MALATESTA (de Malatestis), Domenico, detto Malatesta Novello
Nacque a Brescia il 6 apr. 1418 figlio illegittimo di Pandolfo (III) Malatesta e di Antonia da Barignano.
Seppure nati fuori dal matrimonio, Galeotto Roberto, Sigismondo Pandolfo e il M. erano gli unici eredi della dinastia malatestiana, e per garantire la continuazione della stirpe e del dominio lo zio Carlo Malatesta contrattò per loro con papa Martino V la legittimazione e il conferimento del vicariato apostolico, dando in cambio cinquanta fra castelli e Comuni del patrimonio. Il titolo arrivò nel 1430, e quando nel 1432 morirono Elisabetta Gonzaga, vedova di Carlo Malatesta, e Galeotto Roberto, Sigismondo Pandolfo e il M. ebbero confermata da papa Eugenio IV la concessione del vicariato e un appoggio che si concretizzò nel permesso della conquista di Cervia avvenuta nel 1433. I due fratelli divisero il territorio e al M. spettarono Cesena, Bertinoro, Meldola e le terre vicine, già destinate a lui da Pandolfo (III). Un'ulteriore legittimazione del loro ruolo venne dall'imperatore Sigismondo di Lussemburgo, quando a Rimini nell'ottobre 1433, nel viaggio di ritorno da Roma, nominò conti palatini i due fratelli, alla presenza delle personalità cesenati che avevano avuto stretti rapporti di collaborazione con il precedente signore di Cesena, Andrea Malatesta detto Malatesta, morto nel 1416.
Da allora il M. prese il nome dello zio, facendosi chiamare Malatesta Novello, a indicare la volontà di proseguire una politica che aveva sempre mirato ad avere dalla propria parte il gruppo dirigente cesenate. A esso il M. riconobbe l'esercizio di alcune cariche e la copertura di uffici, oltre che la titolarità vitalizia dei seggi nel Consiglio cittadino, tenendo al tempo stesso sotto controllo l'aspirazione dei propri cortigiani all'esenzione completa dalle imposizioni fiscali. In cambio, ricevette l'appoggio a una politica che voleva comporre i tradizionali conflitti fra le consorterie cittadine per garantire una preziosa pace sociale.
Nel 1434 fu stipulato il contratto di matrimonio fra il M. e Violante (che aveva allora quattro anni e mezzo), figlia di Guidantonio da Montefeltro e di Caterina Colonna. La promessa unione doveva portare la pace tra le due famiglie e per la riuscita di quell'accordo si era adoperato Sigismondo Pandolfo, che troviamo accanto al fratello nel 1435, al servizio di papa Eugenio IV, a bloccare a Forlì il passaggio attraverso la Romagna di Francesco Piccinino, il condottiero agli ordini del duca di Milano Filippo Maria Visconti. Nel novembre 1439 il M. fu fatto prigioniero da Filippo Maria mentre assediava un castello nel Trentino e fu liberato nel febbraio del 1440. Nell'aprile 1442 a Bologna Federico da Montefeltro e il M. conclusero i patti per le nozze con Violante, che furono celebrate in giugno a Urbino. Il panorama era molto mutato rispetto a otto anni prima, al tempo della stipula del contratto matrimoniale: ora l'ambizione nutrita da Sigismondo Pandolfo di ampliare i propri domini, alla quale il successo arriso nelle vicende militari dava un forte sostegno, era destinata ad allargarsi anche nel Montefeltro e quindi a mantenere viva fra le due famiglie la passata discordia che quel matrimonio voleva cancellare.
Nel 1442, nell'Italia centrale, dalla parte di Roma, Napoli, Milano erano schierate le signorie dei Manfredi, del M. e dei Montefeltro, contro Firenze, Venezia, Francesco Sforza e Sigismondo Pandolfo che guidava le truppe della coalizione. Alla fine di quell'anno i due fratelli Malatesta si incontrarono a Cesenatico per stipulare accordi dai quali si comprende che, se per un verso il trovarsi su fronti opposti poteva offrire vantaggi, per un altro provocava lacerazioni all'interno delle società che essi governavano. I loro sudditi non sentivano di appartenere a un unico dominio e potevano considerare nemico il dinasta le cui truppe avessero saccheggiato il loro territorio.
La documentazione superstite fa pensare che il M. fosse conscio dei rischi che comportava la politica espansionistica di Sigismondo Pandolfo. Bisognava infatti mantenere sotto controllo tutto il dominio in assenza di un dinasta impegnato su altri fronti, come era avvenuto con successo ai tempi di Pandolfo (III) e dei suoi fratelli.
Quando Sigismondo Pandolfo fu impegnato nelle condotte militari, il M. si recò a Fano, dove le esenzioni fiscali (che con altre concessioni di privilegio erano uno dei motori della società signorile) dovevano avere il consenso dei gruppi sociali cittadini. A Fano, come a Cesena, le imposte indirette erano gestite dalle amministrazioni locali e dagli ufficiali dei signori. Essi vendevano il diritto di ricavare dazi sulle merci, ma dovevano sottostare ai controlli degli ufficiali della Comunità. Se non vi fosse stato accordo fra i dinasti, quel complesso sistema di equilibri sarebbe saltato, soprattutto laddove le esenzioni avessero favorito persone di altre località del dominio, a danno dell'Erario cittadino. Le azioni del M., nel periodo in cui è documentata la sua presenza a Fano, lo vedono molto attento al rispetto di quegli equilibri, che richiedevano concordia fra i due fratelli Malatesta.
Nel 1443 papa Eugenio IV spinse più a fondo la propria decisione di cacciare dall'Italia centrale Francesco Sforza. Napoli e Milano stavano dalla parte del pontefice e il loro generale era Niccolò Piccinino; Firenze e Venezia erano dalla parte dello Sforza. Il M. e Sigismondo Pandolfo, genero di Francesco Sforza, militavano in campi opposti. Nel 1444 il M. strappò Castelfidardo a Francesco Sforza, spostandosi liberamente in quella parte del dominio malatestiano sul quale esercitava la signoria il fratello Sigismondo Pandolfo. Nel 1445 conquistò i castelli di Ripalta e Soanne, combattendo presso Monteluro. Nel 1447 morirono Eugenio IV e Filippo Maria Visconti e nel 1450 Francesco Sforza divenne signore di Milano.
In questo periodo di cambiamenti, il M. sviluppò la malattia che lo avrebbe allontanato dalla vita militare: nel marzo 1447, "a caxone d'una vena", lasciò le operazioni belliche e andò a Cesena, dove per alcuni giorni "stette como morto" (Giovanni di mastro Pedrino, II, p. 231). Una cronaca cesenate racconta di una condizione fisica che non gli avrebbe più permesso la presenza sul campo di battaglia ("fattosi alazare una vena grossa d'una gamba, rimase strupiato e chusì visse molti ani", Fantaguzzi, c. 2v). Violante lo raggiunse a Cesena e da quel momento la vita politica della città fu contrassegnata dalla presenza dei due sposi e dalle loro iniziative.
Fra quelle prese da Violante ci fu il dono di un terreno sul quale fu edificato il convento dei minori osservanti. La costruzione di una biblioteca fu invece il progetto al quale il M. pensò fin dal 1447 e che fu realizzato dal 1452 al 1454, grazie ai frati minori che accettarono di ospitarla all'interno del loro convento, e grazie all'appoggio di papa Niccolò V, che convertì un lascito a favore della costruzione di essa, e grazie all'apporto di personalità provenienti in parte dal territorio del dominio, come l'architetto Matteo Nuti di Fano, il medico Giovanni di Marco di Rimini, il frate Francesco da Figline, che fu il primo bibliotecario. Il finanziamento venne dalle casse del signore, che non impose ai Cesenati contributi per quella spesa, la quale riguardò, oltre che la costruzione della sala e dei plutei, l'acquisto di libri e la realizzazione di nuove copie, oltre alla costituzione di contributi da destinare a dieci frati studenti in sacris o, in loro mancanza, a studenti laici. La documentazione recente conferma quanto gli studiosi avevano già ipotizzato circa l'approvvigionamento di greggi di pecore destinate alla produzione di pergamena. Le relazioni del M. con i signori delle città italiane in cui si stavano costruendo biblioteche, come Cosimo de' Medici a Firenze e gli Este a Ferrara, agevolò la possibilità di procurare libri da copiare, magari anche emendati filologicamente, come avveniva appunto a Ferrara per merito di Guarino Guarini. La frequentazione di personalità come Francesco Filelfo, Poggio Bracciolini, Biondo Flavio, Pier Candido Decembrio, Basinio da Parma, Giovanni Marcanova, alcuni dei quali dedicarono al M. le loro opere, fornisce la dimostrazione dell'ambito nel quale egli si muoveva e delle curiosità intellettuali da lui manifestate. La salvezza dei testi conservati nella biblioteca fu garantita dall'intuizione avuta dal M. secondo la quale sarebbe stata la Comunità a garantirne la conservazione e non la sua dinastia o le autorità ecclesiastiche. Dopo che Francesco da Figline e Giovanni di Marco gli riferirono, nel 1460, che uno di quei libri era stato preso in prestito da Antonio Griffoli, vicario del signore, con il rischio che dopo la morte di questo sarebbe finito in mano agli eredi, il M. decise di affidare agli organi di governo della Comunità il compito di controllare l'integrità della dotazione libraria in occasione del loro periodico insediamento.
Nel 1452 il M. ottenne da papa Niccolò V l'annessione del territorio di Cervia alla Comunità di Cesena, guadagnandosi così la riconoscenza del gruppo dirigente cesenate che con quell'aggregazione aveva la strada aperta al commercio del sale, la possibilità di compiere investimenti fondiari e interventi di bonifica in un'area paludosa e perciò povera di popolazione. Per avere la bolla di consenso, aveva incaricato il proprio vicario di chiedere un prestito di 6000 ducati al banco romano di Cosimo de' Medici per pagare al papa i canoni arretrati.
Contemporaneamente il M. avviò un processo di centralizzazione delle strutture sanitarie, convincendo ancora il papa a rinunciare ai censi derivanti dai piccoli ospedali di contado, in modo che le risorse di queste strutture fossero convogliate a finanziare un unico grande ospedale cittadino, per ampliare il quale egli pagò in prima persona le spese per l'acquisto e la demolizione delle case vicine: si trattava dell'ospedale del Crocifisso. Ancora agli anni intorno al 1452 risalgono i progetti di una serie di opere pubbliche: la costruzione di una nuova porta che doveva aprire la città alla strada per Cervia (porta Cervese); la sistemazione di Porto Cesenatico; l'ampliamento delle mura urbane; il completamento della costruzione del ponte in pietra sul Savio avviata dallo zio Malatesta; il traforo di un monte per portare acqua al canale dei mulini. Parallelamente si realizzavano i progetti di integrazione alla politica signorile dell'élite cittadina, alla quale si fornivano obiettivi di ampio respiro, quali le consuetudini municipali non conoscevano.
A Giangaleotto Aguselli, figlio di Marco, il M. procurò la carica di capitano del Popolo di Firenze (1452) e lo infeudò del castello di Linaro poiché i Fiorentini volevano per quella carica un nobile. Infeudò poi Pietro Roverella del castello di Sorrivoli e fece sì che Antonio Assassini, parente degli Este, ricevesse dalla diocesi riminese il titolo di visconte di Montiano e al proprio condottiero Gottifredo Isei diede il feudo di Castelnuovo.
Il tentativo di uccisione del M., organizzato nel marzo 1453 in ambiente riminese, progetto al quale non sembra estraneo Sigismondo Pandolfo, va collocato nell'ambito dei problemi nelle relazioni che il M. voleva intrattenere con i propri raccomandati, fra i quali anche Niccolò dei Prefetti, parente di Violante, cui Sigismondo Pandolfo aveva sottratto Casteldeci. L'ingiunzione inviata da Cesena nel gennaio 1453 a Sigismondo Pandolfo affinché restituisse il maltolto fu probabilmente l'occasione che spinse a progettare l'assassinio, originato dalle gelosie nell'ambiente cesenate suscitate dai favori concessi dal signore.
Gli storici cesenati del Cinquecento, trattando delle vicende di fine Quattrocento, quando Cesena fu insanguinata dai contrasti fra Tiberti e Martinelli, e in considerazione del peso assunto, al tempo della dominazione in Romagna di Cesare Borgia, dai Tiberti, motivarono l'ostilità di alcuni membri di questa famiglia verso i Martinelli con il fatto che questi si erano insediati a Cesena da Pesaro, al seguito dei Malatesta, ricevendone incarichi di rilievo.
Ai maggiorenti cesenati furono in gran parte interdetti gli uffici che il M. preferiva fossero ricoperti da persone di propria fiducia, in maggioranza uomini d'affari in grado di anticipargli le somme di denaro che la politica di investimenti pubblici richiedeva talvolta con urgenza. Per quei suoi fideles la garanzia della restituzione delle somme prestate risiedeva negli stessi uffici ricoperti, come per esempio la riscossione delle imposte indirette.
Le esperienze di governo esterne furono caratterizzate da una progressiva perdita del potere di controllo degli eventi da parte del M., stretto come era dalle necessità di un'azione solidale con il fratello Sigismondo Pandolfo, a difesa del comune dominio, e dal bisogno di separare la propria sorte da quella, da un certo momento in poi rovinosa, del fratello. Dopo la pace di Lodi (1454), dai benefici della quale era stato escluso Sigismondo Pandolfo a causa dell'ostilità del re Alfonso d'Aragona, stimolato a ciò da Federico da Montefeltro, Iacopo Piccinino venne in Romagna contando sulla neutralità del re di Napoli, cercando di costituirsi un proprio potere nelle Marche e in Romagna a danno di Sigismondo Pandolfo e di Federico da Montefeltro. Nel 1455 gli inviati di Milano capirono che per quanto Iacopo Piccinino fosse legato al M., che in marzo lo aveva ospitato a Cesena, i due fratelli tendevano a fare fronte comune. Il fronte malatestiano era compatto quando subiva una minaccia; una volta allontanato il pericolo, Sigismondo Pandolfo assaliva anche i castelli del fratello, come quello di Soanne nel 1458, spingendo il M. a chiedere vanamente aiuto a Francesco Sforza. A questa circostanza risale una forte avvisaglia della debolezza del M. che adombrava l'alternativa di allearsi con Venezia, alla quale cedere le saline di Cervia.
Alle origini vi era sempre la politica di Sigismondo Pandolfo, che aveva procurato a questo l'inimicizia di Federico, il quale pretendeva la restituzione delle terre occupate nel Montefeltro. Il coinvolgimento del M., cui il fratello chiedeva aiuto in nome degli interessi comuni della dinastia, era viziato dalla mancata soluzione del contenzioso riguardante il pagamento della dote della sorella Violante. La ricerca di arbitri, come il re d'Aragona, cui si rivolse il M. per avere pace con Federico, non diede risultati e nemmeno ne diede l'intervento di Pio II che, diventato papa nel 1458, propose l'anno successivo, a Mantova, un arbitrato al quale Sigismondo Pandolfo rispose negativamente. La guerra intrapresa da Pio II contro di lui distrusse il dominio di casa Malatesta e trascinò anche il M. nel declino. La vendita di Cervia a Venezia (1463), causata in parte dalla situazione del M. che non trovò altre vie di uscita all'isolamento in cui si trovava, in parte determinata anche dall'indebitamento procuratogli dalla politica di munificenza, aggravò i problemi. Il papa si adirò definitivamente con lui e obbligò Venezia a impegnarsi a versare alla Camera apostolica il denaro promesso al Malatesta. Una pace separata fra questo e il papa vi fu, ma con la clausola della restituzione di Cesena dopo la morte del signore, clausola alla quale il papa volle che consentisse e fosse impegnata anche la Comunità cesenate. Una volta ottenuto quanto aveva voluto, venne meno il sostegno da parte di Venezia alla causa del Malatesta.
Questi morì a Cesena il 20 nov. 1465.
Il nipote Roberto, figlio di Sigismondo Pandolfo, non riuscì a rompere il compatto fronte antimalatestiano delle potenze italiane e l'élite cesenate non diede alcun sostegno a una causa che minacciava di essere rovinosa per la città, vista la presenza alle porte di Cesena delle truppe di Federico da Montefeltro, ormai alleato dello Stato della Chiesa.
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