MALATESTA (de Malatestis), Malatesta detto Malatesta dei Sonetti o Senatore
Figlio di Pandolfo (II), signore di Pesaro, e di Paola di Bertoldo Orsini, il M., distinguibile dalla schiera di familiari omonimi per il gentile appellativo assegnatogli dalla tradizione storiografica, nacque a Pesaro verosimilmente intorno al 1366.
Manifestata precocemente un'innata inclinazione per le lettere, la poesia e le arti, coltivò in prima persona la forma metrica che gli valse l'epiteto "dei Sonetti", in perfetta continuità con lo stimolante ambiente culturale sorto alla corte pesarese del padre, omaggiata dalla frequentazione di Francesco Petrarca. Il M., pertanto, disponeva non solo dei titoli qualificanti - era l'unico figlio maschio legittimo - ma anche della naturale propensione per incarnare il degno successore del padre. Alla morte di Pandolfo (II), avvenuta a gennaio 1373, tuttavia, il M. era, con certezza, ancora minorenne: condizione che, in sede di testamento, aveva già indotto il signore di Pesaro a individuare nei nobiluomini Guido del fu Neri "de Saglano", Francesco Perleoni e Nicola di Lippo Mengardoni i tutori del figlio. La delicata circostanza persuase lo zio Galeotto Malatesta, al vertice del governo riminese, ad assumere pro tempore il vicariato anche su Pesaro, giungendo persino a intentare una causa, in merito a controverse modalità di riscossione fiscale nel Pesarese, contro i tutori del nipote. L'effettiva presa di potere da parte del M. fu, quindi, differita sino alla morte di Galeotto (gennaio 1385) e, infine, ufficialmente riconosciuta da papa Bonifacio IX, il 2 genn. 1391, con il conferimento del vicariato apostolico al M. e ai suoi discendenti, dietro corresponsione di un censo annuo di 1800 fiorini.
Ancora giovanissimo, il M. fu deputato a raccogliere, da un lato, l'antica eredità di famiglia in ambito pesarese, la cui dipendenza dal casato romagnolo risaliva ai tempi di Giovanni (Gianciotto), e, dall'altro, gli incombenti oneri imposti dal sodalizio con la S. Sede. Forse proprio il cumulo di responsabilità pratiche a carico di un signore impegnato anche in velleità letterarie impedì al M. di soddisfare appieno le promettenti aspettative. Modesto condottiero e politico privo di successo, il M. fu soprattutto un uomo di cultura che preannunciò la figura propriamente quattrocentesca del "principe umanista".
È pur vero che il dominio del M. su Pesaro si rivelò solido e duraturo, non esente da slanci espansionistici nei territori limitrofi, ma non riuscì mai a raggiungere fasi di autentico splendore. Ricevuta in pegno da Urbano VI la città di Orte (4 nov. 1387), a seguito di un prestito cospicuo, il M. iniziò ad alimentare l'ambizioso progetto di estendere il proprio raggio d'azione in Umbria, facendosi promotore di un'intensa attività militare ai danni di Todi. L'iniziativa, però, fu presto invalidata dall'opposizione della S. Sede che, nell'agosto 1392, rivendicò l'assoluta supremazia sulla città, assegnando al M. la titolarità di un semplice affitto di 3000 fiorini annui. D'altra parte, la strategica influenza esercitata su Todi consentì al M. di conquistare altre importanti postazioni come Terni e Narni, con il sostegno del ramo riminese del casato. Nell'agosto 1394 il M. si fregiò persino di un ragguardevole trionfo militare riuscendo prima a catturare e, poi, ad assoldare un'intera compagnia di ventura al servizio di Gian Galeazzo Visconti, conte di Virtù.
Le incombenti spese imposte dalle operazioni belliche e il crescente dissenso della Chiesa impartirono alla politica malatestiana una drastica inversione di rotta che, nel 1395, determinò l'esaurimento dell'espansionismo promosso dal M. in direzione umbra. La difficile decisione fu, senza dubbio, maturata in seno alla corte riminese e, dunque, imposta al M., privo del carisma e dei mezzi necessari per opporre resistenza.
Distrutte in un rogo simbolico, appiccato da due messi pontifici, tutte le carte attestanti titoli e immunità, il M., timoroso di perdere persino il controllo sul Pesarese, accettò il compromesso patrocinato da Carlo Malatesta, signore di Rimini, rimettendo alla S. Sede il possesso di Todi, Terni, Narni e Orte. In perfetto bilanciamento, quasi contemporaneamente, il M. fu insignito dell'illustre carica di senatore di Roma per il secondo semestre del 1398.
A dispetto del fallimento dell'impresa umbra, il M. non abbandonò il mestiere delle armi, che esercitò con una certa continuità in Lombardia, Veneto e Marche sino alla morte. Particolarmente intensa e impegnativa si annunciò la campagna al soldo della Repubblica di Venezia in guerra con Francesco il Novello da Carrara per il possesso di Padova. Capitano generale delle milizie, il M., ferito in uno scontro del 20 ag. 1404, riuscì nel settembre successivo a mettere in scacco le truppe padovane tradite da uno di loro. Quando la vittoria pareva arridere al M., le forze veneziane, al comando di Paolo Savelli, furono sconfitte il 25 sett. 1404 a Limena dai Carraresi e alleati senza che il M. tentasse di intervenire. Difficile attribuire all'onta della sconfitta o, piuttosto, alle incomprensioni con il collega Paolo Savelli l'anticipato abbandono della condotta da parte del M.; sta di fatto che egli, congedatosi spontaneamente dall'incarico o, forse, licenziato dalla stessa Serenissima, tornò a Pesaro sul finire del 1404 per ripartire, poco dopo, alla volta di San Giacomo di Compostella. Al ritorno dal pellegrinaggio non tardò a impugnare nuovamente le armi ponendosi al servizio di Firenze, risoluta a contrastare l'avanzata verso la Toscana di Ladislao d'Angiò Durazzo, re di Sicilia.
Nel primo decennio del Quattrocento le scelte politiche di casa Malatesta furono profondamente influenzate dalle vicende del Grande Scisma che impose ai vicari pontifici l'obbligo di fornire costante sostegno alla Chiesa romana. La linea di incondizionata obbedienza alla S. Sede tracciata dal casato romagnolo fu in qualche occasione elusa dal M. che, manifestando una spiccata autonomia decisionale, non disdegnò di avvicinarsi alla controparte.
Spalleggiata, da principio, l'azione di Gregorio XII, papa di obbedienza romana, nel febbraio 1407 il M. conseguì, in cambio di supporto logistico e militare, un esteso salvacondotto valido su tutte le terre della Chiesa e, nel maggio seguente, la sensibile riduzione del censo stabilito per il rinnovo del vicariato su Pesaro. Più allettanti dovettero dimostrarsi, in seguito, le offerte avanzate da Baldassarre Cossa, legato di Alessandro V, papa oppositore, se il M., mutato il favore, deliberò di recarsi a Bologna e quindi di assumere il comando delle milizie fiorentine in marcia contro Roma. Lo stesso Cossa, invero, appena assurto al soglio pontificio con il nome di Giovanni XXIII, nel giugno 1410 accordò al M. una provvigione mensile di 500 fiorini, dispensando ricchi donativi anche negli anni successivi: dal conferimento del vicariato su Iesi, alla potestà per il M. di secolarizzare tutte le enfiteusi ecclesiastiche dislocate nel proprio asse patrimoniale.
Il ponderato cambio di bandiera, pertanto, consentì al M. di perseguire una nuova politica espansionistica nella Marca incontrando la fiera opposizione di Ancona, assalita dalle truppe malatestiane nell'ottobre 1414. Penetrati in città, i soldati al seguito di Galeazzo, figlio del M., furono sopraffatti dagli Anconetani che inflissero all'esercito malatestiano danni ingenti ed evidenziarono la pessima direzione delle operazioni militari. Mentre sul fronte anconetano si pattuiva un'effimera tregua, patrocinata nel dicembre 1414 da Giovanni Carsino, legato del doge veneziano Tommaso Mocenigo, nuovi disordini attirarono l'attenzione del M., schieratosi nuovamente al fianco del Papato romano. Fu, in particolare, l'operato di Braccio da Montone (Andrea Fortebracci), volto a realizzare una signoria su Perugia, a destare le maggiori preoccupazioni dei Malatesta e della Chiesa. Timori che si rivelarono fondati quando, nel luglio 1416, Galeazzo e Carlo Malatesta furono sconfitti e catturati da Braccio che, forte dell'appoggio degli Anconetani e dei signori di Fermo e Camerino, compatti nella volontà di contrastare l'avanzata malatestiana, riuscì a penetrare con facilità a Iesi, stanziandosi nel dicembre dello stesso anno ad Arcevia.
Significativo, ma non certo inconsueto, rilevare i legami parentali che univano il M. ai propri diretti oppositori: Rodolfo da Varano, signore di Camerino e padre di Elisabetta, defunta moglie del M., e Lodovico Migliorati di Fermo, genero del M. in quanto marito della figlia Taddea. Il matrimonio con Elisabetta da Varano, conclusosi intorno al 1383, aveva assicurato al M. una prolifica discendenza alla quale, come tradizione di famiglia, fu garantita una posizione di rilievo nello scacchiere italiano ed estero tramite eccellenti unioni coniugali. Paola e Cleofe andarono rispettivamente spose a Gianfrancesco Gonzaga di Mantova e a Teodoro Paleologo, despota di Morea e figlio dell'imperatore di Bisanzio, mentre, tra i figli maschi, Galeazzo ebbe in moglie Battista da Montefeltro e Carlo Vittoria Colonna, nipote di papa Martino V. Esclusi dall'oculata politica matrimoniale di casa Malatesta, Galeotto, detto l'Inetto, morto in giovane età e Pandolfo, destinato dal padre alla carriera ecclesiastica.
Il conflitto marchigiano, meglio noto come guerra di Iesi, si protrasse per tutto il biennio 1416-17 assestando un duro colpo alle finanze malatestiane, già provate dagli incessanti combattimenti e dall'oneroso riscatto versato per la liberazione di Carlo e Galeazzo. In un contesto politico ormai compromesso, il ruolo del M. fu, senza dubbio, determinante nella conduzione delle complesse trattative per ristabilire l'ordine ed evidentemente contrassegnate dall'andamento negativo delle fortune dinastiche. Particolare indulgenza, rivelatrice del profondo stato di crisi, si riscontra nella difficile mediazione con la città di Osimo, anch'essa ribellatasi al dominio malatestiano nel novembre 1416. Il M., deputato dai familiari a concludere l'accordo, sottoscrisse a Offagna (3 nov. 1416) condizioni assai svantaggiose per il casato, concedendo amplissimi privilegi fiscali e politici pur di mantenere il controllo sulla città.
La salita al soglio pontificio di papa Martino V tamponò l'emergenza e risollevò le sorti dello stesso M. che, confermato nei propri titoli, registrò persino un netto successo diplomatico ottenendo per il figlio cadetto Pandolfo l'assegnazione della cattedra vescovile di Coutances in Normandia. La piaga finanziaria, tuttavia, non fu sanata appieno e negli ultimi anni di vita il M. si impegnò in un'incessante attività di ricerca di fondi che, fungendo da supporto e collante, avrebbero facilitato la soluzione dei gravi problemi economici e dinastici da cui era afflitto il casato. L'avanzata dei Visconti, comunque, invalidò ogni progetto di rafforzamento pianificato dal M. che, con stanca rassegnazione, si ritirò nei possedimenti pesaresi, incapace di opporre resistenza alle velleità espansionistiche del duca di Milano Filippo Maria.
Nel novembre 1424 il castello di Gradara, abituale dimora del M., fu assalito dalle milizie lombarde al seguito di Angelo Della Pergola, e Galeazzo, figlio del M., conobbe un nuovo periodo di prigionia insieme con la moglie Battista da Montefeltro. L'episodio non ebbe gravi conseguenze per i personaggi coinvolti, poco dopo rilasciati, ma determinò, di fatto, l'entrata dei Malatesta nell'orbita di influenza viscontea. Ancora una volta spettò al M. porre fine alla lunga parabola discendente sottoscrivendo accordi di pace, i contenuti dei quali non differivano in sostanza da una resa incondizionata. Il M. in persona, preceduto dal figlio Carlo, si recò a Milano e, nel novembre 1424, ratificò la capitolazione malatestiana davanti ai procuratori viscontei.
Negli ultimi anni di vita, il M. si trovò a essere a capo di uno Stato, posto sotto la persistente egida milanese e alla continua ricerca, insieme con i figli, di denaro e di possibili vie diplomatiche per una risoluzione della crisi. Ma non ne poté vedere alcun possibile sviluppo: già afflitto da problemi di podagra che, sin da giovane, lo avevano costretto a lunghi periodi di riposo presso stazioni termali, il M. morì improvvisamente a Gradara il 19 dic. 1429.
La predilezione per la cultura, già manifestata dal padre Pandolfo (II), continuò con il M., che fu ammirato mecenate e poeta: la corte di Pesaro visse, dunque, una stagione artistica e letteraria di inconsueta intensità, che conferì alla città l'onore di ospitare uno dei più pregevoli circoli culturali del panorama italiano. Arte e letteratura, infatti, pare esercitassero sul M. un fascino incondizionato che, senza dubbio, sottrasse tempo ed energie alla pratica di governo, benché la scarsità di notizie non consenta di penetrare compiutamente la complessa macchina burocratica signorile. A tutt'oggi le maggiori informazioni in proposito sono racchiuse nella rinnovata redazione statutaria cittadina, compilata nel biennio 1411-12 su decisione del M. e del Consiglio generale pesarese, che, pur nella formale salvaguardia delle istituzioni comunali, riconosceva al signore un dominio de facto, comprensivo dei privilegi e delle autonomie legittimamente esercitate in virtù del vicariato apostolico.
È indiscusso, d'altra parte, che il M. raggiunse i migliori risultati sul versante culturale ritagliandosi una posizione di rilievo come promotore e cultore delle arti. A cavallo fra Trecento e Quattrocento si alternarono alla corte di Pesaro personaggi di spicco come Francesco Casini, medico e docente universitario nonché intimo della cerchia petrarchesca, Mariotto di Nardo, il pittore fiorentino che, insieme con il giovane allievo Lorenzo Ghiberti realizzò un trittico raffigurante la Madonna col Bambino tra angeli e santi (già nella chiesa di S. Giovanni e ora conservato nel Museo civico di Pesaro). In ossequio a un gusto coevo, il M. commissionò, poi, nel castello di Gradara, un ciclo di affreschi con eroi della guerra troiana e romana, andato perduto; di esso resta testimonianza in una poesia dal titolo In lode di Gradara, scritta agli inizi del Quattrocento da un funzionario della corte gonzaghesca, Ramo Ramedelli, e scoperta da Campana nel ms. Vat. lat., 3134 della Biblioteca apost. Vaticana (edita da Campana nel 1969).
Contemporaneamente il M. intrattenne, mediante il suo cancelliere, l'umanista Pietro Turchi, rapporti epistolari con Coluccio Salutati, stimolando in lui la riscoperta dei classici greci. A tal proposito il M., deciso ad agevolare lo studio dell'opera aristotelica, incoraggiò Salutati nella ricerca di codici antichi, in primis il commento di Eustazio all'Etica Nicomachea.
Particolare attenzione va, infine, riservata alla produzione letteraria dello stesso M. che, nella nutrita schiera dei principi-poeti, fu, senza dubbio, uno degli autori più celebri e amati dal pubblico. Dotato di una spiccata curiosità intellettuale, lui, studioso di medicina (in particolare di Avicenna), filosofia, astrologia e letteratura, riversò i disparati interessi e la cultura cosmopolita in sonetti e canzoni di natura amorosa, politica, morale e religiosa che diedero forma al suo canzoniere. Questo (pubblicato nel 1981 a Parma, a cura di D. Trolli, sotto il titolo convenzionale di Rime), include anche parte della corrispondenza intrattenuta dal M. con letterati come Simone Serdini, Domizio Brocardo, Angelo Galli e con la nuora Battista da Montefeltro, con la quale trascorreva giornate di studi e duelli lirici nei salotti di corte (Rime, XLVIIa-XLVIIIb). La padronanza dello strumento poetico consentì al M. di affrontare con disinvoltura, pur senza eccellere in originalità, tematiche disparate, affinando per ciascuna la forma espressiva più consona. L'inconfondibile impronta petrarchesca e i continui richiami al Paradiso dantesco certificano, in effetti, un'assidua frequentazione dei modelli toscani e della cultura da essi promanata. Dagli eleganti inni alla Vergine, imbastiti su affettate parafrasi dell'Ave Maria (XIV, LX), alle feroci invettive contro la corruzione della Chiesa (XXIX); dal sincero abbattimento per la miseria del vivere terreno, effimero e perituro (II), all'intensa partecipazione nel rievocare avvenimenti della storia coeva (LIX). Raffinato interprete del gusto dell'epoca, il M. non trascurò, inoltre, di confrontarsi con i tradizionali motivi amorosi ed esistenziali, per quanto fosse assai poco incline a slanci autobiografici (XXIII). Unica eccezione è forse l'accorato sonetto composto in memoria della defunta moglie Elisabetta da Varano, la "sancta donna" in grado di conservare lo spirito del poeta "unito, tacito e contento" (XXVI).
Fonti e Bibl.: A. degli Abati Olivieri Giordani, Orazioni in morte di alcuni signori di Pesaro della casa Malatesta, Pesaro 1784, pp. 14 s.; La signoria di Carlo Malatesti (1385-1429), a cura di A. Falcioni, Appendice I. Documenti, Rimini 2001, pp. 445, 447, 452, 509 s., 610, 613, 618, 623, 625, 633, 651; L. Tonini, Della storia civile e sacra riminese, IV, Rimini nella signoria de' Malatesti, 1, Rimini 1880, pp. 192, 230, 237, 242, 247, 332; G. Vaccaj, La vita municipale sotto i Malatesta(, Pesaro 1928, pp. 12-14; A. Campana, Poesie umanistiche sul castello di Gradara, in Studi romagnoli, XX (1969), pp. 501-520; G. Franceschini, I Malatesta, Varese 1973, pp. 267-289; A. Carile, Pesaro nel Medioevo, in Pesaro tra Medioevo e Rinascimento, a cura di M.R. Valazzi, Venezia 1989, pp. 42-44; La signoria di M. "dei Sonetti" M., a cura di E. Angiolini - A. Falcioni, Rimini 2002; G. Patrignani, Le donne del ramo di Pesaro, in Le donne di casa Malatesti, a cura di A. Falcioni, Rimini 2005, pp. 787-832.