (a Ostia, fino dai primi secoli d. C., si trovano ciotole "aretine" inserite nell'intonaco di edifici): gusto trasmesso dalle corporazioni d'arte dell'alto Medioevo agli architetti bizantini e protoromanici e da questi ai nuovi costruttori. Se (come a Pisa, a Pomposa, a Ravenna, a Ravello, a Roma stessa e altrove) vediamo ancora campioni di preziose ceramiche esotiche applicati in campanili e chiese dei secoli XI-XIII, la produzione autoctona egualmente ci appare in prodotti più poveri di espressione artistica e di tecnica (naturalmente non a lustro metallico), talora alternati, come più spesso a Roma, a tondi di marmo colorato, ma già significativi di un'esperienza di mestiere che si riafferma. Ve ne sono in mezzamaiolica; quelli, più tardi, in maiolica vera e propria formano gl'incunabuli della nuova tecnica che qui ci interessa.
Incunabuli che, già dai secoli XIII-XIV, sotto forma di stoviglie, possiamo assegnare a pochi centri produttori dell'Italia centrale (meglio conosciuta è la suppellettile venuta fuori a Orvieto, dal 1905, con l'espurgo dei "butti" o pozzi per immondizie scavati nel masso, più recentemente a Montalcino [Siena] dai rinfianchi delle vòlte del palazzo pubblico, da maggior tempo a Faenza in sterri occasionali); centri non sempre facilmente differenziabili per la relativa affinità delle manifestazioni, nelle quali, comunque, l'impiego dello smalto stannifero, sia pure ancor "magro" e limitato al rivestimento di una parte soltanto della stoviglia - quella più in vista - è già da ammettere col finire del Duecento.
Notazioni di archivio del secolo precedente ci hanno mantenuto taluni nomi di artefici (1142, Petrus orzolarius a Faenza; 1195, Martinus orciolaius a Firenze); del Duecento stesso è la menzione di un commercio che si viene stabilendo in Toscana: l'esportazione di ceramiche dall'un paese all'altro, segno quindi della formazione, per il verificarsi di condizioni più favorevoli, di centri più attivi nell'arte, ma né sappiamo come lavorassero quei maestri, né di qual genere di stoviglie propriamente si facesse commercio. Ci conviene avere ricorso a fonti sussidiarie (miniature e pitture) per avere più chiara indicazione di forme e di ornamenti coevi e anteriori, tuttoché i cimelî superstiti - col sec. XIV fatti meno rari - ci mostrino influssi bizantini e orientali (più tardi anche gotici, insieme con gli orientali attivi e contaminantisi) peraltro con un'unità di stile che accomuna tutta la produzione in un limitato repertorio che potremmo affermare costituisca, fino ai primi del sec. XV, la fase arcaica della maiolica italiana (tav. CLXVII).
Varie le forme - la maggior parte procedenti dalle tradizionali -; alla remota tradizione locale egualmente riconducibile l'ornato plastico sempre un po' forte, che si trova il più sovente sui vasi orvietani come a richiamo di simile foggia nel bucchero etrusco.
Più comune è il boccale che, rozzo e panciuto a Roma, si mostra più elegante e slanciato nelle varietà senese e faentina e, rapidamente diffuso nella nuova vaghezza di esecuzione, dà ben presto e lungamente il nome all'arte (boccaleria, boccalari). Quanto ai temi decorativi, frequente a formar fondi ci appare ancora un minuto graticcio dipinto col bruno che si schiarisce in violaceo del manganese, da cui, toccate in verde ramina, si staccano figure di animali e più tardi anche umane, mostruose e irreali, ma anche viventi e, naturalmente, stilizzate. Ancor più frequente è la "catenella" dipinta in pallido verde a chiudere i campi ornamentali, sui quali spiccano sovente, o grandi lettere capitali, oppure gli strumenti della Passione e taluni elementi di blasone (ad es., la Colonna e anche più completamente uno scudo) a iniziare l'ornato simbolico e quello araldico. I due soli colori - bruno-violaceo e verde - intonatissimi, si richiamano, essi pure, a un tema bizantino, che, insieme con taluni particolari elementi di decorazione (un misto di gotico e di orientalizzante), ci riporta a quella coeva maiolica di Paterna (presso Valenza nella Spagna orientale) di recente scoperta, dove troviamo evidenti taluni degli schemi che più hanno influenzato il repertorio italiano, specie orvietano, del tempo, per una corrente che si manifesta per taluni aspetti uniforme anche sulle coste di Provenza come su quelle dell'Africa settentrionale.
Allorché appare il colore turchino, il richiamo all'Oriente si fa più manifesto: esso ci si appalesa anche in una forma di vaso destinato a contenere droghe esotiche, cilindrico, quasi a segmento di canna di bambù, dalla cui foggia si crede prendesse nome di albarello (v.), ma forse tale voce deriva meglio da quella araba al-barnī, che vuol dire appunto vaso da droghe.
Il possesso di nuove tinte - il turchino che si usa in più toni, quasi nero e in rilievo (zaffera) oppure a velature luminose, e i gialli cedrino ed ambrato (questo poi chiameremo "giallo pavona") - viene a togliere all'ornato dipinto la monotona fissità di una dicromia nobile, ma senza splendore e non più rispondente ai nuovi gusti e alle acquistate esperienze. Viene così resa possibile l'espressione delle fantasie decorative che verso il primo trentennio del Quattrocento sorgono a rinnovare anche la maiolica. Ciò si manifesta ancora con una relativa unità di rendimento in tutta l'opera delle officine che troviamo allora attive nell'Italia centrale e con un'austerità di toni e di valori che ci persuade a chiamare di stile severo il complesso della produzione di questa fase.
A individuare le varietà sotto cui ci si presenta questo rinnovamento, è necessario contentarci qui di poche formule, le quali, se possono portare qualche discriminazione utile poichè ancora è alquanto incerta la critica, non possono cogliere al vivo l'essenza del movimento, che non è solo di tecnica o di segno, ma è condotto da artefici che vivendo in pieno nel loro lavoro ne hanno ben chiaro il senso e perciò ne acquistano dignità e coscienza. Essi, infatti, procedono con ricchezza d'inventiva, libertà di scelta, intelligenza di adattamento; compenetrano e assorbono i più svariati elementi, siano tradizionali o esotici; riducono a efficacia di rappresentazione quel che potevano trarre dai vecchi temi di astrazione e di simbolismo; si fidano soprattutto al loro sicuro gusto per rendere liete di un nuovo sorriso le umili cose destinate al vivere quotidiano.
Alcune immagini grafiche ci aiuteranno meglio a chiarire questo primo tentativo, altrove già da me parzialmente proposto, di classificare i mutevoli aspetti di una materia quanto mai fluida e inadatta a essere racchiusa in quadri per la stessa sua facilità di contaminare i proprî temì ad nutum dell'artefice o del committente. Diciamo dunque che questo stile severo, pur nella sua unità d'insieme, ci palesa tre distinte fasi. Le prime due, comprensive a lor volta di varie famiglie di decorazione, si fondano essenzialmente sopra un complesso di ornati, nel quale la figura umana, quando appare, ci manifesta un valore essenzialmente decorativo.
Della prima fase (circa 1430-1480) vogliamo indicare:
1. La famiglia verde che possiamo dire più propriamente toscana, così definibile per l'uso quasi esclusivo di un verde brillante che tende al bluastro, impiegato a campire eleganti e decise figure di uomini e di animali più schiettamente italiane profilate in bruno - ancora le due vecchie tinte - e con rari tocchi di giallo greve entro un chiuso intreccio di fogliami stilizzati (tav. CLXVIII).
2. La famiglia a zaffera in rilievo (dal tema dominante detta anche "a foglie di quercia"), le cui piene manifestazioni sono precedute da qualche raro pezzo di transizione (v. il piatto al museo di Rouen) che, insieme con la zaffera, ci mostra in rilievo anche il verde. A quest'ornato sono associate figurazioni umane ed animali, vegetali e araldiche, tutte incisivamente stilizzate. Unici colori il turchino denso, pastoso (a "goccioloni") per le figure, e il violaceo del manganese per il disegno, di schietto sapore orientale, mauro-gotico e italiano insieme (tav. CLXVII).
3. La famiglia italo-moresca, che è più propria del ciclo fiorentino, intesa questa notazione con un significato territoriale alquanto vasto; (le fornaci di Montelupo, che vi son da comprendere, meritano un particolare studio in proposito). Sugli esempî mauro-iberici che da presso vuole imitare, essa cerca di riprodurre coi comuni mezzi allora posseduti dai nostri vasai (turchino lavato, verde gialliccio, e ancora manganese per il disegno) l'effetto dei lustri tanto ammirati sulle maioliche ispano-moresche, che i traffici toscani largamente importavano da Valenza e dalla Catalogna in Italia (cfr. Corpus della maiolica italiana, Roma 1933, n. 2). Questa prima fase dello stile severo, salvo alcune stanche propaggini del suo terzo gruppo, si esaurisce abbastanza presto; i suoi cimelî sono rarissimi e preziosi: forse non superano di molto, nel complesso, il centinaio.
Della seconda fase (circa 1460-1500) indicheremo:
4. La famiglia a occhio di penna di pavone che vediamo assai intensa di policromia e di forte eretto decorativo. Il tema acquista particolare rilievo a Faenza, perché vi si connette all'agitata vita della corte manfrediana dell'ultimo quarto del secolo e agli amori di Galeotto Manfredi (ucciso nel 1488) con Cassandra Pavoni, al cui casato gli "occhi" sembrano qui potere alludere (tav. CLXVIII).
5. La famiglia della foglia a cartoccio, su cui domina persistente un motivo gotico reso mediante la raffigurazione di una lunga foglia stilizzata, quasi a nastro, che tende a ravvolgersi su sé stessa, sobriamente ma robustamente colorata in turchino a più toni, manganese, verde e giallo ambra. Essa si accompagna anche ad altri motivi del tempo (tav. CLXVIII).
6. La famiglia del melograno o della palmetta persiana, assai vistosa e che impiega la stessa tavolozza. Discende da analoghi ornati di stoffe seriche orientali e il motivo, che prende grande voga, viene utilizzato anche in ampie manifestazioni, come nel celebre pavimento faentino di San Petronio a Bologna (datato 1487; tav. CLXXVI), alternato assai spesso a rosette dello stesso valore cromatico, le quali potrebbero indicarci la medesima stilizzazione floreale veduta in piano anziché di profilo.
7. La famiglia alla porcellana (databile almeno dal 1487 col pred. pavimento) in solo turchino su fondo bianco, a ornato sinuoso, filiforme, caricato di fogliole alterne, di diretta ispirazione estremo-orientale da un tema pervenuto, è da credere, per il tramite mongolo-persiano. Applicato come elemento di contorno nel predetto pavimento in San Petronio, diverrà poi uno degli schemi preferiti per decorare i rovesci di taluno dei pezzi più raffinati del primo Cinquecento, tanto faentini quanto toscani e dipendenti dal canone faentino (Corpus della maiolica italiana, I, 236, 242, 243, ecc.) e, poi, il motivo che alimenterà l'ornato di una vastissima serie cinquecentesca variamente arricchita di temi concomitanti (la giunca, il cuore trilobato, il crisantemo, l'anitrella, ecc.), serie associata sia al nome di Casa Pirota, sia all'opera di altre attivissime botteghe di Faenza o da Faenza ispirate.
I motivi di questa seconda fase dello stile severo si trovano assai spesso intrecciati fra loro e tanto col formare la base dell'ornato, quanto col servire da semplice contorno alle figurazioni che insieme vi appaiono, umane e animali, simboliche e di blasone, o a scene schematiche, talora anche fliaciche e di vita vissuta, oppure a rappresentazioni sacre, vengono a comporre un sobrio quadro reso con austeri mezzi, che intorno all'anno secolare 1500 verrà a illeggiadrirsi dei motivi raffinati più proprî all'ornamento del Rinascimento e specialmente delle "grottesche" (cfr. Corpus della maiolica italiana, I, tav. v, vii, ecc.).
Una particolare manifestazione di questo periodo è formata dai pavimenti in ceramica, a mattonelle quadrate o esagonali e a formelle composite, a "cellule autonome" o "a tappeto". Tutta Italia ne è ricca: se ne hanno documentazioni scritte già da metà del Quattrocento (a Ferrara, a Pesaro, a Urbino, ecc.); ce ne restano esempî cospicui a Napoli, a Bologna, come vedemmo, a Parma (tav. CLXXVI), a Roma, a Siena (tav. CLXXVI), a Venezia, ecc. Questa produzione si è lungamente mantenuta in Liguria e più ancora nel regno delle Due Sicilie, anche come rivestimento (a Napoli il Chiostro di Santa Chiara; tav. CLXXVII); parallelismo fra queste due regioni che può trovare spiegazione nei rapporti commerciali e politici che tanto la Liguria quanto l'Italia meridionale hanno avuto con la Spagna dove quest'uso era comune.
Altra speciale forma d'attività, da mezzo il Quattrocento a mezzo il Cinquecento e oltre, hanno avuto le officine fiorentine dei Della Robbia (v. della robbia; tav. CLXXVIII).
Ma è soprattutto la terza fase dello stile severo - la quale insensibilmente, ma con rapido moto, ci trasporterà poi nel campo dello stile bello - a condurci, fra il finire del secolo e i primi due o tre lustri del successivo, a una vera e propria espressione d'arte. In talune officine più dotate - Faenza era certamente allora all'avanguardia e conduceva il movimento - l'ornatista più non si appaga della semplice decorazione che diremo lineare, pur ravvivata dalla più vivace policromia.
Sotto gli stimoli del Rinascimento, nella coscienza delle sue possibilità, ampliate così dalla conquistata pienezza della tavolozza come dalla facilità di avere sottomano spunti figurativi da cui attingere anche elementi di composizione (incisioni, specialmente, che si diffondono e divengono parte del patrimonio tecnico d'ogni bottega), eccitato dalle sempre nuove esigenze d'una clientela ricca, raffinata e colta qual è quella che potevano dare le grandi casate del tempo - clientela che nella pittura su maiolica, fatta eseguire a proprio talento, vuol trovare l'espressione del suo gusto quando signorile e dotto, quando bizzarro o gentile o pomposo, in tutti i casi personale - il pittore maiolicaro rapidamente acquista una nuova maniera di decorare le sue opere, sulle quali il senso di "umanità" diventa determinante e del soggetto e di ogni valore.
Non più veduti elementi di racconto vengono così ad assumere anche nella maiolica una parte importante del repertorio, talora limitati alla parte centrale, talora invadenti tutta la superficie dell'oggetto a scapito dell'antica zona di contorno, e anche indipendentemente da ogni criterio di distribuzione simmetrica sulla superficie stessa, quale era prescritto dal vecchio canone dell'equilibrio fra le parti dell'ornato.
Ma soprattutto nel sentimento d'intrinseca leggiadria cui il maestro vuole ispirare le sue forme e nel senso di ritmo che le lega fra loro armoniosamente ad animare un limpido campo cromatico, del quale comincia a essere partecipe come uno dei fattori dell'unità stilistica dell'opera anche il paesaggio, dobbiamo vedere il rinnovamento della pittura su maiolica.
La figura umana viene a essere considerata come può essere resa, insieme a quanto può dire e significare, variamente atteggiata in scene più o meno complesse che si dicono "storie" (da cui il nome di "primo istoriato" che vogliamo dare a questa terza fase dello "stile severo"). E queste "storie" sia fantastiche sia desunte da temi sacri o mitologici, da spunti biblici o letterarî, da stampe italiane o tedesche (in questo periodo: di anonimi fiorentiní, del Mantegna, di Iacopo de' Barbari, di Nicoletto da Modena, di Martino da Udine detto Pellegrino da San Daniele, di Pellegrino da Cesena, di Alberto Dürer, di Martino Schongauer, ecc.), diventano la novità verso cui si volge ansiosa la massa dei maiolicari sotto la spinta della concorrenza. In talune botteghe privilegiate, anche i disegni veri e proprî di pittori verranno poi a servire come cartoni; ma è ovvio che il nome di Raffaello - nel Sei e nel Settecento, naturalmente a torto, si credette l'Urbinate un pittore di stoviglie - non può connettersi alla maiolica se non attraverso il largo e crescente uso fatto dai ceramisti delle stampe e delle incisioni di Marcantonio Raimondi e della sua scuola, che, col diffondere le opere del Sanzio, più ancora servivano a diffondere il "raffaellismo" (tav. CLXX).
Si è visto che il nuovo canone, ossia il "primo istoriato" col quale lo stile severo chiude il suo ampio ciclo, muove da Faenza. Attorno al nome della città romagnola - assunto poi nella sua seicentesca traduzione in francese col nome di faïence a esponente di tutta una varietà della ceramica - è onesto raggruppare le botteghe che ne seguono l'impulso o per opera di maestri emigrati o per diretta imitazione delle opere (vedi i pezzi datati di questo periodo e in genere fino al 1530 nel cit. I volume del Corpus della maiolica italiana). Così Cafaggiolo e Forlì son da mettere nel novero; ed anche Deruta e Siena (tav. CLXIX e CLXX), dove è accertata assai presto l'immigrazione di artefici faentini; e tale canone - da contrapporre alla maniera urbinate o meglio metaurense più tarda di una generazione - tecnicamente può essere definito come consistente in una specie di monocromato turchino - contorni decisi, modellato a graduazioni della stessa tinta - parcamente rialzato qua e là da tocchi preziosi ametistini, verdi e di ocra, che s'innestano al tono generale senza alterarlo (es. caratteristico nella targa di Londra; v. tavole a colori); monocromato talora esclusivo (e diverrà poi una caratteristica della celebre Casa Pirota, eseguito su fondo azzurro o berrettino), talora racchiuso da un contorno di fantasia desunto dall'antico ("grottesche") dipinto a più colori limpidi e schietti, d'intonazione un po' fredda, ma in costante sintonia fra loro e con la parte centrale. Equilibrio cromatico, dunque, di rara efficacia, nel quale l'andamento dell'insieme, sebbene già inizialmente pittorico, è ancora di sentimento decorativo.
Anonimi tutti o quasi questi maestri. Essi, col concludersi del ciclo che potremmo dire quasi ancora quattrocentesco, aprono la via, come si è detto, allo stile bello. Nelle venti o trenta opere loro superstiti, dove si condensano i pregi e le deficienze ad essi più proprî, è da vedersi, a nostro avviso, la più squisita e alta espressione della pittura su maiolica. Indichiamo a mo' d'esempio i due pannelli (Museo nazionale di Firenze e Victoria and Albert Museum di Londra) ambedue siglati dal monogramma B T, rispettivamente col Martirio di San Sebastiano e con la Resurrezione, i piatti con Davide e Golia (datato 1507, anche al Bargello, C. M. I., I, 42, v. tavole a colori), con la morte della Vergine al British Museum, col Trionfo di Selene al Bargello e con Cristo davanti a Pilato del Museo civico di Bologna, faentini; i piatti con Giuditta di ritorno da Betulia con Endimione (dal Botticelli) e con "il pittore di maioliche al lavoro" (tav. CLXIX), di Cafaggiolo, al Victoria and Albert Museum e in collezione privata, ecc.
Una nuova espressione più decisamente pittorica sarà raggiunta fra il 1515 e il 1520 da Nicolò Pellipario (1475? morto prima del 1547) da Casteldurante nel ducato di Urbino, dal quale trae origine la nota famiglia dei maiolicari Fontana (v.). Versatile, nomade, relativamente colto e più ancora fornito di cospicue doti di gusto, di abilità e di sentimento, Nicolò, assunta la maniera faentina al limite della quale l'avevano condotto i maestri del "primo istoriato" (maniera il cui valore tonale era stato introdotto in Casteldurante stessa nel 1508 dal vasaro Giovanni Maria, cfr. C. M. I., I, 46, Coppa Hearst; tavv. CLXVIII e CLXX), la porta a nuovi accenti più ampiamente narrativi, con l'impiego di una tavolozza più calda, più ricca, più scaltrita e il ricorso a fonti più dense di racconto. Questo orientamento verso criterî più formalmente umanistici, nella ricerca dell'effetto, nel sentimento del paesaggio, nello studio del partito architettonico immesso sovente a sfondo della "storia", ci si mostra nel Pellipario con un insieme di armonizzazioni di forma e di colore e con un'impronta personale che non fu più superata. Molte opere, ispirate da silografie, da incisioni e da disegni o anche, come si crede, direttamente da lui composte vengono attribuite al Pellipario (cfr. per tutte la serie di 17 piatti del cosiddetto "servizio Correr" [Ridolfi?] al Museo Correr di Venezia). Egli raramente le segna (cfr. C. M. I, I., 104 e 228, tav. XXIX, 275 R, 338 R).
Questo stile rapidamente fa scuola da Urbino, dove confluiscono, col Pellipario e i Fontana, maiolicari da ogni paese e in specie i durantini, che tuttavia hanno un loro accento speciale (C. M. I., I, tavv. XIV, XIX, XXI ecc.). I maestri lo accettano e lo divulgano con un fervore che risponde anche agl'interessi pratici delle loro botteghe. Vi concorrono il mutato costume, la voga che vien trasformando il piatto a soggetto da stoviglia di comune uso in un capo "da pompa" da appendersi nei gabinetti in paragone di altre opere d'arte o da esporsi nelle sale sontuose ("credenze"); e i principi stessi diffondono il nuovo uso con doni che ne fanno da corte a corte. La volgarizzazione del "raffaellismo" alimenta a mezzo delle stampe il genere sempre più "illustrativo" della produzione. Da ciò una lavorazione in grande e quindi, per così dire, "in serie", un po' industrializzata; il conseguente andazzo di bottega, che discioglie, teste il citato Piccolpasso, in comode formulette il problema di trovare i mezzi cromatici convenienti a rendere i varî elementi della composizione; l'uso di cartoni (spolveri) che consentono la riproduzione quasi meccanica (talora rovesciata) di una data figura che passa dall'un pezzo all'altro, anche dove non è richiesta dalle necessità del racconto. E la fortuna incontrata da questi pezzi sul mercato, rendendo il genere più popolare, ne diminuisce sempre più le esigenze artistiche, talché la produzione si fa facile, ma altrettanto decrescente di valore. Da ciò la grande quantità che ancora possediamo di stoviglie genericamente dette di Urbino, nella quale la critica, ancorché attenta e paziente, trova grandi difficoltà a discriminare officine e maestri. Ché dappertutto ormai si lavora nel genere e, per accennare a un fatto documentato, fra il 1530 e il 1550 Faenza sola ha attive più di trenta botteghe, taluna delle quali così organizzata da poter produrre in pochissimi mesi più migliaia di un dato tipo di vasi per l'esportazione in varie parti d'Italia e poi anche dell'estero. In questo tipo di produzione la vecchia critica trovava l'espressione "aurea" della maiolica italiana; il gusto più recente, viceversa, l'aveva rifiutato per volgersi alle maioliche primitive; ora si apprezzano al giusto valore i capi migliori di questo "secondo istoriato", pur sentendo, nella stessa possibilità di abbondante produzione che il genere ci mostra, la decadenza dello spirito che l'aveva promosso, attraverso il manierismo accademico, l'incipiente barocchismo delle forme, la cifra, insomma, di bottega, che comporta e consente, con un segno più trasandato, l'impiego di una tavolozza sempre più priva di emozioni (a differenza del canone faentino, predominio del turchino ed equilibrata consonanza tonale, in questo modo "metaurense" diviene predominante la scala dei gialli). Ne restano, tuttavia, monumenti notevoli per strenue abilità tecniche e per imponenza di lavoro (es., il servizio del duca di Urbino, in parte al Museo nazionale di Firenze, la farmacia ducale nel Museo della S. Casa di Loreto), dove si scorge la mano di esecutori raffinati su disegni anche di pittori di grido.
A tutto questo complesso movimento, che mette in opera tanti artefici, con le attività di ogni genere che vi si connettono, pratiche, artistiche, commerciali, e per il vigore di irradiazione che manifesta, compete il valore di espressione di un momento particolare della cultura italiana; fenomeno meraviglioso, che si sviluppa, fra i suoi estremi più significativi, in non più d'un secolo e in breve territorio quale è quello dell'Italia centrale che ne è la più dotata e tuttavia può stare alla pari di altre grandi espressioni d'arte svoltesi o in lungo ordine d'anni o in vastissime estensioni di territorio ed è tale da evocare, con la semplice enunciazione del suo nome: maiolica italiana, tutto un mondo di fantasie estetiche e di esplicazioni tecniche come sentiamo raffigurarsi sotto le voci, ad es., di pittura vascolare degli antichi o di porcellane dell'Estremo Oriente fenomeni svoltisi in tempi e in luoghi incomparabilmente più vasti. Il che spiega altresì come, dopo la prima esportazione di prodotti e la prima emigrazione di artefici italiani, lo spirito d'emulazione abbia eccitato nella Spagna, in Francia, in Germania, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, poi anche in Boemia, il sorgere di manifatture locali di maioliche, dove l'imitazione, che mai eguaglia il modello, è palese all'evidenza. Fonte dunque anche questa d'insegnamento italiano oltralpe.
Parecchi maestri del "secondo istoriato", operanti in più officine italiane - circa dal 1530 al 1560 - dapprima sulle orme del Pellipario, poi sviluppando a loro guisa (deformando, diremmo noi, per i motivi già indicati) quell'insegnamento, meriterebbero un particolare cenno. Dei più attivi, più prossimo al Pellipario e di certo uno dei più colti maiolicari (scrittore di versi, con i quali decora i rovesci dei suoi pezzi), è Francesco Xanto Avelli di Rovigo, che dipinge in Urbino con una sua intensa tavolozza (v. tavole a colori). A Urbino stessa e altrove lavorano i citati Fontana, contribuendo, insieme con la famiglia pure urbinate dei Patanazzi, a trasformare ancora lo stile da quel genere che dicemmo bello, nell'altro che indichiamo col nome di fiorito. Suo carattere più decisamente distintivo è l'importanza che viene ad assumervi, prima come contorno delle "storie", poi come elemento dominante e spesso anche unico dell'ornato, la raffaellesca, in sostituzione dell'antica "grottesca" alla maniera faentina (v. tavole a colori), leggiadramente, bizzarramente condotto nella più vaga policromia immaginabile; adattamento sulla splendida superficie della maiolica (il cui smalto è perfetto) degli arabeschi delle Logge Vaticane. È questo genere che, trapiantato in Olanda, vi creerà una speciale famiglia detta "dei Patanazzi di Delft".
Del come si lavorasse allora nelle botteghe specialmente dell'Italia centrale ci dà ampia nozione il Piccolpasso (cfr. qui gli schemi grafici degli ornamenti per lavori andanti, da lui delineati). Come si può facilmente comprendere, egli mette in evidenza più specialmente ciò che si faceva nello stato d'Urbino intorno alla metà del Cinquecento, ma non trascura di fornire altri dati, specialmente tecnici; come, ad esempio, il famoso "rosso cinabro" della bottega di Virgiliotto Calamelli di Faenza, il "bianco" di Ferrara, ecc. Accanto a Urbino stanno ora più strettamente Casteldurante, Pesaro e Venezia, passata ormai dall'influenza faentina a quella metaurense. La quale, dopo il 1530, trasse a sé anche i maestri faentini, ad esempio Baldassarre Manara, F. Mezzarisa, Virgiliotto Calamelli suddetto e i loro affini (tav. CLXXI), benché le botteghe di Faenza sappiano ancora insegnare il contemperamento dell'indirizzo pittorico a figura con quello più propriamente decorativo. Ne è esempio, fra altri, un prodotto di Forlì, dove la "storia" all'urbinate viene ancora contornata dalla classica "grottesca" faentina. Certamente è notevole, dal 1520 forse al 1540, l'opera speciale svolta dalla cosiddetta Casa Pirota (il complesso delle officine dei figli di Pirotto Paterni) con prevalenza della tavolozza turchina a imitazione degli smalti (dipinto policromo su fondo azzurro per la parte figurata generalmente centrale, azzurro sopra azzurro o sopra berrettino per le parti ornamentali), il che imparte alla pittura uno squisito senso di decoratività e un che d'irreale e di sogno (C. M. I., I, 200), ma richiede una perizia tecnica superlativa specialmente nell'impiego dei "lumetti" bianchi a corpo. Si ha allora una grande produzione di "crespine" (fruttiere baccellate e a orlo ondulato) decorate "a quartieri" ed ha ampio sviluppo l'ornamento "alla porcellana". L'opera di Casa Pirota merita un posto a sé nella maiolica italiana.
Anche la fabbrica ducale di Ferrara, prima diretta da faentini (il Cellini, 1540, vi ricorda la produzione "di quella terra di Faenza molto delicatamente lavorata") ospita maestri durantini e urbinati.
Deruta, presso Perugia (che lavora certamente dalla fine del sec. XIV, ma con produzione ignota) ha una propria scuola di eccellenti maiolicari di accuratissimo disegno (influenza della scuola umbra) e applica motivi decorativi e figurativi peculiari (C. M. I., I, 132, 154), impiegando altresì un lustro d'oro verdognolo, di grandissima rinomanza. Già del 1501 è un suo lavoro plastico con tocchi di "maiolica d'oro" e "rosso maiolica" (nicchia con San Sebastiano al Victoria and Albert Museum, C. M. I., I, 22). Più tardi il "Frate", pittore della famiglia Mancini (op. 1541-1554 circa), firma le sue "storie" (piatto con Alessandro e Rossana, collezione Dutuit) indicando anche il luogo.
Casteldurante, che aveva congiunto col Pellipario le due scuole di Faenza e d'Urbino e quindi industrializzato come Faenza la sua produzione (si trovano suoi maestri in varî luoghi, a Corfù, in Fiandra, da cui l'arte della maiolica, con elementi ornamentali anche faentini, passa in Inghilterra dopo la metà del secolo) mantenne lungamente l'impiego del "bianco su bianco" e di fondi grigi, a dipingere immagini di "belle donne" (C. M. I., I, 121, 214, 215), "trofei" desunti specialmente dalle incisioni di Enea Vico e "cerquate" a foglie di quercia allusive ai Della Rovere, ripetuti ancora alla fine del secolo e nel successivo, ma alla svelta e senza gusto di colore. I suoi lavori influirono anche sulla tarda produzione siciliana.
A parte notevoli suoi pavimenti (ad es. quello del 1504, successivamente ampliato, all'oratorio di S. Caterina (C. M. I., I, 17), quello del 1509, già al palazzo Petrucci, C. M. I., I, 25, e qui tav. CLXXVI), Siena lavorava già a fini grottesche di particolare carattere, con una sobria linearità nelle figure e con accordi cromatici particolari. Benedetto da Faenza (C. M. I., I, 25, ecc.) vi aveva importato nel primo Cinquecento motivi proprî alle officine faentine (piatto col S. Girolamo al Victoria and Albert Museum di Londra) e chiamato altri maestri da Faenza.
Cafaggiolo, che aveva raggiunto il suo apogeo prima del 1530 con opere di rara bellezza, ispirando le sue maioliche anche alla diretta influenza dell'arte fiorentina (motivi da Donatello, dal Botticelli, ecc.), impiegava un rosso speciale (denso, rugginoso) e larghe pennellate di cobalto nerastro nei fondi: però col 1540 comincia la sua decadenza.
Per Gubbio, che in Giorgio Andreoli ha il massimo esponente della particolare tecnica del lustro metallico, v. giorgio da gubbio (cfr. C. M. I., I, passim); basterà soggiungere che la produzione di maioliche comuni vi proseguì ininterrotta (documenti dal 1588 al 1736; ripresa ottocentesca dei lustri di mastro Giorgio specialmente ad opera di uno Spinaci).
A Pesaro, la cui più antica produzione non ha il soccorso d'alcun pezzo firmato, la pittura figurativa si svolge un po' sommaria sul genere di Xanto Avelli e dei Fontana, col maestro Girolamo e con suo figlio Giacomo Lanfranco (dalle Gabicce), che nel 1567 ottenne da Guidobaldo II di Urbino un privilegio per l'applicazione del riflesso "di oro vero" sulle ceramiche. Maestri pesaresi sono in Liguria (Savona, Albissola) e a Venezia, che a sua volta chiama artefici da ogni parte e crea, accanto a un tipo monocromo d'influsso cinese, a uno ad arabeschi e figure con paesaggi veneziani, a un terzo "a foglie", procedente da Faenza, un genere fastosamente policromo (i "fiori" e i "frutti", adorni altresì di elementi largamente figurati; tav. CLXXI). Esso ebbe influenza anche sulla risorgente produzione siciliana (che recenti studî, specialmente di G. Russo Perez, dimostrano attiva in un particolare genere fino dall'epoca normanna) alla cui completa conoscenza sono ancora necessarie ulteriori ricerche. Altre officine di minor risonanza sono in attività, come Rimini, Padova, Verona, Viterbo, che ci mostrano anche pezzi datati, ma delle quali qui non possiamo dare cenno. Talune, come Forlì, fondono le due maniere, la faentina e l'urbinate, finché, per effetto d'un nuovo gusto (ispirato dall'accresciuta importazione di ceramiche persiane e cinesi nell'ultima metà del secolo), comincia a essere, nella tonalità generale, preferito il predominio dei "bianchi". Anche questo movimento risulta nato a Faenza specialmente con Francesco Mezzarisa, Virgiliotto Calamelli e loro seguaci, e diventa poi una sorta di reazione agli eccessi dell'ultima maniera metaurense troppo pesante di gusto e senza più valori tonali. Assume allora deciso aspetto compendiario, impressionistico (tav. CLXXI), gustoso, delicato, a ornamento filiforme, intensamente decorativo, il quale s'impone e viene imitato altrove (specialmente a Deruta, dove notiamo altresì, quasi per deuteronomia, un adattamento dell'ultimo tipo urbinate). Un suo noto maestro faentino, oltre al ricordato Virgiliotto, è Leonardo Bettisi, detto "Don Pino", nel cui genere si lavora anche a Torino.
Ma siamo ormai in un periodo di decadenza della pittura su maiolica, che continua oltre la metà del Seicento. Molte officine minori si chiudono; Urbino, Venezia, Pesaro, Casteldurante (col 1635 chiamato Urbania) lavorano senza importanza artistica. Col 1620 cessa anche l'officina urbinate dei Patanazzi. Faenza produce servizi bianchi, con stemmi e parche decorazioni turchine e gialle, molto diffusi. Questo genere, portato in Boemia, vi viene detto ceramica habana, perché introdottovi da artefici colà rifugiatisi (anabattisti?) per motivi di credenze religiose. Prende maggiore sviluppo la designazione della maiolica con la parola faïence. Dopo Ludovico Accarisi (1610) e Francesco Vicchi (1630), la ditta Grossi cede l'officina principale ancora superstite alla casa dei Conti Ferniani (1693). Anche a Savona e a Genova trionfa la pittura in turchino a imitazione cinese e olandese per la voga europea assunta da Delft con temi animali di cui i fiamminghi sono debitori all'Italia. Savona lavora in turchino liquido, talora con contorni violetti, grandi piatti concavi con putti, cavalieri, paesi, animali, stemmi, ecc. a disegno non molto curato, ma gustoso e con parti anche in rilievo. Vi si nota l'officina Salomone e poi quella dei Guidobono (1605-1746). Albissola manda pittori a Venezia, a Mantova, a Torino. Come Savona, lavora anche un genere policromo con figure che ricordano le stampe del Callot e la maniera del Magnasco. Ma ecco che, diffondendosi sempre più la porcellana, la maiolica deve restringersi agli usi comuni. La Sicilia (Palermo [tav. CLXXI]; Collesano, Trapani, Sciacca, Caltagirone, ecc.) mostra una grande produzione di vasi da farmacia su tipi faentini, durantini e veneziani a largo fogliame e trofei. Anche Siena nel 1600 produce pavimenti. A Mantova, dove avevano lavorato faentini nel sec. XVI, il duca Ferdinando Gonzaga inizia una nuova fabbrica. A Roma si nota una fabbricazione di stile urbinate, che sembra proseguire nel secolo (tav. CLXXI).
Non si sa se Padova, o Candiana presso Padova, abbiano prodotto nella prima metà del'600, forse per l'esportazione, ceramiche imitanti il tipo anatolico del sec. XVI. Montelupo, attivissima anche prima, lavora ora in un genere popolaresco "a mostacci", caricaturale e di forte effetto (tavola CLXXII). Napoli documenta la propria lavorazione di mattonelle dipinte nel 1685. Un frate servita faentino, verso il 1680, porta a Moustiers in Francia il segreto dello smalto stannifero che tecnicamente rinnova quella produzione.
Ma ecco, con la fine del Seicento e ancor più con gl'inizî del Settecento, in Castelli d'Abruzzo sorge un nuovo tipo, libero di quelle influenze esotiche che operavano ormai su altre officine. L'Abruzzo, già soggetto all'influenza faentina pel tramite della scuola di Lanciano, dipinge ora le sue maioliche con motivi figurati racchiusi da bordi ornamentali, con paesaggi policromi dove è un idealizzato sentimento del vero, a scene di genere e a larghe composizioni religiose e allegoriche, trattate con una caratteristica tavolozza languida (turchino, giallo pallido, poco arancione, giallo ocra, verde chiaro, bruno e violetto, colori che non si fondono nello smalto e di regola non hanno cristallina), il tutto dipinto su grandi e piccoli piatti e su caratteristiche lastre, talora con applicazioni dorate per le quali è conosciuto un Antonio Lolli. È qui quasi un senso di pre-romanticismo. Difficile è la distinzione cronologica: più note sono le famiglie dei maiolicari Gentile e Grue. L'influenza delle incisioni, specialmente dei Carracci e della loro scuola e dei pittori napoletani, è palese sulle officine di Castelli e su quelle che (come Urbino, Bassano, Savona, San Quirico d'Orcia fondata dai principi Chigi nel 1714, Casteldurante, Faenza stessa) seguono la nuova tendenza. Siena torna in prima linea non solo imitando Castelli, ma utilizzando modelli raffaelleschi, con cui si distinguono i fratelli Terchi da Roma, Bartolomeo e Antonio, i quali lavorano anche a Bassano (pezzi datati 1727 e 1744), nonché F. M. Campani senese, la cui ultima maiolica è forse del 1747. Per quanto lodevoli, questi tentativi di produrre all'italiana non possono resistere alla moda travolgente che trasforma il gusto e impone un nuovo materiale di lavoro.
Già nella Francia degli ultimissimi anni del Seicento era sorta la mania delle chinoiseries, dei prodotti dell'Estremo Oriente venduti a peso d'oro, teste Lorenzo Magalotti, alle dame e agli amatori parigini per essere ammirati nei "gabinetti" di tutta Europa. L'Olanda aveva ben presto contraffatto le porcellane cinesi divulgandole ancor più con le sue maioliche, alla loro volta imitate dai produttori italiani. Anche gli stili francesi dei tre Luigi, a cominciare da quello "alla Bérain" derivato dalle nostre belle raffaellesche, servirono da modello. Ne è esempio l'eclettica produzione della fabbrica dei conti Ferniani di Faenza (1693-1890), la quale lavorò anche nell'ornato del "mazzetto", del "castelletto"; del "garofano", ecc., a imitazione delle porcellane, specialmente attraverso i tipi di maiolica francese (esempio, Marsiglia e Strasburgo) anche con impiego di colori a piccolo fuoco trovati a Delft sulla fine del '600 e divulgati dall'alsaziano Hannong di Strasburgo. È di grande finezza il motivo "alla rosa", con ornati anche d'oro. Nel 1775 circa, Filippo Comerio da Milano vi svolge gustose decorazioni a verde e nero a "terzo fuoco".
Si hanno pezzi di maiolica di Napoli datati dal 1654 al 1684, di Torino ("Fabbrica reale") del primo '700, specie a opera dei lodigiani Rossetti sullo stile di Moustiers. Antonio Casali, Filippo Antonio Callegari, ambedue di Lodi, col pittore Pietro Lei di Sassuolo, fondano una fabbrica a Pesaro (1763), cui si deve la produzione di certi larghi boccaletti con l'aquila bicipite per l'esportazione e di piccole coppe per i pellegrini di Loreto ("con polvere della Santa Casa"), nonché i rinomati servizî "alla rosa" a piccolo fuoco simili ai faentini, ispirati al tipo di Strasburgo. Il torinese Roletti, che si firma alla francese "Monsieur Rolet", lavora nel 1771 a Urbino (dove risiede da tempo) e a Borgo San Sepolcro. Deruta data ancora certi suoi pezzi nel 1771; a Napoli nel 1760 è la fabbrica Giustiniani; sul finire del secolo altra ne sorge ad Ascoli, ecc.
Savona continua la sua produzione di gusto barocco, meno influenzata dalla moda estera (se ne conosce un pezzo nel genere di Castelli firmato e datato 1720 al Kunstgew. Mus. di Berlino); un valente maestro è Bartolomeo Botero; altri ancora i citati Guidobono, i Tortecoli, il Borelli (circa 1779), prima occupato a Marsiglia. Genova è affine e lavora con un turchino forte e con disegno forse più accurato; ha per marca il "faro".
A Milano Felice Clerici fonda una fabbrica (1748-1772) che segue l'ornato delle porcellane cinesi e giapponesi e delle loro imitazioni europee con dorature e colorazioni anche in rosso; Pasquale Rubati (già col Clerici) lavora del suo dal 1756 nel genere stesso, introducendo un tipo di decorazione floreale a rilievo; del 1776 è la fabbrica di S. Cristina dei Confalonieri, la cui produzione è pochissimo nota. A Parma sorge la Real Fabbrica di maioliche e porcellane di cui si conservano pezzi datati (ad es., 1783).
A Treviso si fanno maioliche in rococò con fiori e frutti, ma forse la marca che vi si assegna è di Nove (presso Bassano), fabbrica fondata circa il 1680 da Pasquale Antonibon; Gio. B. Antonibon vi ha 150 operai nel 1760 circa e vi lavora in ogni genere, largamente esportando. Lodi dà simili lavori nel 1764. A Sassuolo presso Modena, nel 1741, opera G. Andrea Ferrari, cui seguono il Dallari, il Cavazzutti, il Lei. Anche Imola produce attivamente, sempre ispirandosi a modelli esotici.
Il sec. XVIII vanta la produzione italiana della porcellana caolinica, dopo i tentativi dei secoli XV, XVI e XVII. Ma verso il 1786 si inizia a Nove anche la lavorazione della terraglia a uso inglese, che già si era impiantata a Trieste, proseguita poi a Este, a Faenza, a Bologna, a Pesaro, a Treviso, a Pavia, a Vicenza, a Sassuolo, a Torino, a Milano (Richard, 1842), ecc. Nel 1785 Giov. Trevisan, detto Volpato, ne impianta la lavorazione a Civita Castellana (Roma).
Durante l'impero, la decorazione segue il gusto del momento; decade con la restaurazione. Alcuni aspetti della produzione della seconda metà del secolo XIX si vedono ininterrotti nella citata fabbrica Ferniani di Faenza; a Pesaro continuano i successori di Casali e Callegari (Benucci e Latti) con Pietro Gai, che nel 1862 vende alla fabbrica di Wedgwood il segreto dei risorti lustri e riflessi metallici (dal 1830 s'iniziano le sue ricerche, proseguite da altri; Papi a Siena 1846, Giusto Giusti a Doccia, 1855; Carocci e Fabbri a Gubbio, 1857; Spinaci di Jesi, il più abile, a Gubbio, 1858).
Nella seconda metà del sec. XIX alcune officine (ad es., Angelo Marabini e Achille Farina a Faenza, Vincenzo Molaroni a Pesaro, Angelo Minghetti a Bologna, i Rubbiani a Sassuolo, i Ginori a Doccia, Ulisse Cantagalli a Firenze, il Castellani e il Fabri a Roma, il De Simone, i Giustiniani e Achille Mollica a Napoli, gli Antonibon a Nove, il Devers a Torino ed altri) riprendono, nella maiolica d'arte, i modelli del Rinascimento e del secolo d'oro.
La nuova generazione continua il movimento; poi si mette alla ricerca di più semplici ma più sincere manifestazioni, dando valore soprattutto alla forma e al colore, cioè agli eterni elementi della decoratività, che è la base e la giustificazione dell'ornato sulla ceramica.
Negli altri paesi europei. - Benché gli studî in materia non siano ancora definitivi, sembra non potersi negare in altri paesi europei l'esistenza, nel secolo XIV, di una propria industria artistica della maiolica, a giudicare dai trovamenti fatti qua e là, in Francia e nei Paesi Bassi, di mattonelle smaltate, decorate più o meno sommariamente in nero-violaceo, in verde e anche in giallo, il cui tipo si trasformerà poi sotto gl'influssi della maiolica italiana del Rinascimento.
Già nel sec. XIII si era manifestata nel levante spagnolo e specialmente a Paterna (v. sopra) una produzione di maiolica, decorata essa pure in verde di rame e violaceo-bruno di manganese, a motivi stilizzati e a figura umana, dove è innegabile il canone bizantino (richiamato già dalla nota di colore), con influssi musulmani, romanici e gotici insieme operanti. Valencia, in particolar modo per opera delle fornaci della vicina Manises, diventa poi il centro di una vastissima produzione a lustro metallico (cosiddetta ispano-moresca; tavola CLXXXIII), che pur si lavorava, ma con effetti alquanto diversi, a Malaga e a Granata (v. sotto: Maiolica nell'arte islamica). Accanto alle stoviglie hanno larga esportazione le mattonelle, anche decorate in azzurro a motivi araldici (se ne trovano in più luoghi nel Portogallo, in Francia, in Inghilterra, in Italia) prodotte in Andalusia (Siviglia), in Castiglia (Talavera e Toledo), a Valencia e in Catalogna (Barcellona). Quelle d'origine andalusa sono anche decorate a "cuerda seca" (vedi azulejo), sinché l'influsso italiano, portato a Siviglia da un Francisco Niculoso che si firma anche "pisano", nei primi anni del sec. XVI, trasformando spirito e tecniche, crea un nuovo genere (chiamato "pisa") specialmente a Talavera, di palese influsso faentino e poi urbinate. Col sec. XVIII la Spagna subisce l'influenza dell'arte ceramica francese, producendo in Alcora una maiolica di gusto barocco, influenzata da Rouen, Moustiers e Marsiglia, specialmente in medaglioni ovali policromi.
In Francia (la cui prima maiolica locale datata è del 1542 e di Rouen: un pavimento all'italiana eseguito da Masseot Abaquesne per il Castello di Écouen del contestabile di Montmorency) già dal sec. XV, e più ancora nel primo Cinquecento, lavoravano maestri toscani, romagnoli, marchigiani, liguri e veneziani. È noto il pavimento restaurato della chiesa di Brou (Bourg), dipinto intorno al 1530 da un maiolicaro faentino; a Parigi stessa (Bois de Boulogne) il ramo dei Della Robbia che si era portato oltralpe (e vi fece fortuna) eseguì per Francesco I il celebre Château de Madrid, detto ironicamente Château de Faïence, perché tutto fatto di terrecotte e di maioliche (venne distrutto nel 1792).
A parte le due produzioni propriamente francesi che non si possono classificare come maioliche (cioè il gruppo di Saint-Porchaire e le "figuline rustiche" in rilievo di Bernardo Palissy; tav. CLXXXI), alcuni centri in Francia emergono dapprima per opera di maestri italiani e dei loro seguaci (Lione, Nîmes, Nantes, Le Croisic, ecc.) finché prendono largo sviluppo i centri maggiori di Nevers (anch'esso creato con l'intervento di un faentino e poi largamente sviluppato da una dinastia di maiolicari di Albissola), di Rouen, di Moustiers, di Strasburgo e di Marsiglia. Nevers, il cui smalto è perlaceo, è più eclettico perché passa agevolmente dal gusto italiano a quello olandese, poi segue l'indirizzo di Rouen e di Moustiers, produce infine le cosiddette "faïences patriotiques" ispirate dagli eventi della Rivoluzione. A Rouen (il cui smalto tende al grigio) lo sviluppo autonomo è più vasto: lo stile a "lambrequin", lo stile "rayonnant", l'ornato a "ferronnerie" si fondono poi nel secolo XVIII con le "chinoiseries" che la moda aveva cominciato a imporre già col finire del Seicento; esecuzione perfetta, produzione vasta e varia, essa viene largamente imitata non solo in Francia ma anche in Italia. Moustiers, dove un padre servita faentino sembra abbia portato il segreto dello smalto stannifero, dipinge specialmente sopra uno smalto avorio nello stile del Bérain (deformazione della "raffaellesca" italiana) a ghirlande, a "fior di patata" e a figurine ispirate dalle stampe del Callot. Da Strasburgo sulla metà del Settecento per opera degli Hannong si diffonde il metodo di pittura "a piccolo fuoco" sulla maiolica, che ebbe un'enorme ripercussione in tutta Europa. Marsiglia, che in origine lavorò sotto la direzione di maiolicari italiani, rapidamente allargò la sua produzione, che ebbe un'esportazione vastissima, a "grande" e a "piccolo fuoco", a "paesaggi", a scene campestri, a fiori.
Anche in Germania si hanno due generi paralleli: il primo dipende dall'influenza italiana, il secondo è relativamente autonomo. Norimberga ci mostra la data più antica (1526) di maiolica sopra un piatto a ornato italiano ma con figure di disegno tedesco (tav. CLXXX). Questo genere di lavoro, che si attribuisce alla Germania meridionale, è abbastanza ricco e si estende anche al sec. XVII. Anche di Norimberga è Agostino Hirschvogel, artefice eclettico, che a Venezia apprese le arti della maiolica e del vetro. Ma la caratteristica maggiore è data dalla produzione di mattonelle da stufa, che raggiunge una grande imponenza per quantità e per vaghezza di pitture (belli gli esemplari al Castello di Trento, anche con chiara influenza italiana).
Un genere particolare è costituito dalle ceramiche "habane" della fine del XVI e dei due secoli seguenti, diffuse in Moravia, Boemia, Ungheria, da iniziali insegnamenti d'Italiani.
Assai maggiore sviluppo la maiolica ha avuto nei Paesi Bassi (tavole CLXXX, CLXXXI). Anche qui il gusto del Rinascimento è portato da maestri italiani. Pavimenti, pannelli, stoviglie di stile italiano (faentino, durantino, urbinate), ma presto con elementi accessorî fiamminghi, palesano una lavorazione in luogo già attiva prima della metà del Cinquecento. Verso la fine del secolo la fabbricazione delle piastrelle segue anche i moilelli spagnoli, finché, verso la metà del successivo, lo sviluppo della produzione di Delft, che diviene uno dei centri europei più famosi, sopprime ogni altro genere. Delft mostra due tendenze decorative, una indigena, che in certi aspetti palesa un tardo influsso di Urbino, l'altra ispirata dall'Estremo Oriente, la cui porcellana tende a imitare anche nelle forme dei vasi (e la maiolica olandese si disse perciò Delfsche porsleyn). Benché non siano rare le maioliche in policromia, la pittura su fondo nero e i "bianco su bianco", il tipo più comune dell'ornamento è in turchino su fondo bianco. Anche le forme e i soggetti furono infiniti (stoviglie d'ogni genere e dimensioni, statuette, pannelli, piastrelle di divestimento, pezzi di forma anche di dimensioni colossali, scarpette decorative, animali, violini) con le più ricche varietà d'ornamento, dal tema pastorale al marino, dal floreale al cinesizzante, dalle scene di guerra al ritratto. La larga industrializzazione inondò tutti i paesi d'Europa, tanto piò che, accanto a Delft, ebbero fabbriche altri centri olandesi (Rotterdam, Utrecht, Arnhem. ecc.), e il nome delf divenne un vocabolo di uso inglese a designare una varietà ceramica. Negli altri paesi europei la maiolica ebbe sviluppo più tardo e meno importante.
Maiolica nell'arte islamica. - Il numero delle maioliche conservatesi supera di gran lunga tutti gli altri prodotti d'arte islamica, e i ritrovamenti di scavo vanno sempre più arricchendo il materiale di studio. L'uso delle ceramiche di lusso era così grande nel mondo islamico da rendere necessaria anche l'importazione dei prodotti stranieri. A questo riguardo sono particolarmente interessanti i ritrovamenti di cocci accumulatisi a migliaia nei cumuli di rottami del vecchio Cairo: oltre a esemplari della produzione di quasi tutte le regioni islamiche dal secolo IX al XV essi contengono frammenti di porcellane cinesi e di prodotti europei. Le conquiste tecniche nell'industria della maiolica venivano subito e ovunque diffuse; ma in genere sembra che nel periodo più antico la corrente d'influenza movesse dall'Oriente e che la Persia vi abbia avuto parte essenziale. Si deve distinguere il vasellame dalla ceramica a scopi architettonici. Questa sviluppò soltanto alcune tecniche, e particolarmente quella delle piastrelle per rivestimenti parietali, generalmente in maiolica. Il vasellame, non presenta molte particolarità di forma; in Persia la modellazione plastica fu più sviluppata che nelle altre regioni islamiche, e sovente diede ai vasi la forma di corpi animali e di figure umane; dalla Siria si diffuse il vaso cilindrico da farmacia noto come albarello (v.), la Spagna ha prodotto, particolarmente imponenti, anfore ad anse, e anche la maiolica turca ha trovato qualche forma caratteristica. Ma l'arte dei vasai islamici si manifesta soprattutto nella perfezione tecnica dell'invetriatura e nella magistrale esecuzione della decorazione: toni fondamentali il bianco latteo, l'azzurro cobalto, il verde turchese e il violetto di manganese, usati quasi in tutte le regioni ed epoche. Quasi tutti i paesi hanno applicato più o meno lungamente la tecnica a riflessi metallici, che è da considerarsi una scoperta islamica, probabilmente diffusasi da Baghdād circa l'800. Verso il 1000 il Cairo divenne il centro di produzione della maiolica a riflessi metallici; succedettero nel sec. XII ar-Rayy in Persia, nel XIV Malaga, nel XV Valencia da cui il procedimento si diffuse in Italia (Deruta e Gubbio), e finalmente nel XVIII ṣfahān ne vide sotto lo scià ‛Abbās l'ultima fioritura. Temporaneamente si affermarono in questo campo anche ar-Raqqah sull'Eufrate, Damasco e altri luoghi.
Kāshān produsse nei secoli XIII e XIV specialmente piastrelle a riflessi metallici che dalla loro origine presero il nome persiano di kāsci, kāsciani e che, decorati di fregi calligrafici rilevati dal tondo, servirono anche alla decorazione delle pareti di miḥrāb nelle moschee. Il lustro metallico veniva applicato su una invetriatura non trasparente a stagno, generalmente bianca, raramente, specie in Persia, turchina, e tuttavia la colorazione poteva riuscire molto varia (dorata, bronzea, verdastra, brunastra o giallastra). Spesso nei pezzi rimastici la colorazione è molto sbiadita, in altri conserva tutto lo splendore metallico. Nei varî periodi ebbe grande importanza tra la maiolica di lusso quella a graffiti, animata da una decorazione in leggero rilievo. Essa predomina già nella ceramica persiana dei secoli VIII-XI e agl'inizî è decorata con motivi derivati dalla tradizione sassanide (perciò in Persia era detta "ghebri", cioè zoroastrica), poi riccamente sviluppata, con disegni a grandi linee e colori brillanti (cosiddetto gruppo lagabi); nei secoli XIII e XIV venne semplicemente invetriata e decorata da forti rilievi (cosiddetta maiolica Sulṭānābād). Un tipo di maiolica prodotta solo per breve tempo (fine sec. XII-metà XIII) a Rayy in Persia è caratterizzata da uno stile pittorico policromo affine alla miniatura contemporanea (da cui la designazione persiana di mīnāy). Prima in ar-Raqqah sull'Eufrate, poi nel sec. XIV anche in Damasco e in Persia (probabilmente a Kāshān) fu eseguita una maiolica a decorazione turchina e nera su fondo bianco sotto invetriatura trasparente di piombo; e proviene dallo stesso centro la ceramica a decorazioni nere affioranti sotto l'invetriatura turchese. Nel periodo mamelucco fu molto ricercata al Cairo una ceramica a invetriatura smaltata a motivi graffiti affine alla contemporanea produzione del genere bizantino e dell'Italia settentrionale. In Spagna s'affermarono nel sec. XIV accanto alla maiolica a riflessi metallici i prodotti verdi e bruno manganese di Paterna (presso Valencia) che sembra influisse a sua volta sulla produzione d' Orvieto.
Alla formazione di uno stile islamico nella ceramica contribuirono indubbiamente le grandi tradizioni dell'Asia anteriore, che si affermarono particolarmente nell'epoca dei Parti; ma decisivi furono, per la maggior parte delle innovazioni tecniche, i rapporti avuti dal sec. IX in poi con la Cina, divenuti talvolta assai stretti. Gli scavi di Samarra hanno mostrato che nel sec. IX venivano importati nella Mesopotamia gres cinesi con vernici traboccanti, poi imitati dai vasai locali, ed è pure dimostrato che giungevano allora sul mercato di Baghdād porcellane cinesi bianche e grigie (Seladon") che provocarono la produzione di surrogati islamici. La continua importazione di porcellana determinò, specie in Persia, continui e talvolta geniali tentativi di sostituire la produzione straniera con fabbricazione indigena di pari valore: e per mezzo di procedimenti raffinati riuscì più volte ai vasai persiani, che ignoravano il segreto del caolino, di produrre vasellame di pasta bianca, realmente difficile da scalfire. Dopo l'invasione mongolica (circa la metà del sec. XIII) furono accettati in un primo tempo i motivi dell'Estremo Oriente rielaborati secondo lo spirito islamico. Nel secolo XV furono ripresi i tentativi di produrre porcellana e presto si poterono eseguire mezzemaioliche talmente simili per forma, invetriatura e disegno alle porcellane cinesi turchine, che furono lungamente ritenute per tali sui mercati europei. Allora s'iniziò anche in Turchia un'attiva produzione ceramica, che cercò anche essa di avvicinarsi tecnicamente al procedimento proprio alla porcellana, ma che ebbe una decorazione originale, di mirabile ricchezza di forme specialmente d'ispirazione vegetale. Izniq (Nicea) e Kūtāhiya in Anatolia ne furono i principali centri di produzione: specialmente le moschee e i palazzi di Costantinopoli ne trassero il loro ricco corredo di piastrelle di rivestimento alle pareti, ma ne provennero pure graziosi oggetti di vasellame. I prodotti di Nicea erano caratterizzati da un rosso altrove sconosciuto alla ceramica e applicato plasticamente: essi sono stati detti lungamente e a torto "maiolica di Rodi", perché trovati in gran quantità nell'isola.
Le formelle spagnole in ceramica (azulejos) non si possono considerare un puro prodotto islamico, dacché la produzione più intensa si ebbe in Siviglia e Valencia sotto il dominio cristiano, anche se agl'inizî fu dovuta all'attività di vasai moreschi. In Persia Iṣfahān produsse nel sec. XVI formelle in ceramica di una mirabile ricchezza coloristica, che costituivano vere e proprie pitture parietali, strettamente dipendenti per disegno e composizioni dalla scuola pittorica di Riẓā ‛Abbāsī.
Maiolica in Estremo Oriente. - L'uso di adoperare, per i cocci di materia molto assorbente, lo smalto metallico come fondo destinato ad accogliere la decorazione pittorica non è probabilmente d'origine cinese, ma fu introdotto in Oriente dalla Persia nei secoli X-XII. Tra le ceramiche cinesi vanno annoverate come maioliche i prodotti di Tz'u chou (provincia di Chih-li) che per la decorazione a larghe, ma rade pennellate possono considerarsi come una prima fase della posteriore pittura a smalto. Questo tipo di vasellame continua sino in età recente, accompagnando in qualità di produzione rustica la grandiosa evoluzione della porcellana cinese. Solo in uno speciale caso, in cui anche l'Occidente predilesse l'uso della maiolica, cioè nell'applicazione all'architettura, questa tecnica ebbe un considerevole sviluppo; gli esemplari tuttora esistenti non vanno però oltre l'età Ming. L'uso della maiolica, essendo limitato a lavori di grande mole e di carattere più o meno grossolano, non ebbe fortuna in Giappone. La pittura su fondo a smalto metallico vi fu usata solo in alcune ceramiche decorative della scuola di Kenzan-Korin.
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