MALATESTA (de Malatestis), Galeotto, detto Malatesta Ungaro
Nacque a Rimini nel giugno 1327 dal fecondo matrimonio tra Malatesta detto l'Antico e Guastafamiglia e Costanza Ondedei. Battezzato come Galeotto, nel 1347 fu rinominato Malatesta Ungaro in onore della venuta a Rimini del re d'Ungheria Luigi d'Angiò, che lo insignì del cavalierato.
Il M. è descritto dalle cronache coeve come un giovane prestante, virtuoso e valoroso. Di virtù e valore abbisognava per riscattare l'immagine della famiglia da quell'alone fosco, fatto di lotte intestine e fratricide, che impegnarono gli appartenenti alla dinastia nel primo trentennio del Trecento e che al padre valsero l'appellativo di Guastafamiglia.
Il M. trascorse gli anni della giovinezza nel mestiere delle armi sotto l'egida dell'illustre genitore e dello zio Galeotto insieme con il fratello primogenito Pandolfo (II), futuro signore di Pesaro, e partecipò all'ampliamento della potenza malatestiana nella Marca e, come figlio cadetto, era costretto a dimostrare continuamente il proprio valore. Nel 1349 fu l'artefice della capitolazione di Iesi e il 1353 lo vide in una scomoda posizione: fu infatti consegnato in garanzia, come ostaggio, a una delle più forti compagnie di ventura del periodo, quella di fra Moriale, che stava seriamente mettendo a rischio la recente conquista dei territori marchigiani.
Il 1354 fu cruciale per lo svolgersi dei rapporti fra Malatesta e S. Sede: papa Innocenzo VI, eletto nel 1352, portò a compimento, con l'aiuto del legato Egidio de Albornoz, l'opera in cui avevano fallito i suoi predecessori, la riconquista dello Stato della Chiesa. La situazione per la signoria riminese divenne più che difficile, Galeotto fu catturato e imprigionato a Gubbio. A Malatesta Antico non restò altro da fare che contrattare la pace e cercare di ricavare il massimo dalla situazione: vestiti i panni del figliol prodigo, Antico si presentò di sua spontanea volontà ad Albornoz, che mostrò di gradire il gesto. Il 2 giugno 1355 furono, infatti, stipulati i patti in base ai quali i Malatesta restituivano alla S. Sede i territori illegittimamente occupati ottenendo in cambio la concessione del vicariato decennale su Rimini, Pesaro, Fossombrone e Fano. Il M. a questo punto si ritrovò, per la seconda volta, a fare da ostaggio: fu appunto offerta la sua persona come pegno per la liberazione dello zio, che si apprestò a ratificare i capitoli siglati da Malatesta Antico.
I Malatesta inaugurarono così un nuovo corso nei rapporti con la Chiesa: da nemici principali a difensori e campioni della S. Sede. Nel 1356, quando il papa indisse la crociata contro Forlì, i Malatesta ne furono al timone: Galeotto fu nominato gonfaloniere e il M. lo sostenne; a entrambi spettò l'onore di aprire le ostilità. Il M., incendiato il porto di Cesenatico, impedì al nemico di accedere ai rifornimenti via mare e, nel condurre sortite vittoriose nei dintorni di Cesena, si riunì all'esercito dello zio. Congiuntamente diressero i loro sforzi all'assedio di Cesena difesa dall'indomita Cia degli Ubaldini, moglie di Francesco Ordelaffi, la quale, alla fine, cedette e, fatta prigioniera, venne condotta ad Ancona.
La crociata contro Forlì conobbe una momentanea pausa e il M. si imbarcò in un'impresa di una certa risonanza, perlomeno negli ambienti di corte della fine del secolo XIV, svelando un aspetto inatteso della sua personalità, il pellegrinaggio in Irlanda al temibile pozzo, o "Purgatorio di S. Patrizio".
Sulla scia di una leggenda diffusa dal poema britannico Purgatorium S. Patricii, esso rappresentava - così almeno si credeva - una porta aperta all'aldilà e chi, davvero contrito, vi si fosse recato, avrebbe avuto la visione del proprio destino ultraterreno, unitamente al perdono di tutti i peccati.
Nell'autunno 1358, al termine di un lungo viaggio attraverso la Francia, le Fiandre e l'Inghilterra, il M. raggiunse l'Irlanda: l'avvenuta discesa nel misterioso santuario è certa e comprovata in primo luogo da una patente del 24 ott. 1358 di Edoardo III, re d'Inghilterra, e corroborata con dovizia di particolari dalla testimonianza (18 sett. 1358) di Ludovico di Sur, un cavaliere impegnato nella medesima impresa (per entrambe cfr. Cardinali - Falcioni, 2001, p. 81); a tale documentazione si aggiunge poi la cronaca diretta di uno dei compagni di viaggio del M., Niccolò Beccari, cortigiano e rimatore.
L'episodio getta una luce nuova sull'indole del M.: il suo - stando anche ai più recenti studi - non appare un pellegrinaggio prettamente religioso. A spingerlo non era solo la fede, ma una motivazione personale: desiderava incontrare l'anima della donna amata, l'aristocratica riminese Viola Novella, da poco assassinata dal marito geloso, Caccia Battaglia (che aveva scoperto la loro relazione adulterina), trattenerla in un ultimo intimo colloquio in merito ai particolari della sua tragica fine e del suo destino oltre la morte, per accomiatarsi da lei finalmente rappacificato. Certo, questa alta e avventurosa impresa religioso-cavalleresca, richiamando alla mente il viaggio della Commedia dantesca e gli ideali dell'amor cortese, testimonia del vento di cambiamento che stava attraversando la corte malatestiana, ingentilendone l'aspetto e nobilitandone l'essenza. È l'embrione della corte umanistica che si sarebbe affermata con la signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, ma che ebbe i propri fondatori in Pandolfo (II), cultore delle lettere e intimo amico di Petrarca, e nel M., sincero amante delle arti figurative, come dimostra il ciclo di affreschi a soggetto epico e venatorio del pittore Iacopo Avanzi nel castello di Montefiore (1370 circa) da lui direttamente commissionato. Non a caso il M. volle, come compagno di viaggio, Niccolò Beccari, fratello del famoso rimatore Antonio (Antonio da Ferrara), e l'eco del suo tragico amore per Viola Novella risuonò in componimenti letterari e poetici di Gambino d'Arezzo, Benedetto da Cesena, Antonio da Cornazzano e Basinio da Parma.
A suffragare questo nuovo mondo cavalleresco e cortese, che era il modello ispiratore del M., e la sua moderna religiosità, fu un successivo viaggio in Terrasanta, che compì tra l'aprile e l'agosto 1349 o 1359 (le fonti sono al riguardo discordanti): ancora una volta ad accompagnarlo fu un poeta e uomo di corte, messer Dolcibene de' Tori. Il M. ottenne poi numerose dispense pontificie per le quali venne temporaneamente esonerato dal voto, fatto in quell'occasione, di ritornare negli anni futuri in visita al S. Sepolcro.
Il M. non poté, in effetti, assolvere la promessa per pressanti impegni bellici, primo fra tutti la ripresa delle ostilità contro Francesco Ordelaffi, il quale stava riconquistando qualche posizione grazie all'appoggio della compagnia di Corrado di Landau che già imperversava nel Cesenate e nel Riminese fino al Montefeltro. Albornoz pagò lautamente (50.000 fiorini) l'allontanamento di Corrado di Landau, ma in questo modo indebolì definitivamente il signore di Forlì, costringendolo alla resa (4 luglio 1359). Le incombenze militari non erano ancora al termine e l'anno successivo il legato pontificio volse il proprio interesse a Bologna. Albornoz, chiamati presso di sé il M. e Galeotto, riuscì a riconquistare la città, cacciandone il signore Giovanni Visconti di Oleggio e sconfiggendo l'esercito visconteo nella decisiva battaglia di San Ruffillo del giugno 1361.
La fedele militanza a fianco del papa nelle crociate vittoriose su Forlì e Bologna, oltre ad accrescere la fama del M. come uomo d'arme, valse alla casata riminese la proroga dei vicariati anteriormente concessi, che, nel 1363, vennero riconfermati da papa Urbano V per almeno un decennio.
Per di più, il M. sposando in prime e seconde nozze rispettivamente Violante (1345) e Costanza (1362), entrambe figlie di Obizzo (III) d'Este, aveva già iniziato a intessere una serie di rapporti parentali con l'aristocrazia italica destinati a essere presto corroborati dal suo fattivo impegno diplomatico. Il legame con la corte ferrarese si consolidò ulteriormente nel 1363, con l'unione di Ugo d'Este, figlio del prolifico Obizzo (III), con Costanza Malatesta, unica erede del M. (avuta dalla prima moglie Violante) o almeno la sola figlia legittima, dato che la sua discendenza annoverava pure un maschio naturale, un tale Ludovico.
In quello stesso torno di tempo (1363) il M. ottenne anche la nomina a capitano generale della Chiesa e si dimostrò, ancora una volta, all'altezza della situazione: suo il merito della vittoria ottenuta a Solarolo; la pace che ne derivò con i Visconti consentì di riportare lo strategico castello di Lugo e le relative pertinenze sotto il dominio pontificio. Più volte ambasciatore presso la corte avignonese, il M. ricoprì, con Pandolfo (II) e Galeotto, un ruolo fondamentale per gli interessi ecclesiastici in Romagna e nell'ambito dell'Italia centrosettentrionale. Parte di rilievo egli ebbe nel 1366, allorché si fece promotore, con Niccolò d'Este, di una lega, capace di contrastare lo strapotere delle compagnie di ventura e creare una situazione più tranquilla nella penisola; l'obiettivo era quello di mantenere lo status quo delle sfere di influenza esistenti e avversare le eventuali mire espansionistiche delle famiglie signorili più potenti. Urbano V elesse il M. gonfaloniere della Chiesa (1368) e gli affidò il comando di tutte le milizie, lo creò inoltre comandante supremo delle armi della lega: suo il compito di fare da arbitro tra le diverse forze presenti in Valpadana e di affiancare l'imperatore Carlo IV di Lussemburgo, venuto in Italia contro i Visconti. In virtù delle capacità militari e della fedeltà dimostrata, il M. diveniva uomo di fiducia del papa; da parte sua, Galeotto acquisiva la rettoria di Romagna e il vicariato di Cesena e Bertinoro.
A sostegno del ruolo politico raggiunto dai Malatesta, Carlo IV si rivolse proprio a loro quando, nell'agosto 1368, ricevette l'invito a intervenire per sanare la difficile situazione in cui versava Siena, e nominò il M. vicario della città.
Egli vi aveva già ricoperto incarichi diplomatici come luogotenente imperiale quando, nel 1355, si era verificata l'insurrezione capeggiata dalla coalizione di nobili e popolari che aveva causato la caduta del potere dei Nove, sostituito da quello dei Dodici. Il M. appoggiò la nuova classe politica e riuscì a mantenere rapporti positivi con le nuove autorità comunali, anche se queste, ribellatesi all'imposizione di un vicariato imperiale, di fatto cacciarono Carlo IV da Siena; naturale che venisse richiamato il M. a riportare l'ordine in città. Dopo la morte di Giovanni Salimbeni, sostenitore del governo dei Dodici e ago della bilancia del precario equilibrio politico senese, i nobili avevano rovesciato il governo cittadino ed eliminato l'intera partecipazione dei populares, che si erano rivolti all'imperatore. Il M. intimò ai consoli la consegna della città e, sostenuto dalla potente consorteria mercantesca dei Salimbeni, ottenne l'insediamento di un nuovo dominio dei Dodici di composizione popolare che, in realtà, conferiva allo stesso M. ampie prerogative e privilegi. Nel frattempo i nobili fuorusciti da Siena portavano avanti la loro battaglia: la situazione era critica ed esplosiva, tanto da richiamare più volte in Italia l'imperatore e attirare anche l'attenzione del papa; alla fine la rivolta scoppiò nuovamente e in modo violento, il M. e i Salimbeni rinnovarono il loro appoggio alla fazione popolare, le ostilità ebbero sorti alterne, ma fu l'imperatore ad avere la peggio. Fatto prigioniero dalle forze cittadine, si vide costretto a riconoscere la libertà di Siena, attribuendo alla città stessa la vicaria.
Neppure la lega, tesa a contrastare la forza delle compagnie di ventura, aveva conseguito i risultati sperati: i mercenari continuavano a imperversare per l'Italia con l'appoggio di Perugia che, ospitando i Montefeltro fuggiaschi, si confermava refrattaria all'obbedienza papale e dava ricetto ai nemici della Chiesa. Fu così che Urbano V indisse una crociata contro la città umbra e le brigate prezzolate, tra le quali spiccava quella di John Hawkwood; si formò una nuova coalizione e al comando delle milizie fu chiamato ancora una volta il Malatesta. Di lui si servì anche il neoeletto papa Gregorio XI, inviandolo con Galeotto nel Modenese a sostegno di Niccolò d'Este, per sedare la rivolta di Manfredino da Sassuolo e di altri signori limitrofi, istigati proprio dai Visconti (febbraio 1371).
Sempre in funzione antiviscontea il papa affidò al M. e a Guglielmo, vescovo di Comacchio, il compito di trattare con gli esponenti di una lega di recente formazione costituita in opposizione al signore di Milano. Il M. avrebbe dovuto guidare le operazioni militari ma, nella primavera 1371, pur essendo munito di salvacondotto papale, fu catturato e tenuto in ostaggio dalle genti del Delfinato, che chiedevano un riscatto per il rilascio. Gregorio XI, appellatosi per la sua liberazione al vescovo di Vienne e al re di Francia Carlo V (17 maggio 1371), riuscì nell'intento, però il M. non fece più ritorno sui campi di battaglia.
Il M. morì a Rimini il 17 luglio 1372. Fu sepolto nella chiesa di S. Francesco, ove aveva già disposto la costruzione di una ricca cappella dedicata a S. Giovanni Battista.
Il M. non lasciava discendenti maschi legittimi: il testamento, prodigo di legati pro anima, nominò eredi principali la moglie e la figlia, entrambe di nome Costanza, ed esecutore testamentario Pandolfo, il quale sopravvisse al fratello per pochi mesi (gennaio 1373). Lo Stato malatestiano veniva così riunificato e posto nelle mani dell'ormai vecchio dinasta Galeotto.
Fonti e Bibl.: M. Battagli, Marcha, a cura di A.F. Massera, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XVI, 3, pp. 34 s., 56 s., 76, 81; Cronache malatestiane dei secoli XIV e XV, a cura di A.F. Massera, ibid., XV, 2, pp. 16, 18, 21, 24 s., 30, 34; C. Clementini, Raccolto istorico della fondatione di Rimino e dell'origine e vite de' Malatesti, II, Rimino 1627, pp. 71-83; L. Tonini, Della storia civile e sacra riminese, IV, Rimini nella signoria de' Malatesti, 1-2, Rimini 1880, ad ind.; A.F. Massera, Malatesta Ungaro e la Viola Novella, in Giorn. stor. della letteratura italiana, LXIII (1914), pp. 174 s.; G. Franceschini, I Malatesta, Varese 1973, pp. 145-157; P.G. Pasini, Jacopo Avanzi e i Malatesti. La "camera picta" di Montefiore Conca, in Romagna arte e storia, XVIII (1986), pp. 5-30; F. Cardini, Malatesta "Ungaro" al Purgatorio di S. Patrizio, in Atti della Giornata di studi malatestiani a Sestino( 1984, Rimini 1990, pp. 71-85; C. Cardinali - A. Falcioni, La signoria di Malatesta Ungaro, Rimini 2001; R. Iotti, Storie antiche e spettri d'archivio: le vicende di cinque nobildonne tra Ferrara e Rimini, in Le donne di casa Malatesti, a cura di A. Falcioni, Rimini 2005, pp. 306-327.