malattia. Storia delle idee di malattia
Da un punto di vista storico, il problema di definire che cosa è malattia è stato inquadrato utilizzando tre approcci teorico-esplicativi, che fanno riferimento ad altrettante dimensioni conoscitive: preternaturale, naturalistica e socio-culturale. La concezione preternaturale, o magico-religiosa, si è sviluppata come parte integrante della psicologia innata o di senso comune, ossia si tratta dell’atteggiamento che viene più ‘naturale’, la qual cosa spiega anche perché è ancora la più diffusa.
La religione e il pensiero magico hanno svolto una funzione adattativa nel consentire ai cacciatori-raccoglitori di far fronte alle malattie e al dolore attraverso i rituali, i tabù e le preghiere. Diversi approcci storico-antropologici e cognitivi sulle origini del senso religioso riconoscono nelle pratiche religiose strategie funzionali a ridurre i rischi di contagio e a dare un senso ai disagi e alle sofferenze causati dalle malattie. I concetti religiosi della malattia tendono a connotare ontologicamente la causa della malattia, attribuendola o a un impossessamento del corpo o all’azione di qualche entità, manovrata dalla divinità, che colpisce la persona facendola ammalare. Con la medicina ipprocratica comparve, nel contesto del pensiero occidente, un approccio naturalistico alla malattia. In modo più o meno analogo, ma attraverso strategie cognitive differenti, qualcosa di simile accadeva anche in altre tradizioni di pensiero come quelle indiana e cinese,. La malattia era pensata come un fenomeno da affrontare sul piano della spiegazione e del trattamento mediante un ragionamento volto a ricercare le cause naturali da cui derivare per via logico-razionale interventi i cui effetti possono essere controllati.
La storiografia medica ha isolato due modalità fondamentali di definire la malattia all’interno dell’approccio naturalistico: come un’entità fisica a sé stante ed estranea al corpo, o come un processo in cui non c’è soluzione di continuità tra fisiologia e patologia. Si tratta dell’approccio ontologico e di quello fisiologico (o funzionale o nominalistico) della malattia, che nella storia del pensiero medico si sono incarnati in diversi modelli eziologici, e che hanno caratterizzato il pensiero medico in successivi momenti, in modo più o meno innovativo. Le teorie naturalistiche, in partic. le definizioni ontologiche, hanno prodotto la concettualizzazioni della malattia piuttosto che della salute. Nel senso che, per la prospettiva ontologica, la salute è definibile solo negativamente: come assenza di malattia. Le concettualizzazioni funzionali, cominciando con la medicina ippocratica, hanno consentito anche una definizione positiva di salute: nel senso che se non esiste soluzione di continuità tra salute e malattia, si può essere più o meno malati, e più o meno in salute. Il naturalismo ontologico. Si possono considerare concetti tipicamente ontologici quelli che identificano la malattia come un’entità clinica, per es. nell’ambito della tradizione nosologica del Settecento, della tradizione anatomo-clinica, a partire dalla fine del Settecento; ovvero che fanno coincidere la malattia con qualche struttura estranea al corpo, come i microrganismi patogeni, nell’ambito della rivoluzione microbiologica dell’ultimo quarto dell’Ottocento, o con qualche struttura interna mutata, come i geni responsabili delle predisposizioni alle malattie, a partire dall’introduzione del concetto di malattia molecolare a metà del Novecento.
Il punto di vista fisiologico, detto anche nominalistico, considera le malattie in termini convenzionalmente stabiliti per definire deviazioni, qualitative o quantitative, dell’organismo da uno stato cosiddetto normale. Appartiene a questa tradizione il concetto ippocratico della malattia come discrasia, cioè disequilibrio tra i quattro umori fondamentali (flegma, sangue, bile gialla e bile nera), ma anche la nozione di malattia come deviazione quantitativa dalla costanza della norma fisiologica che consente la sopravvivenza dell’organismo, secondo il pensiero di C. Bernard. Con l’introduzione del concetto di omeostasi da parte di W. Cannon e gli sviluppi della comprensione biochimica della fisiologia cellulare, la malattia è stata definita, fisiopatologicamente, come una perturbazione dell’equilibrio funzionale a livello dei processi metabolici all’interno della cellula, ossia come la perdita della capacità di adeguare funzionalmente le risposte ai cambiamenti dell’ambiente esterno.
Nel 1946 l’Organizzazione mondiale della sanità metteva alla base della propria azione politica una definizione positiva di salute intesa come «uno stato di benessere fisico, psichico e sociale completo, e non semplicemente come assenza di malattia o infermità». Il concetto positivo di salute da assumere come riferimento per progettare le politiche sanitarie, fu accolto positivamente dalla maggior parte degli economisti, dei sociologi e dei teorici della politica, che iniziarono a ipotizzare, insieme agli epidemiologi, indicatori per elaborare su basi quantitative una dottrina dei determinanti economici, sociali e politici della salute.
Tenendo conto della cornice evoluzionistica all’interno della quale anche i fenomeni patologici assumono senso, le malattie sono deviazioni quantitative a livello di processi metabolici causate da alterazioni nel funzionamento di proteine che possono dipendere da variazioni genetiche o epigenetiche che hanno cause remote (storiche,) o predisponenti. Ma le cause delle malattie operano all’interno di contesti che sono sempre diversi, per cui le stesse cause danno luogo a diverse forme cliniche anche sulla base delle esperienze di vita di ciascuna persona colpita. Il che implica che il concetto della malattia deve tener conto sia dei fattori evolutivi e funzionali, sia del peso dell’esperienza individuale in un determinato contesto socio-culturale.