Malattia e salute
I termini che nelle diverse lingue vengono usati per indicare la malattia appartengono, per la loro etimologia, a più campi semantici: essi rinviano sia alla mancanza di adattamento ai compiti della vita quotidiana, alla debolezza e alla perdita delle capacità lavorative, sia alla deformità e alla bruttezza, sia ancora alla sensazione di un disturbo fisico, e infine alla sofferenza psichica e al dolore. Dire che una persona è malata significa dire che non si sente bene, che il ritmo delle sue attività è perturbato e che alcuni cambiamenti del suo corpo compromettono le sue capacità fisiologiche, talvolta al punto da mettere in pericolo la vita stessa. Il concetto di malattia non è socialmente neutro: esso implica un giudizio non soltanto di ordine scientifico, ma anche di ordine morale ed estetico. Si tratta infatti di un insieme di concetti che hanno conosciuto un'evoluzione nel corso della storia e che, nelle società contemporanee, differiscono secondo gli strati sociali e il livello di istruzione. La concettualizzazione della malattia comporta due aspetti fondamentali che non si devono confondere: da un lato la determinazione del confine tra salute e malattia, la distinzione tra fisiologico e patologico, e dall'altro la definizione delle malattie, vale a dire la suddivisione degli stati e dei processi patologici in entità nosologiche.
Anche se è facile comprendere intuitivamente il significato del termine 'malattia', si rivela assai difficile, se non impossibile, darne una definizione formale del tutto soddisfacente. Le definizioni della malattia si riducono spesso a un circolo vizioso (affermando che essa è il contrario della salute) o presuppongono un punto di vista particolare e parziale sull'essenza dei fenomeni morbosi. Si dice anche che la malattia sia la perturbazione dei processi normali all'interno di un organismo, lo svolgimento anormale delle funzioni vitali. Il difetto di una definizione di questo tipo consiste nell'indeterminatezza del concetto di normalità. Se si considera come normale ciò che è più frequente o ciò che è regolare, conforme alle leggi, la definizione sopra indicata non è valida. In una data popolazione, la malattia può essere più frequente della salute; i processi patologici non sono meno sottoposti a leggi naturali di quanto lo siano i processi fisiologici. In campo biologico, tuttavia, il concetto di norma comporta anche il senso di conformità a uno stato ideale d'esistenza. Si può immaginare che per ogni organismo esista una norma intesa come realizzazione di un progetto biologico. La malattia sarebbe quindi la deviazione da questo ideale, variabile secondo la filogenesi, l'ontogenesi, le condizioni fisiche dell'ambiente e anche la situazione sociale. Comunque sia, è difficile e talvolta addirittura impossibile fissare il punto in cui le variazioni fisiologiche divengono cambiamenti patologici.
Si dice che la malattia sia una lesione delle strutture organiche, il che è solo parzialmente vero, in quanto la malattia non è soltanto questa lesione, ma anche e soprattutto la reazione dell'organismo nel suo complesso a questa lesione. La malattia è un aspetto dell'esistenza: esprime la lotta dell'organismo per conservare l'equilibrio dinamico del suo ambiente interno e delle sue relazioni con quello esterno. Si ritorna così al concetto di norma biologica, cioè di salute ideale. Nonostante la coppia malattia/salute non sia simmetrica, i due termini sono solidali e non si potrebbe definire l'uno senza presupporre la definizione dell'altro. È quindi interessante ricordare qui la definizione di salute che è stata formulata nel preambolo dell'atto costitutivo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità: "La salute è lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale che non consiste soltanto nell'assenza di malattia o infermità". Questo ci ricorda che, definendo la malattia in generale, bisogna tener conto delle malattie mentali e di quelle sociali, che sfuggono ai criteri interpretativi puramente fisico-chimici e biologici. La normalità non è solamente di ordine biologico: essa implica anche un parametro sociale.
La malattia e la salute sono concetti valutativi che tengono conto dell'adattamento dell'individuo al suo ambiente sociale. Il vissuto individuale non coincide sempre con il riconoscimento sociale di uno stato patologico, riconoscimento che d'altra parte non è sempre lo stesso in tutte le società. Esso differisce anche da uno strato sociale all'altro e, inoltre, si trasforma storicamente. La prima comparsa del ciclo mestruale, per esempio, è spesso vissuta come un evento patologico, ma non è per questo considerata, nella nostra società, una malattia. Invece alcune tossicomanie e parassitosi, riconosciute come patologiche dalla medicina occidentale ufficiale, possono essere vissute da alcuni individui come stati normali e anche, presso alcune popolazioni, essere ritenute tali dall'opinione comune. Non sono sempre sufficienti dei parametri oggettivi per decidere, fuori del contesto ecologico e sociale, della normalità di uno stato. Perfino il numero di globuli rossi in un mililitro di sangue può essere patologico in un Europeo e rappresentare invece, se è molto elevato, un valore normale, segno di buona salute, per un nativo dell'altipiano andino o, se è molto basso, per un abitante della foresta tropicale.
L'accertamento della malattia in un individuo comporta conseguenze sociali importanti: può ingenerare diritti sociali e dispensare da alcune responsabilità. Una medicina istituzionalizzata detiene il potere di determinare ciò che deve essere considerato malattia. I medici, organizzati nella civiltà occidentale in una professione fortemente autonoma, definiscono in astratto e decidono in concreto cosa sia una deviazione biologica. Creano così la malattia come condizione sociale ufficiale. È essenzialmente attraverso questa costruzione professionale che la morbilità (ossia il numero relativo di malati in una popolazione) viene percepita e registrata nei documenti statistici. La malattia sarebbe quindi, secondo alcuni sociologi, una costruzione sociale determinata dalla professione medica. Peraltro, la malattia non è concepita allo stesso modo dalla clinica medica (branca della medicina che diagnostica e tratta le malattie), dalla patologia (scienza medica che studia i cambiamenti morfologici morbosi delle strutture biologiche e lo svolgimento dei processi patologici nell'organismo), dalla nosologia (scienza che definisce e classifica le malattie), dall'epidemiologia (scienza che studia la frequenza e la distribuzione delle malattie) e dalla psichiatria (branca della medicina che si occupa delle malattie mentali).
Un paziente con focolai calcificati di una passata infezione tubercolare dei polmoni sarà dichiarato sano da un clinico, pur essendo ritenuto malato da un patologo. Quest'ultimo potrà considerare sana una persona nevrotica che uno psichiatra riterrà evidentemente malata. Malgrado l'assenza di sintomi fisici e psichici precisi, un igienista si guarderà bene dal considerare sana una persona che vive in miseria. Nella letteratura scientifica di lingua inglese, per rendere meno ambiguo il concetto generale di malattia, si riserva il termine disease per indicare la concettualizzazione della malattia operata dai medici (il 'modello medico' della malattia), mentre il termine illness indica l'esperienza diretta del malato, il 'vissuto' della malattia. Osserviamo che esiste anche una differenza tra 'essere malato' (sentirsi tale) ed 'essere un malato' (essere ritenuto tale): di qui la necessità di introdurre un terzo termine, sickness, per indicare la percezione della malattia da parte dell'ambiente non medico vicino alla persona malata. Nella malattia concepita come disease si possono distinguere le alterazioni anatomiche e fisiologiche subite dal malato e verificate 'oggettivamente' dal medico (il páthos) dalla loro interpretazione medica come entità cliniche o anatomopatologiche (il nósos). Alcuni patologi insistono sull'importanza di distinguere i processi morbosi, ossia la malattia nella sua piena evoluzione clinica (disease nel senso specifico del termine), e gli stati morbosi stazionari (infermità, vizio, malformazione).
L'espressione 'essere malato' è considerata sinonimo di 'essere affetto da malattia', in cui la sostantivizzazione dell'aggettivo rappresenta il residuo di una credenza arcaica secondo cui le malattie sarebbero esseri fisici o psichici (teorie corpuscolari e demoniache). Ma, anche se si ritiene che le malattie non siano esseri nel senso forte del termine, non si potrebbe ammettere una loro esistenza, sotto forma di idee di natura platonica, antecedente a qualsiasi analisi concettuale? Le malattie sono 'cose' o 'parole'? In altri termini, le definizioni delle malattie concrete (e non della malattia in generale) esprimono una realtà che esiste come oggetto ideale sotto questa forma o sono soltanto il modo più comodo di padroneggiare intellettualmente alcune proprietà a un tempo complesse e instabili dei corpi viventi? E ancora, le entità nosologiche vengono 'scoperte' o 'inventate'? Fin dalle origini della medicina occidentale, nella Grecia del V sec. a.C., un acceso dibattito ha opposto i fautori della nosologia ontologica 'realista' e quelli della patologia dinamica 'nominalista'. Per la medicina scientifica contemporanea le malattie in quanto specie nosologiche esistono solamente all'interno di un sistema interpretativo della realtà patologica. Le entità nosologiche sono concetti dai contorni arbitrari che, in quanto tali, non discendono immediatamente dalla nostra esperienza vissuta e variano nello spazio (differenze culturali) e nel tempo (differenze storiche). Le malattie sono modelli esplicativi della realtà e non suoi elementi costitutivi.
Prendiamo per esempio la tubercolosi polmonare. Esistono, in senso forte, il germe specifico (il bacillo di Koch), le modificazioni patologiche dei tessuti (lesione essudativa con caseificazione tipica e lesione produttiva con formazione dei tubercoli), i disturbi funzionali e i sintomi clinici (febbre continua, dimagrimento, tosse, espettorazioni caratteristiche, ecc.), le sofferenze dei malati, la morte prematura e, infine, le incidenze sociali e demografiche di questa interazione tra il germe e l'uomo.
Viceversa, il concetto di tubercolosi polmonare (e, a fortiori, di tubercolosi tout court) sembra essere in gran parte arbitrario, in quanto elaborato attraverso uno sforzo straordinario di sistematizzazione dei dati empirici. L'osservazione clinica ha suggerito la concettualizzazione della tisi; poi, solo nel XIX sec., le ricerche anatomopatologiche hanno permesso la creazione del concetto di tubercolosi (il termine è stato coniato nel 1839 da Johann Lukas Schönlein), ricavato grazie al principio della specificità morfologica di alcune lesioni dei tessuti e confermato in seguito, con lo sviluppo della microbiologia, dal principio di unità eziologica. La medesima realtà è stata definita in un primo momento attraverso un quadro clinico, poi tramite alcune caratteristiche morfologiche delle lesioni locali e infine attraverso l'azione specifica di un bacillo.
La nozione scientifica di era all'inizio essenzialmente clinica: la malattia era una sindrome (compresenza di più sintomi). Nel caso di traumi evidenti, di intossicazioni e di influenze dannose del freddo o del caldo, la definizione delle entità nosologiche era evidentemente causale. In altri casi si inventavano varie entità di natura simile chiamando in causa, come criterio discriminante, ipotetici meccanismi patogeni, che andavano dalla possessione demoniaca e dall'affezione amorosa ai disturbi degli umori, alla tonicità delle fibre e al rapporto tra salinità e alcalinità delle parti del corpo. All'inizio del XIX sec. la definizione anatomo-clinica delle entità nosologiche, dovuta principalmente ai medici dei grandi ospedali di Parigi (Gaspard-Laurent Bayle, René-Théophile Laennec, Gabriel Andral e altri) e di Londra (Richard Bright, Thomas Addison e altri), ha preso il posto della semplice definizione clinica. La malattia ha smesso di essere l'insieme dei sintomi provocati dai disturbi dell'equilibrio interno degli umori e delle strutture solide ed è stata considerata sempre più come una lesione locale di cui i sintomi sono soltanto una manifestazione esterna, superficiale. Si poteva quindi definire più facilmente un'entità nosologica per mezzo dell'esame autoptico che non dall'osservazione del paziente in vita.
Poiché la lesione è necessariamente collocata in una parte precisa dell'organismo, si è cercata la sua localizzazione in strutture sempre più piccole: dalla patologia organica del XVIII sec. (Giambattista Morgagni) si è passati alla patologia dei tessuti dell'inizio del XIX sec. (François-Xavier Bichat) e alla patologia cellulare della metà del XIX sec. (Rudolf Virchow), per concludere con la patologia molecolare dei nostri giorni. Nelle esposizioni di patologia morfologica si parte ancora oggi quasi sempre dal presupposto che la struttura malata non sia in primo luogo l'organismo, ma la cellula, concepita come la portatrice in gran parte autonoma della vita. Parallelamente a questa tendenza analitica che si occupa delle strutture elementari, si è sviluppato l'atteggiamento a considerare la malattia non soltanto come una lesione locale, ma anche come un disturbo dell'integrazione dell'organismo nel suo complesso: questo ha resuscitato in forma nuova la patologia umorale (soprattutto l'endocrinologia) e la neuropatologia. Alcune malattie si definiscono meglio attraverso i disturbi funzionali che attraverso i cambiamenti morfologici (per es., le disfunzioni metaboliche).
La scoperta rivoluzionaria dei microbi patogeni, grazie soprattutto ai lavori di Louis Pasteur e di Robert Koch, durante la seconda metà del XIX sec., diede la priorità alla definizione causale delle entità nosologiche. Alla lista delle cause patogene si aggiunse anche la possibilità di un difetto innato del patrimonio genetico. La suddivisione dell'insieme dei fenomeni patologici in entità nosologiche (il modello medico della malattia) presuppone un'opzione di ordine filosofico e l'esistenza di un sistema di riferimento medico, fondato su spiegazioni ipotetiche delle cause morbose e dei meccanismi patogeni. La storia della medicina occidentale, lo studio comparato delle pratiche mediche in civiltà diverse e l'antropologia medica ci hanno insegnato che la concettualizzazione delle entità nosologiche non avviene necessariamente secondo le modalità praticate dalla medicina scientifica contemporanea. Si può osservare anche che le opinioni popolari a questo proposito corrispondono in gran parte ai concetti scientifici del passato.
Il medico deve saper fare la diagnosi, vale a dire riconoscere la sindrome e indovinare il disturbo fondamentale che si cela dietro i sintomi. La diagnosi medica stabilisce il legame tra la realtà osservata e la dottrina nosologica; diagnosticare una malattia significa collocare lo stato di un paziente reale in una serie di classi nosografiche. Quando la concettualizzazione delle malattie era essenzialmente clinica, la diagnosi era relativamente semplice: si trattava di una sorta di sintesi della descrizione clinica, di una 'etichetta' che collocava il caso concreto in un sistema di descrizioni standardizzato. Non ci si poteva sbagliare dicendo che un malato soffriva di asma, di febbre terzana o di tisi, in quanto questi termini si riferivano a delle sindromi, a degli insiemi clinici specifici e non implicavano ancora la connotazione moderna di affezione allergica, di infestazione malarica o di infezione tubercolare.
I medici dei secc. XVII e XVIII paragonavano la diagnosi medica all'identificazione di una pianta in botanica. Il passaggio dalla definizione puramente clinica delle malattie alle definizioni anatomica, fisiopatologica ed eziologica ha completamente mutato il significato e l'importanza della diagnosi medica. Non si tratta più solamente di una classificazione dei dati osservabili, ma di un'inferenza logica: si passa dai dati empirici visibili alla lesione fondamentale (cioè un difetto nascosto) e alla determinazione ipotetica di una catena causale. Le pubblicazioni mediche del nostro secolo contengono la descrizione di circa 20.000 malattie, sindromi, traumi e infermità tali da avere un'etichetta particolare. Tuttavia un grande ospedale con tutti i suoi reparti specializzati registra generalmente poco più di 800 diagnosi differenti e un medico generico anche assai esperto si serve al massimo di 300 diagnosi.
Le più antiche classificazioni delle malattie erano topografiche, legate alla parte del corpo interessata, o eziologiche, a seconda della dottrina medica in auge. Erano classificazioni schematiche, grossolane, e non esaurivano la totalità delle malattie conosciute e ancor meno quella delle malattie possibili. La ripartizione tradizionale a capite ad calcem, dalla testa ai piedi, era più un ordine di esposizione didattica che una classificazione in senso stretto. I tentativi di classificazione eziologica e patogenica (per es., secondo l'umore responsabile principale del disturbo o secondo lo stato di tensione delle parti solide) decadevano con il tramonto del sistema medico su cui erano fondati. La speranza di una classificazione 'naturale' delle malattie nasce nel XVIII sec. con l'elaborazione del concetto clinico moderno di malattia e con il successo della classificazione delle piante e degli animali. Siamo fortemente debitori a Carl von Linné sia di un systema naturae sia di un systema morborum; il primo trionferà, il secondo scomparirà malgrado gli sforzi laboriosi e ingegnosi di tutta una generazione di nosologi che, da François Boissier de Sauvages a Philippe Pinel, lo rimaneggeranno tentando di completarlo e renderlo coerente.
Nel corso del XIX sec. la nosologia cede il posto alla patologia: invece di descrivere e classificare le malattie come entità che si articolano in un sistema coerente, si studiano i cambiamenti morbosi delle strutture viventi, soprattutto a livello cellulare, e i processi che conducono, attraverso i meccanismi biochimici e biofisici, dalla causa scatenante ai sintomi clinici. I criteri di definizione delle malattie si sovrappongono: il criterio eziologico, il più soddisfacente, non può evitare il ricorso ai criteri clinico, anatomico e biochimico. Un'ulteriore difficoltà viene dal fatto che nell'elaborazione del modello medico le entità nosologiche non si collocano tutte allo stesso livello di astrazione: vi è spesso confusione tra lesione, sintomo e segno, sindrome, , vizio, stato patologico e malattia. Per esempio, non vi è equivalenza di livello nosologico tra la caverna polmonare, la tosse, la presenza del bacillo di Koch, la sieropositività specifica, la tisi, l'allergia, la polmonite e la tubercolosi polmonare.
Oggi si ammette che è impossibile, sia in linea di principio sia anche a causa dell'insufficienza delle nostre conoscenze, elaborare un sistema nosologico coerente, una classificazione naturale, o almeno logicamente consistente, delle malattie. Ora, poiché una classificazione è necessaria per ragioni pratiche, soprattutto per il controllo epidemiologico, è stato necessario arrivare a un compromesso. Per uniformare i dati epidemiologici in vista di una loro elaborazione statistica, è stata adottata, grazie a convenzioni internazionali, una classificazione artificiale, arbitraria ma rispondente alle necessità dei servizi di sanità pubblica. Questa classificazione possiede delle 'aree di coerenza nosologica' che, giustapposte e in parte sovrapposte tra loro, compongono una sorta di mosaico.
Gli inizi della classificazione statistica internazionale delle malattie risalgono all'adozione, in occasione della Conferenza di Chicago nel 1893, della Nomenclatura internazionale delle cause di decesso. Questa nomenclatura, chiamata anche Classificazione Bertillon, non era una vera e propria classificazione nosologica, ma una semplice lista dei termini da utilizzare per indicare, in un certificato di morte o in una tavola statistica, lo stato patologico considerato come la causa immediata o iniziale della morte. Ideata da Jacques Bertillon, essa fu impiegata a partire dal 1885 come modello per uniformare la statistica della mortalità nella città di Parigi. L'utilizzazione di questa nomenclatura si diffuse poco per volta in tutto il mondo, soprattutto dopo la sua prima revisione avvenuta nel corso della Conferenza internazionale di Parigi del 1900. Venne deciso un suo aggiornamento ogni dieci anni, ma, nonostante i miglioramenti successivi, essa restava di interesse limitato in quanto aveva una carenza e un difetto. Era infatti circoscritta alle cause di morte e non poteva essere utilizzata per la registrazione standardizzata delle malattie non mortali. Aveva anche il difetto di non essere una classificazione vera e propria, in quanto si limitava a enumerare i termini suddividendoli nelle diverse rubriche, senza mettere a punto un vero sistema complessivo delle classi inquadrate.
L'elaborazione di una classificazione statistica internazionale delle malattie, dei traumi e delle cause di decesso fu uno dei primi risultati raggiunti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, fondata alla fine della Seconda guerra mondiale. Adottata durante la Conferenza internazionale per la sesta revisione decennale della nomenclatura, tenutasi a Parigi nel 1948, la classificazione aveva lo scopo di dare un nome a tutti gli stati patologici e di classificarli nell'ambito di un sistema. Il numero complessivo delle malattie, suddivise in 17 grandi categorie, era limitato a 1000 in quanto si era deciso di codificarle con un numero a tre cifre. Poiché le entità nosologiche sono più numerose, le rubriche di questa classificazione raggruppavano spesso più malattie sotto il medesimo titolo.
Nel 1993, esattamente un secolo dopo l'adozione della Classificazione Bertillon, è stata pubblicata a Ginevra la decima revisione della classificazione delle malattie, la prima che aspiri a essere esaustiva. Si intitola Classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi connessi della salute, decima revisione (CIM-10). In questa classificazione la nosologia è notevolmente arricchita, ma rimangono le incoerenze fondamentali. I responsabili dell'Organizzazione Mondiale della Sanità non si sono sbagliati dichiarando che la CIM-10 è "il prodotto di una somma considerevole di attività, di cooperazione e di compromessi sul piano internazionale". Non si potrebbe esprimere in modo migliore il fatto che questa classificazione è il risultato di accordi tra i diversi specialisti e non dell'applicazione rigorosa di una logica tassonomica. Per superare la soglia delle 1000 malattie il sistema tradizionale di codificazione numerica è stato sostituito, nella CIM-10, da un sistema alfanumerico. Il numero delle categorie è passato da 17 a 21 (in realtà 19, in quanto le ultime due categorie concernono i fattori eziologici e non gli stati patologici).
In questa revisione la nozione di malattia diviene sempre più precisa nelle parti centrali del quadro di classificazione e via via più fluida nelle zone periferiche. La maggior parte delle categorie è definita attraverso la localizzazione dei disturbi e in un caso (categoria XVI) anche facendo riferimento a un periodo della vita. Occorre sottolineare che la suddivisione del corpo umano non viene fatta secondo le regioni anatomiche, ma secondo i grandi apparati fisiologici. Le categorie anatomo-fisiologiche sono circondate dalle categorie eziologiche, definite dalla causa morbosa (germi e parassiti, alimentazione, ereditarietà, traumi, intossicazioni, fattori fisici ambientali) o dal processo patogeno (immunità, perturbazioni ormonali e metaboliche). Una categoria (tumori) è di natura anatomopatologica, definita dalla morfologia della lesione. La categoria XV pone un problema particolare per il fatto che include, oltre le complicazioni patologiche della gravidanza, del parto e del puerperio, stati perfettamente normali, che rappresentano perfino l'espressione più alta della vita dal punto di vista della specie, ma che si avvicinano alle malattie per certe caratteristiche (diminuzione della capacità lavorativa, sofferenza, fragilità biologica).
La categoria XVIII prende in considerazione degli stati limite che, pur allontanandosi dalla normalità, non sono (ancora) considerati delle vere e proprie malattie. Lo statuto particolare delle affezioni psichiche è sottolineato dal fatto che si è deciso di non attribuire più loro il nome di malattie, ma di parlare, in termini vaghi, di "disturbi della mente e del comportamento". Gli specialisti delle malattie mentali avevano fortemente criticato le versioni precedenti della Classificazione statistica internazionale e il loro disaccordo sulla definizione delle entità psichiatriche ha portato a una classificazione che vuol essere essenzialmente fenomenologica e comportamentistica. Esemplare è al riguardo la terza revisione, portata a termine nel 1980, del Diagnostic and statistical manual of mental disorders, (DSM-III-R), degli psichiatri nordamericani. Per renderla pienamente operativa, la CIM-10 è stata completata con una nomenclatura internazionale delle malattie e con una 'famiglia' delle classificazioni sanitarie connesse.
Le malattie non sono solamente eventi importanti, spesso sconvolgenti, nella vita degli individui, ma anche fenomeni sociali estremamente gravi. Da un lato fattori sociali quali la povertà, le abitudini di vita e di lavoro, i costumi e il grado d'istruzione condizionano la comparsa e la frequenza di diverse malattie, dall'altro le malattie rappresentano un peso economico notevole e hanno importanti conseguenze sociali. I legami tra le malattie e le perturbazioni della vita sociale sono particolarmente forti in occasione di guerre e carestie, avvenimenti che sono già essi stessi malattie sociali. L'impatto delle malattie sulla vita sociale è stato rilevato anzitutto in occasione delle ondate epidemiche di alcune malattie infettive acute (in particolare la peste, il tifo, il colera e l'influenza). Nell'epoca moderna, invece, c'è una maggiore coscienza dell'impatto socioeconomico e del ruolo storico nefasto delle malattie croniche endemiche, quali la malaria, la schistosomiasi e la tubercolosi.
Si stabilisce spesso un circolo vizioso tra patologia sociale e patologia biologica. La miseria facilita la diffusione e il peggioramento di numerose malattie che, a loro volta, aggravano le condizioni di vita. Alcuni fenomeni sociali e morbosi sono così intimamente legati tra loro da formare dei veri complessi di patologia sociale, per esempio la catena alcolismo-sifilide-prostituzione-criminalità (e più recentemente la catena formata da tossicodipendenza, AIDS, carcere e prostituzione omosessuale ed eterosessuale). Nessuna terapia può essere veramente efficace se si limita a un solo anello della catena. Il costo delle malattie è assai elevato, ma è difficile calcolarlo esattamente; per farlo occorre tener conto sia dei costi diretti (ossia del costo delle strutture sanitarie di base e di quello effettivo dei trattamenti), che della perdita economica determinata dall'incapacità temporanea di lavorare, dall'invalidità e dalla morte prematura. Nei Paesi a tecnologia avanzata, le spese dirette per la prevenzione e il trattamento delle malattie aumentano notevolmente, ma sono più che compensate dalla diminuzione delle perdite economiche indirette.
Lo studio quantitativo delle malattie nell'ambito di una popolazione è iniziato con le ricerche sul numero delle vittime e sulla loro ripartizione diacronica in occasione di epidemie pestilenziali. La scienza che si propone questi studi porta perciò il nome di 'epidemiologia', anche se i suoi interessi non sono più limitati alle malattie infettive che colpiscono in uno stesso luogo e in un arco di tempo relativamente breve un numero considerevole di individui. L'epidemiologia oggi studia e tenta di calcolare nel modo più preciso possibile la morbilità in tutti i suoi aspetti. Nel linguaggio scientifico la morbilità è il numero dei casi di malattia registrati durante un periodo dato (generalmente un anno) in rapporto al numero complessivo delle persone prese in esame. Data l'impossibilità di prendere in considerazione tutte le malattie che colpiscono una data popolazione, la morbilità non è mai veramente globale (come, per es., la mortalità), ma riguarda sia particolari malattie, sia categorie nosologiche o gruppi di malattie.
La morbilità è un tasso che viene espresso di solito rispetto a 1000 o 100.000 persone e può essere determinato in due modi: mettendo in rapporto con la popolazione studiata il numero complessivo degli individui che soffrono della malattia in questione (prevalenza), o solamente quello dei nuovi casi, vale a dire il numero degli individui presso i quali la malattia si è manifestata per la prima volta in un certo periodo (incidenza). Il tasso di prevalenza è di solito annuale, il tasso di incidenza lo è spesso, ma può essere calcolato anche per un periodo differente per seguire meglio le fluttuazioni di una malattia. Una malattia emergente considerata come nuova può dar luogo, come di recente l'AIDS, al calcolo del numero totale dei malati dalla comparsa dell'affezione fino al momento della presentazione dei dati (incidenza cumulativa). I diversi tassi di morbilità sono spesso analizzati in rapporto al sesso e all'età. La frequenza dei decessi attribuiti a una malattia può essere espressa rapportando il numero di questi decessi alla popolazione complessiva (mortalità specifica o parziale, ossia la parte della mortalità complessiva che dipende dalla malattia in questione) o al numero dei malati nuovi registrati nello stesso periodo (letalità). Se è relativamente facile, almeno in teoria, verificare e quantificare la mortalità, è impossibile ottenere il medesimo grado di precisione nello studio statistico della morbilità. Gli eventi morbosi sono talmente complessi e vari che non solo si prestano difficilmente a una concettualizzazione univoca e costante, ma sfuggono anche a un'indagine sociale esauriente.
Le malattie non sono stati nel senso specifico del termine, ma processi biologici, cioè eventi che si prolungano nel tempo. Ogni malato ha una sua storia: la sua malattia attraversa fasi particolari, alcune delle quali possono passare inosservate. Lo spettro della malattia (o, nel caso delle malattie infettive, il gradiente d'infezione) è la sequenza di tutti gli stati patologici che si succedono in un organismo dal momento della sua esposizione all'agente patogeno fino alla completa guarigione o alla morte. Questa sequenza comporta tre fasi (talvolta solo due): la prima è subclinica, senza segni particolari; la seconda comincia con la comparsa dei sintomi, prosegue con il loro aggravamento e si conclude con la morte o il passaggio alla terza fase; quest'ultima consiste o nella guarigione, o in un'affezione cronica a lenta evoluzione, o in un'infermità. Nell'evoluzione tipica di una malattia infettiva si possono distinguere le seguenti fasi: infezione, incubazione, prodromi (sintomi poco o affatto specifici), fase di incremento (sintomi pienamente manifesti), acme, miglioramento (sfebbramento per crisi o per lisi), convalescenza, guarigione clinica; si ha inoltre stato immunitario modificato (resistenza o sensibilità accresciuta agli stessi agenti patogeni). Il malato può morire, può sopraggiungere un'altra malattia (si parla allora di complicazioni) o può determinarsi, nella fase del miglioramento, un regresso verso disturbi più gravi (recidiva). Alcune delle fasi elencate sfuggono all'osservazione del medico e, soprattutto, sono socialmente 'invisibili'.
Una malattia, in particolare una infettiva o ereditaria, può prendere forme che la rendono, nel suo complesso, clinicamente muta, individuabile soltanto attraverso test sofisticati. Per esempio, i casi d'infezione da virus della poliomielite non comportano per la maggior parte sequenze visibili e non sono riconosciuti come tali; un buon numero di casi di calcolosi biliare è diagnosticato solamente con l'autopsia; spesso i portatori eterozigoti di anomalie genetiche non sono malati nel senso specifico del termine. La morbilità generale comprende quindi una parte invisibile (composta da stati patologici senza manifestazione clinica e stati vissuti soggettivamente come fastidiosi e anormali, ma considerati insignificanti e tali da non richiedere un intervento medico) e una parte 'medicalizzata' che comporta cure o almeno un controllo medico. Solo una parte di questi pazienti è ospedalizzata e una percentuale ancora più bassa soccombe alla malattia. Le statistiche della morbilità si basano soprattutto sulla registrazione di queste due ultime categorie, e dunque la morbilità conosciuta è soltanto la punta di un iceberg. Si dimentica troppo spesso l'impatto sociale delle malattie croniche invalidanti, sovrastimando invece quello delle malattie acute di breve durata e che comportano un rischio maggiore di morte immediata.
Le malattie non sono distribuite in modo uniforme sul globo terrestre. Importanti differenze, sia rispetto alla loro natura che alla loro frequenza, esistono già in rapporto alle zone climatiche. Per esempio, le regioni tropicali, calde e umide, presentano una tale varietà e abbondanza di malattie infettive e parassitarie che si è costituita una branca particolare della medicina, la medicina tropicale, per studiarle. I fattori geografici che regolano la distribuzione delle malattie sono anzitutto i fattori fisici (il clima, l'altitudine, le condizioni idrologiche, ecc.), la cui influenza è diretta (per es., il gran freddo o il caldo eccessivo, la mancanza d'acqua, la bassa pressione parziale di ossigeno, ecc.) e indiretta (attraverso i fattori biologici). I fattori climatici agiscono sulla salute anche nelle regioni temperate (reumatismi, meteoropatie). A questi fattori fisici si aggiungono i fattori chimici dell'ambiente (per es., la carenza di iodio, in alcune regioni montuose, provoca il gozzo endemico). Gli effetti della diversa distribuzione geografica dei fattori biologici sono ancora più netti: si tratta in primo luogo della ripartizione su scala mondiale dei microbi patogeni e dei loro vettori viventi.
Le malattie trasmesse da particolari insetti, per esempio la febbre gialla e la malattia del sonno (tripanosomiasi africana), sono circoscritte ad alcune regioni che presentano condizioni favorevoli alla vita di certi vettori; i legami tra la frequenza della malaria e le condizioni climatiche (mal d'aria) e del terreno (febbre delle paludi) sono conosciuti da molto tempo. La flora e la fauna svolgono un ruolo in quanto fonti di alimentazione e cause di intossicazioni e infezioni. La distribuzione geografica delle avitaminosi ne offre un esempio notevole. L'azione patogena dell'alimentazione dipende tuttavia in pari misura da fattori sociali e climatici. Le grandi civiltà sono state legate a tre colture fondamentali (grano, riso e mais) e ciò ha comportato importanti differenze regionali della patologia. I fattori sociali si sommano a quelli geografici primari e oggi li dominano sempre più. L'evoluzione storica della endemia del beri-beri in Asia o quella della pellagra nell'Italia del Nord mostrano che i costumi contano spesso più delle diverse condizioni geografiche. Oggi non si osserva più una patologia dei Paesi caldi opposta a una patologia dei Paesi temperati o freddi, ma essenzialmente una patologia della miseria opposta a una patologia della sovralimentazione e degli effetti perversi dello sviluppo tecnologico.
La frequenza di ciascuna malattia in una popolazione in un particolare momento dipende, oltre che da fattori endogeni ed ecologici, anche dalla frequenza di tutte le altre malattie presenti nella stessa popolazione. Questa interdipendenza delle malattie giustifica l'utilizzazione di un termine particolare, patocenosi, per indicare l'insieme degli stati patologici presenti presso una popolazione in un determinato momento (così come la biocenosi è l'insieme quantificato di tutti gli esseri viventi in un determinato territorio in un dato momento). La ripartizione complessiva delle morbilità specifiche tende verso uno stato di equilibrio che può essere descritto mediante espressioni matematiche relativamente semplici (con prevalenza della distribuzione logaritmica normale). Una caratteristica interessante della patocenosi è l'esistenza, in tutte le popolazioni studiate, di una modica quantità di malattie molto frequenti e di un numero abbastanza elevato di malattie piuttosto rare. Presso ogni popolazione esiste, in un dato momento, un piccolo gruppo di malattie dominanti.
I grandi flagelli epidemici erano la peste, il tifo esantematico, la febbre tifoidea, il vaiolo, il colera e l'influenza: sono malattie che segnano fortemente il destino di una popolazione, ma per un periodo relativamente breve. La peste è una zoonosi che colpisce in primo luogo i Roditori; il bacillo che la provoca si è diffuso tra le popolazioni umane almeno in tre occasioni: nel VI sec. (la peste detta 'di Giustiniano'), nel XIV sec. (la 'peste nera' che ha colpito il Vecchio Mondo sotto forma di epidemie ricorrenti fino al XVII sec.) e nel XIX sec. (la peste detta 'della Manciuria' che, dopo punte drammatiche in Asia, in Africa e in America Latina, si è diffusa nel XX sec. in California). Il tifo esantematico, la febbre tifoidea e la dissenteria accompagnano la miseria e soprattutto le guerre; il vaiolo, la scarlattina, la difterite, la pertosse e la meningite hanno decimato un tempo le popolazioni del mondo intero, colpendo soprattutto i bambini. Il colera, endemico in India, dall'inizio del XIX sec. compie delle incursioni epidemiche negli altri Paesi. L'influenza, infezione virale trasmessa per via aerea, torna ciclicamente con ondate pandemiche la cui gravità varia dalla terribile e mortale 'spagnola' (1918-1919) alle forme benigne a bassa mortalità.
Gli studi epidemiologici moderni mostrano che alcune malattie a evoluzione cronica, presenti in forma più stabile nelle popolazioni, superano per le loro conseguenze biologiche e socioeconomiche i danni dei grandi flagelli epidemici: sono soprattutto le forme endemiche di alcune malattie infettive e parassitarie, quali la tubercolosi, la malaria, la schistosomiasi (in Africa, in Estremo Oriente e in America Latina), la lebbra, le filariosi, le salmonellosi e le shighellosi, le malattie a trasmissione sessuale (e in particolare la sifilide), le epatiti e le infezioni da streptococchi, pneumococchi e meningococchi. I successi nella lotta contro le malattie contagiose rendono sempre più grande il tributo che la popolazione umana paga alle malattie da carenza, da intossicazione cronica e, soprattutto, da degenerazione (tumori, arteriosclerosi).
Numerose malattie cambiano nel corso del tempo, non solo rispetto alla loro frequenza, ma anche rispetto alle loro manifestazioni cliniche. Da un lato vi sono le malattie che 'muoiono', spariscono, senza una ragione conosciuta (per es., il sudore anglico), o in seguito a misure sanitarie (per es., il vaiolo), o perché ne vengono eliminate le cause fisiche e sociali (per es., lo scorbuto). Dall'altro lato vi sono malattie che 'nascono', o più esattamente emergono, vengono alla luce, o per il mutamento dei rapporti tra l'uomo e i germi (per es., l'AIDS) o per l'esposizione dell'organismo umano a fattori fisici e chimici nuovi. La sifilide offre un esempio significativo del cambiamento del quadro clinico di una malattia nel corso dei secoli. Comparsa in Europa nella sua forma venerea alla fine del XV sec., questa treponematosi è stata inizialmente una malattia acuta e ha assunto successivamente forme croniche e manifestazioni patologiche molto diverse, per scomparire infine, grazie a trattamenti efficaci, come manifestazione endemica di massa di alcune popolazioni, pur continuando a sopravvivere in forme sporadiche.
L'evoluzione della sintomatologia clinica è evidente nel campo delle malattie mentali dove intervengono stress psichici di tipo nuovo. Il vaiolo è stato eliminato da una campagna mondiale di vaccinazioni. La battaglia contro la malaria non è ugualmente riuscita, ma almeno una gran parte dell'umanità non corre più il rischio di essere colpita da questa malattia. Più precaria sembra essere la vittoria sulla tubercolosi. Altre malattie mortali dei tempi passati come la peste, il colera e la lebbra sono al momento sotto controllo, ossia circoscritte a determinate aree geografiche. Esse non minacciano più la salute degli abitanti dei Paesi sviluppati, ma questi sono ora esposti in misura maggiore ad alcuni fattori patogeni chimici (in particolare, l'inquinamento industriale e le nuove droghe), fisici (per es., le radiazioni) e sociali. Se gli abitanti dei Paesi poveri patiscono la fame e le malattie da carenza, quelli dei Paesi ricchi soffrono di malnutrizione per eccesso e di malattie da usura.
Più che attraverso i cambiamenti di frequenza e di andamento delle malattie prese isolatamente, l'evoluzione storica della morbilità si manifesta attraverso gli sconvolgimenti della patocenosi. La patocenosi di ogni popolazione tende verso uno stato di equilibrio, ma cambiamenti dei fattori esterni possono determinare delle fratture che imprimono a questa tendenza una direzione diversa. Per esempio, la malattia dominante della patocenosi greca dell'epoca classica era sicuramente la malaria e quella dell'Egitto dei faraoni la schistosomiasi, mentre le popolazioni europee del XIX sec. soffrivano principalmente di tubercolosi, malattia che, nel XX sec., lasciò a sua volta il posto al cancro e alle malattie cardiovascolari. Sconvolgimenti fondamentali della patocenosi si sono prodotti nel mondo mediterraneo durante il Neolitico, nella Grecia dell'età eroica, in epoca romana, in occasione delle grandi migrazioni del Medioevo e in seguito alla scoperta del Nuovo Mondo. Il nostro secolo ha conosciuto la più profonda frattura patocenotica di tutta la storia dell'umanità.
La maggior parte delle popolazioni umane ha subito in un passato recente una trasformazione caratteristica chiamata 'transizione epidemiologica' (o, in senso più ampio, se si considerano anche le idee e i comportamenti, 'transizione della salute'), consistente in una modificazione globale e in una diversificazione della morbilità e in una diminuzione notevole della mortalità, seguite da un abbassamento della natalità. La diminuzione della natalità interviene più tardi rispetto a quella della mortalità; ciò produce una sorta di 'esplosione demografica' che influenza profondamente, così come l'innalzamento della durata media della vita, la patocenosi delle popolazioni attuali. La transizione passa attraverso tre fasi: all'inizio dominano ancora le crisi di sussistenza e le malattie infettive ad alta mortalità; nella fase intermedia le malattie epidemiche sono progressivamente controllate e il miglioramento dell'alimentazione rafforza il vigore fisico e le resistenze immunitarie contro le malattie contagiose; nella fase finale intervengono sempre più le malattie dette 'da degenerazione' e gli stati patologici legati allo sviluppo della tecnica (per es., gli incidenti stradali, alcune malattie professionali e particolari disturbi psichici).
Nella nostra epoca il controllo della maggior parte delle malattie infettive 'classiche', la migliore alimentazione e l'allungamento della speranza di vita sono bilanciati dall'inquinamento atmosferico, dallo stress legato al progresso tecnologico e dall'aumento delle malattie cardiovascolari, dei tumori, di alcune malattie autoimmuni e delle nevrosi, così come dalla comparsa di malattie infettive, soprattutto virali, di tipo nuovo. Descrivendo in questi termini le tendenze della patocenosi delle attuali popolazioni, non bisogna tuttavia dimenticare che le carestie e le guerre, queste particolari malattie sociali, sono ancora radicate, con tutta la patologia tradizionale che le accompagna, in gran parte del mondo, in forme che le condizioni demografiche e le armi moderne rendono particolarmente atroci.
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