Malattia
Il termine malattia indica lo stato di sofferenza di un organismo, o di sue parti, prodotto da una causa che lo danneggia, e il complesso dei fenomeni reattivi che ne derivano. In senso più strettamente fisiopatologico, per malattia si intende un'alterazione concernente quei processi fisico-chimici, detti omeostatici, attraverso i quali l'organismo mantiene la propria individualità in equilibrio dinamico con l'ambiente, e il cui fattore scatenante può essere occasionale, ambientale o interno all'organismo, nonché di natura fisica, chimica, organica, ereditaria oppure psicosomatica.
Definizioni e classificazioni
di Giovanni Federspil, Roberto Vettor
l. Evoluzione storica del concetto di malattia
Per quanto l'idea di malattia sembri intuitiva a molti, una sua definizione scientifica è uno degli obiettivi più difficili dell'intera medicina. Infatti uno sguardo anche superficiale alla storia del pensiero medico mostra chiaramente come nei secoli si siano avvicendate numerose definizioni tra loro contrastanti. Mentre per Ippocrate (ca. 460-370 a.C.) la malattia era sostanzialmente la rottura di un equilibrio preesistente tra i diversi umori dell'organismo, per Asclepiade (ca. 130-40 a.C.), che concepiva il corpo formato di corpuscoli che si muovono disordinatamente attraversando piccolissimi pori e canali, la malattia consisteva, invece, nella chiusura di tali strutture e nella conseguente difficoltà o impossibilità del movimento dei corpuscoli. Galeno (ca. 130-200 d.C.) condivideva la tesi ippocratica, ma a questa aggiunse l'idea di un'alterazione delle funzioni dell'organismo. La concezione moderna della malattia ha iniziato a configurarsi nel 18° secolo, quando G.B. Morgagni dimostrò che alla base degli stati morbosi esistevano evidenti e specifiche alterazioni degli organi interni. Questa acquisizione diede vita a una nuova disciplina, ossia l'anatomia patologica, sulla quale è fondata ancora oggi la maggior parte della medicina clinica. Nel 19° secolo, la concezione di Morgagni conobbe ulteriori approfondimenti con la localizzazione delle alterazioni costituenti le malattie in strutture sempre più minute dell'organismo. X. Bichat sostenne la presenza delle modificazioni patologiche nei tessuti e, poco più tardi, R. Virchow avanzò l'idea, che avrebbe poi finito per imporsi in tutta la comunità medico-scientifica, secondo la quale, essendo la cellula la sede fondamentale di tutti i processi morbosi, alla base di ogni malattia vi doveva essere l'alterazione di uno specifico stipite cellulare. Tali concezioni sulla natura delle malattie ponevano tutte l'accento sulle strutture organiche che si modificano durante i processi morbosi e provocano i fenomeni clinicamente constatabili, ma non prendevano in considerazione le possibili cause di malattia esterne all'organismo. Nella seconda metà dell'Ottocento, la scoperta dei microbi portò a una radicale modificazione delle concezioni della patologia. Con l'opera di L. Pasteur, R. Koch e di altri microbiologi si affermò la convinzione secondo la quale la maggior parte delle malattie dipenderebbe da fenomeni di parassitismo e dall'azione distruttiva o tossica esercitata su cellule e tessuti dai germi penetrati nell'organismo. Anche questa concezione, tuttavia, concentrando l'attenzione dei clinici e degli sperimentatori sulle cause esterne di malattia, appariva unilaterale e trascurava un altro elemento fondamentale dei fenomeni patologici: l'alterazione della funzionalità dell'organismo.
La concezione fisiopatologica della malattia fu sviluppata dal fisiologo francese C. Bernard, il quale dimostrò come il carattere essenziale dello stato di malattia fosse rappresentato da una modificazione della funzione di una parte del corpo, che compromette, in misura maggiore o minore, la funzionalità dell'intero organismo. Inoltre, secondo la concezione fisiopatologica della malattia, i fenomeni che costituiscono gli specifici processi morbosi non sono diversi da quelli normali, ma rappresentano soltanto fenomeni fisiologici esagerati nella loro intensità. Intorno a questi concetti fondamentali si è andata sviluppando, nel corso del 20° secolo, l'idea di malattia. Essendo contrapposta a quella di salute, essa non può prescindere da un'analisi sia pure approssimativa dell'idea correlata. Apparentemente, gli esseri viventi si trovano in una condizione nella quale i processi vitali si svolgono senza particolari difficoltà e la morfologia interna ed esterna delle varie parti del corpo non va incontro a sensibili modificazioni, al di fuori di quelle, inevitabili, prodotte dal trascorrere del tempo. In realtà, invece, questa costanza di strutture e funzioni dell'organismo è soltanto apparente, poiché le varie parti del corpo si modificano di continuo in risposta alle variazioni dell'ambiente esterno. Tutti gli esseri viventi si trovano inseriti in un determinato ambiente e sono esposti costantemente alle innumerevoli influenze - fisiche, chimiche e biologiche - che questo esercita. Poiché, però, l'ambiente esterno è in costante mutamento, le strutture e le funzioni organiche cambiano incessantemente per mantenere quanto più possibile stabile l'ambiente interno dell'organismo. Questa capacità complessiva degli esseri viventi di modificare l'intensità dei propri caratteri in risposta ai mutamenti ambientali prende il nome di capacità di adattamento e rappresenta una proprietà fondamentale della materia vivente, che permette agli organismi di prolungare la propria vita e di riprodursi. Lo stato di salute dipende dalla capacità adattativa e la salute si identifica con la relativa costanza della struttura e della funzionalità delle diverse parti organiche e dell'organismo nel suo complesso. Ovviamente, queste possibilità di adattamento degli esseri viventi non sono inesauribili; oltre certi limiti, infatti, l'organismo non può modificare l'intensità dei processi che si oppongono alle variazioni ambientali; è costretto dunque ad alterare il proprio ambiente interno e la propria struttura morfofunzionale, entrando così in stato di malattia. Quest'ultima, pertanto, rappresenta sostanzialmente un'alterazione rilevante e relativamente stabile nel tempo dell'equilibrio strutturale e funzionale di un essere vivente.
Tutto quanto si è detto finora può fornire un'idea relativamente chiara della condizione di salute e di quella di malattia, ma dice molto poco sui limiti che separano ciò che è morboso da ciò che non lo è e sul modo di riconoscere le condizioni patologiche da quelle non patologiche. I fenomeni biologici sono soggetti a un'ampia variabilità individuale e, nella maggior parte dei casi, in una popolazione omogenea i valori di una variabile (per es., concentrazione di una sostanza chimica nel sangue, statura, pressione arteriosa, dimensioni dei globuli rossi ecc.) assumono una distribuzione gaussiana (detta anche normale o a campana). La normalità di un carattere non può quindi essere identificata con un singolo valore, ma va concepita come un intervallo entro il quale viene compresa una rilevante percentuale degli individui appartenenti alla popolazione che è definita sana. Sia nella ricerca biomedica sia nella pratica clinica, l'intervallo solitamente usato per stabilire i valori normali di un parametro in una certa popolazione è quello entro il quale cade il 95% dei soggetti scelti come campione di quella popolazione. In base a questo criterio, non normali e quindi patologici sarebbero i valori che si collocano al di fuori di quelli estremi relativi a tale percentuale. Questo concetto di 'stato normale' trova il suo fondamento nell'analisi statistica dei fenomeni e si basa su criteri quantitativi rigorosi e controllabili. Tuttavia, questo modo di identificare i valori normali non è esente da alcune difficoltà di rilievo: esso, infatti, è in buona misura arbitrario e inoltre non classifica in modo adeguato un numero più o meno grande di individui ('falsi positivi' e 'falsi negativi'). La concezione statistica della normalità e della malattia, dunque, in alcuni casi comprende tra quelli morbosi fenomeni che la grandissima maggioranza dei patologi e dei clinici non sarebbe disposta a definire tali (per es., la bradicardia degli atleti) e classifica tra quelli normali fenomeni che appaiono alla maggioranza degli studiosi come patologici (per es., l'ipertrigliceridemia così frequente nelle grandi metropoli americane). Al fine precipuo di evitare queste difficoltà, è stata proposta una diversa idea di salute e di malattia, secondo la quale la condizione di malattia non si identifica con lo scostamento di un certo parametro dal valore medio di una popolazione, quanto piuttosto dal suo allontanamento da un valore ideale o desiderabile, specifico per ciascun individuo, costituente il vero punto di riferimento per il biologo e per il clinico.
2.
Un'importante questione teorica concernente le malattie riguarda la loro natura e la loro stessa esistenza. Dal momento che le malattie non sono oggetti o cose, sorge la questione se di esse si possa parlare allo stesso modo con il quale, appunto, si parla di cose facilmente osservabili. Mentre per i patologi d'impostazione morfologica le varie malattie si identificano con le diverse alterazioni strutturali e vengono quindi distinte in base a tali alterazioni, studiosi di diversa impostazione hanno messo in discussione l'idea stessa che le malattie esistano come tali e che rappresentino entità reali, identificabili e distinte. Così, per es., da un lato Bernard ha sostenuto che per il medico sperimentatore non vi è la malattia in senso stretto e che esistono solo 'funzioni alterate'. Da un altro lato, invece, molti clinici hanno affermato con altrettanta decisione che non esistono le malattie, ma solamente i malati. Il problema è stato analizzato da molti autori secondo prospettive diverse. Oggi la malattia è concepita come un processo in cui la realizzazione della finalità essenziale all'organismo viene nel suo complesso ostacolata e impedita (Federspil-Sicolo-Vettor 1995). Le varie malattie, poi, non possono più essere identificate direttamente: esse infatti non sono enti osservabili, ma costrutti teorici, appartenenti al grande edificio concettuale della conoscenza scientifica e, come tali, soggette allo stesso processo continuo di mutamento e di perfezionamento cui vanno incontro tutti gli altri concetti scientifici. Le malattie, però, non esistono solo come costrutti teorici, ma fanno anche parte del mondo fisico reale come sequenze relativamente fisse e costanti di eventi. Queste ultime costituiscono delle alterazioni rispetto al comune evolversi dei fenomeni vitali e riducono, in misura più o meno rilevante, la capacità di un organismo di sopravvivere e di perpetuare la specie.
3.
Secondo molti patologi, nell'ambito dei fenomeni morbosi si possono distinguere gli 'stati' dai 'processi' patologici. Mentre i primi rappresentano condizioni relativamente stabili nel tempo, e spesso definitive, nelle quali l'organismo non mette in atto fenomeni atti ad arginare le conseguenze del fenomeno primitivo, i secondi sarebbero caratterizzati da una serie di eventi legati da relazioni causali e dalla presenza di fenomeni reattivi che contrastano le cause del fenomeno morboso iniziale e compensano le alterazioni morbose. Esempi di uno stato patologico possono essere l'albinismo, la polidattilia, la mancanza congenita di un arto o la presenza di un duplice picco di albumina nel siero; di contro, l'esempio di un processo patologico è rappresentato da un'infezione tubercolare polmonare. Per quanto questa distinzione sia applicabile a molte situazioni morbose, essa appare piuttosto scolastica e non si adatta bene a diverse condizioni patologiche permanenti: basti pensare, per es., alla mancanza congenita della tiroide o alla lussazione congenita dell'anca, nelle quali si sviluppano rispettivamente fenomeni di compenso endocrino o alterazioni morfologiche e funzionali reattive alla modificazione scheletrica iniziale. I fenomeni morbosi vengono raggruppati dai patologi in alcune categorie molto generali, le quali permettono di studiarne i meccanismi genetici fondamentali e le relative conseguenze. Per quanto una categorizzazione completa e soddisfacente non sia ancora possibile, le principali classi dei fenomeni patologici comprendono i fenomeni flogistici, quelli carenziali, le alterazioni genetiche e quelle congenite, i fenomeni immunopatologici, le alterazioni della regolazione neuroendocrina, i fenomeni neoplastici, le alterazioni degenerative e i fenomeni di apoptosi (morte cellulare programmata).
4.
L'idea che le varie condizioni morbose in cui i singoli organismi vengono a trovarsi costituiscano fenomeni sostanzialmente distinti e unitari, raggruppabili in un certo numero di processi ben definiti - chiamati malattie - è sorta in un periodo relativamente recente della storia del pensiero medico. Il primo studioso che ha concepito con chiarezza l'idea che i fenomeni morbosi non sono costituiti da un unico disordine generale assumente varie forme, ma da entità radicalmente diverse l'una dall'altra, e che queste entità, per essere adeguatamente comprese, dovevano prima essere separate tra loro, è stato il clinico inglese del 17° secolo Th. Sydenham. Le prime classificazioni delle malattie furono elaborate nel secolo successivo sull'esempio della classificazione delle piante e degli animali proposta da Linneo. Questi ordinamenti delle malattie adottavano i criteri classificatori dei botanici e degli zoologi e identificavano i processi morbosi sulla base dei loro caratteri clinici. Solo dopo la pubblicazione del De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis (1761) di Morgagni si cominciò a classificare le malattie prevalentemente in relazione alla sede e al tipo delle alterazioni anatomiche che provocano i sintomi rilevabili al letto del malato. Successivamente, nel 19° secolo, dopo la scoperta del ruolo dei microbi nel determinismo dei fenomeni morbosi, la nosologia subì un'altra rilevante modificazione e venne creato un nuovo capitolo dedicato alle malattie infettive. Nel Novecento si sono aggiunti altri capitoli dedicati alle malattie endocrine, alle carenze vitaminiche, alle malattie genetiche, a quelle metaboliche e all'immunopatolgia. Attualmente, il campo della patologia è estremamente diversificato e la classificazione delle malattie si basa contemporaneamente su più criteri diversi, i principali dei quali sono il criterio morfologico, quello microbiologico, quello fisiopatologico, quello eziologico e quello clinico. Relativamente alla distribuzione, si constata che le malattie colpiscono gli uomini con frequenza diversa e pertanto sono presenti in una certa popolazione in percentuali molto differenti. Alcuni processi morbosi colpiscono un gran numero di individui, mentre altri si manifestano assai di rado. Inoltre, popolazioni molto diverse o che vivono in luoghi distanti presentano differenti distribuzioni. La variabilità della frequenza con cui le malattie compaiono dipende da numerosi fattori, alcuni ben noti e altri del tutto sconosciuti. Tra i più noti si possono ricordare l'assetto genetico della popolazione, la sua alimentazione, le abitudini voluttuarie, l'attività fisica, la frequenza e il tipo dei contatti che intercorrono tra i membri appartenenti alla popolazione e tra quella popolazione e le altre con le quali essa ha rapporti, l'ambiente naturale in cui gli individui vivono, le terapie disponibili e così via. La frequenza con la quale le malattie si presentano varia anche nel tempo. L'analisi storica ha mostrato che, in una stessa popolazione, la frequenza dei processi morbosi è sensibilmente differente in periodi diversi, e che, mentre alcuni si presentano sempre più raramente, altri si manifestano sempre più spesso. Tale fenomeno fa sì che la distribuzione delle varie malattie muti con il trascorrere del tempo, analogamente a quanto avviene per le specie animali che vivono in un determinato territorio. Se, però, si esamina la situazione in un arco temporale di pochi anni, si può constatare che esiste un rapporto costante tra le frequenze delle forme morbose rilevabili in una certa regione. In una popolazione esiste, quindi, un'interdipendenza tra tutte le malattie presenti e si stabilisce un equilibrio tra le differenti forme morbose. A questo equilibrio, caratterizzato anche dal fatto che la distribuzione delle frequenze morbose presenta particolari caratteristiche matematiche, M. Grmek ha dato il nome di 'patocenosi', denotando più precisamente con questo termine "l'insieme qualitativamente e quantitativamente definito degli stati patologici presenti in una certa popolazione e in un certo momento" (Grmek 1998, p. 22). In ogni patocenosi storicamente determinata esistono sempre poche malattie molto frequenti e moltissime malattie rare; tra queste diverse forme morbose si instaura un'azione reciproca, per cui la frequenza di una malattia influisce su quella di tutte le altre e l'insieme dei processi patologici tende, quando le condizioni ecologiche sono stabili, verso una condizione ideale di equilibrio.
di Maria Teresa Tenconi
l. Studi epidemiologici
Fin dall'antichità le malattie sono state associate alla povertà: dati storici che descrivono le grandi epidemie indicano un eccesso di mortalità tra gli indigenti, imputabile principalmente a carenze alimentari, alla mancanza di assistenza sanitaria e alla promiscuità abitativa. Anche le patologie croniche connesse all'attività lavorativa sono state descritte in passato come l'effetto sfavorevole della rivoluzione industriale sulla salute umana. Ancora oggi, tra la popolazione che vive nelle periferie suburbane delle grandi città o tra le comunità di emigrati dal Terzo mondo, si assiste a una maggiore morbosità per patologie infettive, come le infezioni respiratorie da virus sinciziale nei neonati o la tubercolosi tra gli adulti. Le condizioni socioeconomiche sono, quindi, in grado di influenzare lo stato di salute e di proteggere o, al contrario, di predisporre alla malattia. La civilizzazione e il progresso, che hanno contraddistinto i paesi a economia avanzata nella seconda metà del Novecento, i cambiamenti demografici, le diverse modalità di erogazione dell'assistenza sanitaria hanno influito in maniera determinante sui rapporti tra condizioni socioeconomiche e salute. Ciò nonostante, la distribuzione della mortalità e dell'occorrenza di numerose patologie infettive e cronico-degenerative appare ancora disomogenea tra le diverse classi sociali e tale da indicare l'esistenza di diseguaglianze. Per valutare le condizioni socioeconomiche a livello individuale gli indicatori più comunemente utilizzati sono la scolarità, il reddito e la professione. Questi fattori sono tra loro strettamente connessi e pertanto anche uno solo di essi, rilevato nel corso di indagini epidemiologiche, può essere utile al fine di individuare la classe sociale di appartenenza. Il livello di istruzione è stato l'indicatore maggiormente utilizzato nel corso degli studi epidemiologici in quanto è facilmente e universalmente rilevabile, sia nei soggetti che lavorano sia in quelli inattivi; inoltre, generalmente, non varia durante il corso della vita adulta e permette confronti fra diverse situazioni nazionali in relazione agli anni di formazione scolastica ricevuta. Poiché esso è acquisito prevalentemente nell'età giovanile, è improbabile che sia influenzato da un cattivo stato di salute, come si verifica per l'occupazione: solamente in pochi casi malattie contratte durante l'infanzia possono incidere sulla qualità o sulla quantità dell'istruzione ricevuta. Il reddito è un indice importante di status perché favorisce l'accesso a beni e servizi, incluse l'istruzione e le cure mediche. Tuttavia, dal momento che è abbastanza difficile raccogliere informazioni su questo fattore, data la reticenza a rispondere alle relative domande, spesso si preferisce utilizzare altri indicatori, quali la proprietà della casa di abitazione, il numero di automobili in rapporto al numero dei componenti della famiglia ecc. Nelle società moderne la professione (o il tipo di lavoro) mostra una buona associazione con le condizioni socioeconomiche e viene pertanto usata negli studi epidemiologici. Nella fase di raccolta dei dati, tuttavia, si incontrano alcune difficoltà, in quanto si dovrebbe ricostruire per ogni individuo la storia occupazionale, visto che la professione attuale potrebbe essere stata scelta in conseguenza di uno stato di salute precario. Alcuni ricercatori considerano, oltre al tipo di professione, la posizione nel lavoro e il livello di responsabilità decisionale. In particolare, R. Karasek e collaboratori (1981) indicano che una classificazione dell'attività lavorativa in base alla discrezionalità decisionale e al carico di lavoro permette una migliore caratterizzazione del livello occupazionale in relazione alle condizioni economiche. In Inghilterra le condizioni socioeconomiche sono state definite in cinque livelli in rapporto al tipo di occupazione (1: liberi professionisti; 2: professionisti dipendenti; 3: lavoratori parzialmente specializzati, con lavoro manuale e non; 4: operai parzialmente specializzati; 5: operai non specializzati). All'interno di grandi unità lavorative, prevalentemente rappresentate dal pubblico impiego, è in uso anche la classificazione dei lavoratori in 'colletti bianchi' (dirigenti, impiegati) e 'colletti blu' (operai, manovali): questa distinzione risulta utile sia per la classificazione del tipo di lavoro sia per distinguere l'appartenenza al livello socioeconomico. La disoccupazione è un indice correlato sia con un cattivo stato di salute sia con situazioni economiche precarie. L'analisi dei dati epidemiologici per livello occupazionale deve quindi considerare a parte la condizione di disoccupato. La residenza in ambiente rurale o urbano è stata indicata tra le variabili da tenere in considerazione per i rapporti che può avere con la salute, ma attualmente non sembra una discriminante nella valutazione del livello socioeconomico. Piuttosto il possesso di un'abitazione in alcune aree residenziali cittadine può costituire un'informazione utile.
2.
Numerosi studi hanno evidenziato l'associazione tra gli indicatori di livello socioeconomico e mortalità per tutte le cause. Negli Stati Uniti, l'analisi dei certificati di morte di un vasto numero di soggetti di ambo i sessi, in età compresa tra i 45 e i 74 anni, ha dimostrato per i maschi un rischio di morte doppio per i detentori di un basso livello di istruzione (1-7 anni) rispetto a quelli che avevano frequentato la scuola per 12 anni o più (Feldman et al. 1989). Anche in Italia (Pagnanelli 1990) la mortalità per tutte le cause tra gli adulti appare inversamente associata all'istruzione (più alto è il grado d'istruzione, più bassa risulta la mortalità), con gradienti più elevati nei maschi rispetto alle femmine. Sempre nel nostro paese, secondo una rilevazione ISTAT relativa agli anni Ottanta del 20° secolo, la mortalità nel primo anno di vita (mortalità infantile) è inversamente proporzionale al grado di istruzione della madre sia al Sud sia al Centro sia al Nord. Anche il reddito appare inversamente associato alla mortalità per tutte le cause: l'elaborazione di dati raccolti negli Stati Uniti (Haan-Kaplan-Syme 1989) ha dimostrato che un reddito inadeguato comporta un rischio più che doppio di morte e che le differenze nella mortalità riscontrate tra le varie categorie di reddito si mantengono nel tempo. Una mortalità significativamente più elevata è stata rilevata costantemente come caratteristica delle condizioni professionali più umili. In Inghilterra, dove le osservazioni sulla mortalità in relazione al livello occupazionale risalgono a più di un secolo fa, è stato riscontrato che, per la popolazione in età adulta, la mortalità aumenta gradualmente con il decrescere del livello sociale. Osservazioni effettuate in paesi come la Finlandia, la Nuova Zelanda, la Svezia, la Norvegia hanno evidenziato la medesima associazione. In Italia uno studio epidemiologico (studio RIFLE, Risk factors and life expectancy; Tenconi et al. 1992), effettuato su circa 25.000 soggetti (uomini adulti) appartenenti a diverse località della penisola, ha dimostrato che il rischio di morte per tutte le cause dopo un follow-up medio di 7 anni è significativamente più elevato tra i salariati che tra i professionisti. Non è stata notata invece alcuna differenza significativa nella sopravvivenza tra soggetti di diverso livello di istruzione, contrariamente a quanto già descritto in precedenza. Lo stesso studio ha anche dimostrato che, tenendo in debito conto livello di istruzione e condizione professionale, la mortalità è notevolmente più elevata tra i residenti in ambiente urbano rispetto a quelli che vivono in ambiente rurale. Un rapporto su mortalità e occupazione in Italia effettuato nei primi anni Settanta (Costa et al. 1997) ha analizzato le cause di morte in diversi settori produttivi. In generale si può notare che i lavori più umili e pesanti sono caratterizzati da un maggior rischio di morte: in particolare, alcune categorie di lavoratori non specializzati (portieri, guardiani) presentano una mortalità più elevata perché per tali lavori vengono reclutate persone già malate o invalide, mentre per altre categorie (facchini, manovali) è maggiore l'esposizione al fumo, all'alcol e allo stress. Ovviamente esistono anche differenze di mortalità per cause specifiche, imputabili all'esposizione professionale (per es., l'eccesso di mortalità per carcinoma del polmone, stomaco, rene, pancreas e apparato emolinfopoietico per i lavoratori del settore chimico).
3.
a) Tumori maligni. Una recente rassegna della IARC (International agency for the research on cancer) ha esaminato i dati di mortalità e di incidenza per tumori maligni, in relazione alla classe sociale di appartenenza, in 35 popolazioni di 21 paesi del mondo, per il periodo 1966-94. La mortalità per tutti i tumori mostra, in generale, un'associazione negativa con la classe sociale, accertata sulla base degli indicatori già descritti: ciò significa che la mortalità per tumori maligni è maggiore nei soggetti di bassa estrazione sociale. Fanno eccezione alcune popolazioni (gli uomini californiani, ungheresi, giapponesi e norvegesi, e le donne ungheresi, italiane, giapponesi e norvegesi), nelle quali non sono state evidenziate differenze di mortalità per tumori in relazione alla classe sociale. Per quanto riguarda la morbosità misurata in termini di incidenza (nuovi casi di malattia), l'associazione appare meno stretta e in un solo paese, la Colombia, si ammalano di tumore con maggior frequenza i soggetti più agiati. Tra i principali tipi di tumori maligni, quelli significativamente legati in modo negativo al livello socioeconomico sono i tumori della bocca, della laringe, della faringe e dell'esofago, dello stomaco, del polmone, della cervice uterina. Tra quelli associati positivamente (cioè più frequenti nelle classi sociali più agiate) figurano, invece, il carcinoma del colon, il melanoma e, tra le donne, il carcinoma della mammella e il carcinoma ovarico. Non è stata dimostrata alcuna associazione per il carcinoma del pancreas, dei tessuti connettivi, del corpo dell'utero, della prostata, del testicolo, della vescica, del rene, del cervello e per i tumori del tessuto emolinfopoietico (linfomi, leucemie). In Inghilterra è stato possibile osservare che le differenze di mortalità riscontrate nelle diverse classi sociali si sono accentuate nel tempo per i tumori, in generale, nei maschi e, in particolare, per quelli del polmone, della laringe e dello stomaco. Tra le donne lo stesso fenomeno è stato rilevato per i tumori in generale e, in particolare, per il tumore della cervice uterina. Alcune differenze si sono invece attenuate e riguardano la mortalità per tumore del colon e per il tumore della mammella. Le disuguaglianze, per alcuni tipi di tumore, sono parzialmente spiegate da una minore sopravvivenza riscontrata nei soggetti di classe sociale meno agiata: le maggiori differenze in termini di sopravvivenza sono infatti state descritte per i tumori che hanno una prognosi migliore, come quelli della mammella, del corpo dell'utero, della vescica e del colon. La minor sopravvivenza può essere dovuta sia al fatto che tali tumori vengono diagnosticati più precocemente nei soggetti più agiati e acculturati che si sottopongono periodicamente a test di screening, sia a caratteristiche biologiche (stato di nutrizione, condizioni immunologiche) o comportamentali che possono influire sulla sopravvivenza. Abitudini di vita associate a un maggior rischio di mortalità per tumori maligni (fumo, alcol) sono più spesso riscontrabili tra gli appartenenti alle classi sociali meno agiate, che condividono anche esposizioni professionali più rischiose (minatori, lavoratori del settore siderurgico, muratori ecc.). Una ricerca svolta nei Paesi Bassi ha tuttavia riscontrato che, a parità di abitudine al fumo e di esposizione professionale, il rischio di ammalarsi di carcinoma del polmone è significativamente maggiore nei soggetti a più basso livello di istruzione (Van Loon 1997).
b) Malattie cardiovascolari. Considerata la loro diffusione, le malattie cardiovascolari sono state tra le più studiate dal punto di vista epidemiologico. In particolare le cardiopatie ischemiche, che costituiscono attualmente la più frequente causa di morte nel mondo, sono state messe in relazione alle condizioni sociali nei paesi sviluppati, dove queste patologie sono di gran lunga più diffuse. Alla vigilia degli anni Sessanta del 20° secolo, la mortalità per cardiopatie a patogenesi aterosclerotica negli Stati Uniti (Lilienfeld 1956) non presentava differenze in base all'estrazione sociale. Anche l'incidenza di queste patologie appariva complessivamente uniforme: tuttavia, in relazione all'età, tra i meno giovani i tassi risultavano più alti per i più ricchi, mentre l'opposto si verificava tra i più giovani (Cassel et al. 1971). Più recentemente, la maggioranza degli studi epidemiologici ha indicato l'esistenza di un'associazione inversa tra grado di istruzione e/o livello occupazionale e mortalità nei paesi socioeconomicamente avanzati, mentre nei paesi in via di sviluppo non vi sono differenze evidenti. Tale relazione è in parte spiegata dalla maggior prevalenza di elevati valori di pressione arteriosa, di obesi e di fumatori nelle classi sociali meno agiate. Poiché l'associazione sembra persistere anche dopo la correzione di questi fattori, si ipotizza che l'esposizione occupazionale e ambientale, un minor sostegno sociale e una limitata accessibilità alle strutture sanitarie possano essere condizioni aggiuntive in grado di spiegare la maggiore mortalità per queste malattie nelle classi sociali più povere. Uno studio recente condotto in Inghilterra (Marmot et al. 1997) su 7372 impiegati e operai dei servizi pubblici sottolinea il ruolo protettivo del sostegno sociale e della discrezionalità decisionale in ambito lavorativo. In Italia un'indagine ISTAT (anni 1981-85), relativa alla popolazione adulta di Torino, ha rilevato una mortalità quasi doppia nei soggetti a più basso livello di istruzione rispetto ai laureati. Al contrario lo studio RIFLE, sopra citato, non ha evidenziato differenze significative tra sopravvivenza e grado di istruzione: anzi, le categorie di soggetti meno istruiti apparirebbero più protette. Considerando il livello occupazionale, tra i salariati il rischio relativo è maggiore rispetto ai dirigenti e ai professionisti, anche dopo aver 'aggiustato' per i principali fattori di rischio biocomportamentali (fumo, colesterolemia e pressione arteriosa). L'eccesso di mortalità nella categoria dei pensionati compresi nello studio può essere dovuta al fatto che i soggetti in età lavorativa possono chiedere il prepensionamento per motivi di salute; pertanto la mortalità più elevata rispetto alle altre categorie potrebbe essere dovuta a una preselezione degli appartenenti a tale categoria. Anche per le cardiopatie ischemiche la residenza in ambiente urbano, a parità di altre condizioni, conferisce un rischio di morte significativamente maggiore. Da analisi condotte è risultato che gli abitanti delle zone rurali fumano meno e consumano più vino: è possibile che l'effetto protettivo del vino come pure una maggiore attività fisica contribuiscano a determinare la differenza osservata.
c) Diabete mellito. Anche il diabete mellito (v. diabete) appare associato alle condizioni socioeconomiche della popolazione. La diffusione nel mondo di questo tipo di diabete è assai differente da paese a paese: il diabete insulinodipendente (o di tipo 1) è più frequente nei paesi socioeconomicamente avanzati, ma non appare associato alla classe sociale dei soggetti colpiti. Il diabete non insulinodipendente (o di tipo 2), cioè la forma più frequente che insorge normalmente nell'età matura, ha una prevalenza molto elevata in alcuni gruppi etnici (indiani pima, abitanti delle isole Nauru) e in popolazioni o gruppi che hanno rapidamente modificato il loro stile di vita, passando dalle condizioni caratteristiche degli ambienti rurali o montani a quelle più evolute delle aree urbanizzate. Gli studi sulle popolazioni emigrate (Ekoe 1988) evidenziano tali differenze, le quali indicano come, a parità di origine etnica e di ereditarietà, gli stili di vita associati alle condizioni sociali giochino un ruolo molto importante nell'insorgenza della malattia. In Inghilterra la mortalità per diabete nella prima metà del Novecento era maggiormente frequente nelle classi sociali più agiate, verosimilmente in ragione di una dieta abbondante e raffinata e di una vita più sedentaria. Un'inversione di tendenza è stata notata successivamente, quando il benessere economico del secondo dopoguerra ha modificato sia la disponibilità alimentare sia i consumi della popolazione e la meccanizzazione dei processi lavorativi ha ridotto considerevolmente l'attività fisica anche tra i lavoratori manuali. Dal momento che la mortalità nel diabete risulta fortemente associata alle malattie cardiovascolari che complicano il decorso della malattia, il riscontro di una maggior prevalenza di fattori di rischio per tali patologie nei soggetti di condizioni meno agiate può spiegare in parte la più elevata mortalità nelle classi più povere. In Italia non sono disponibili dati sufficienti per istituire una relazione tra diabete e condizione sociale: tuttavia una maggior frequenza di sovrappeso tra i soggetti a più basso livello di istruzione, in particolare tra le donne (Tenconi et al. 1992), induce a supporre che il diabete non insulinodipendente sia più frequente nelle classi meno agiate, essendo il sovrappeso uno dei principali fattori di rischio per questa malattia.
d) Broncopneumopatie croniche. Una maggiore mortalità per bronchite cronica è stata osservata tra i soggetti meno istruiti e/o con reddito più basso. I risultati di numerose ricerche effettuate soprattutto in Inghilterra, dove la patologia è assai diffusa, concordano nel confermare tale associazione negativa. Tra i fattori di rischio per queste patologie il fumo di tabacco gioca un ruolo preponderante e, come s'è già detto, l'abitudine al fumo si riscontra maggiormente tra i soggetti di condizioni meno agiate e, per quanto riguarda l'Italia, nelle regioni meridionali, dove appunto la mortalità per bronchite cronica è più alta. Altri fattori che possono spiegare tale relazione sono le condizioni abitative (mancanza di riscaldamento, utilizzo di stufe a legna o a carbone), l'esposizione professionale a polveri minerali o vegetali (minatori, muratori, contadini), le frequenti infezioni respiratorie durante l'infanzia e un ricorso meno frequente alle cure mediche.
4.
Le diseguaglianze dello stato di salute e in genere la maggiore mortalità nelle classi sociali più disagiate sono da tempo oggetto di discussione, specialmente nei paesi dove le ricerche epidemiologiche hanno constatato le maggiori differenze. Alcune ipotesi esplicative del fenomeno sono già state avanzate in quanto esposto. Per riassumere può essere utile riferirsi al modello elaborato da B. Starfield (1984), che evidenzia i fattori in gioco nell'interazione tra condizioni sociali e malattie. Da questo schema appare evidente come l'appartenenza a uno status sociale disagiato implichi, da un lato, un'esposizione maggiore a fattori di rischio ambientali (chimici, fisici, infettivi), dall'altro la carenza di assistenza sanitaria in ragione del minor utilizzo dei servizi addetti alla prevenzione e alla cura. La mancanza di sostegno sociale, legata all'emarginazione delle famiglie o dei soggetti più poveri, comporta inoltre un maggior grado di stress psicologico, che favorisce l'acquisizione di stili di vita a rischio (abuso di alcol, fumo, alimentazione incongrua), capaci di indurre alterazioni dello stato di salute e una probabilità più elevata di contrarre malattie. Lo studio dei fattori sociali, considerati non modificabili dalla prevenzione, è particolarmente utile per evidenziare gruppi e comunità a rischio in cui l'assistenza sociosanitaria e gli interventi preventivi nei confronti dei fattori di rischio modificabili devono essere particolarmente intensificati.
di Alice Bellagamba
l. Significati locali e interpretazioni antropologiche
Fra gli huli della Nuova Guinea la malattia è pensata come uno stadio del morire. Anche se la situazione è di fatto revocabile, già in essa si manifestano i segni della transizione verso un'altra forma di esistenza (Frankel 1986). Fra i lugbara dell'Uganda alcuni malesseri sono letti come il risultato del comportamento scorretto che un individuo ha adottato nei confronti degli anziani del proprio gruppo familiare: questi ultimi, adirati, attirano su di lui la maledizione degli spiriti ancestrali (Middleton 1960). Nel Bocage francese quando disgrazie, sventure e malattie colpiscono ripetutamente un uomo, la sua famiglia e le sue proprietà, esse vengono interpretate e curate non in quanto eventi singoli ma come se fossero un unico disturbo, risultato di un attacco di stregoneria (Favret-Saada 1989). Fra i wolof del Senegal, alcune manifestazioni di sintomi sono considerate il segno dell'elezione a un destino particolare che avvia la persona a diventare soggetto attivo di un culto di possessione (Zémpleni 1974). Ad accomunare esperienze così disparate vi è un nocciolo duro di disagio biologico: corpi che soffrono. Questo, tuttavia, non basta a spiegare la pluralità di interpretazioni e di pratiche da cui è circondata la malattia nelle diverse epoche storiche e in differenti contesti etnografici. Siamo in presenza di un fenomeno che travalica i confini della patologia organica e ha delle implicazioni sociali, politiche e ideologiche (Zémpleni 1988). Nel corso degli anni, quel settore di studi chiamato da alcuni antropologia medica e da altri, più semplicemente, antropologia della malattia ha promosso una riflessione sullo stretto legame che unisce corpi e cultura, interpretazione degli stati di malessere e terapia, sottolineando le discrepanze esistenti fra le tassonomie diagnostiche della biomedicina e l'esperienza che gli ammalati, e le persone che li circondano, hanno di una particolare situazione di disagio (Lock 1993). Gli autori anglosassoni hanno anche introdotto una serie di distinzioni terminologiche intraducibili in italiano. Parlano di disease quando intendono riferirsi all'interpretazione biomedica di un disturbo, di illness per illustrare il modo in cui l'individuo ne è divenuto consapevole, di sickness per denotare il processo sociale di riconoscimento dei sintomi, attraverso cui un comportamento preoccupante e alcuni segni biologici assumono una rilevanza socialmente significativa (Young 1982). Utilizzano anche il concetto di reti semantiche della malattia (semantic illness networks) per indicare quelle 'ragnatele' di parole, metafore, immagini che si condensano intorno agli stati di malessere del corpo, intendendo così sottolineare la pluralità di interpretazioni che li circondano, l'incertezza dei percorsi terapeutici e la molteplicità dei punti di vista su quella che ne può essere l'origine (Good 1992).
2.
L'antropologo britannico W.H. Rivers e il tedesco E. Ackerknecht sono stati tra i primi a formulare, in modo compiuto e relativamente sistematico, l'idea che esista un legame tra l'interpretazione dei disturbi corporei e il più vasto contesto sociale e culturale in cui sono inseriti. Nei loro scritti hanno contestato l'idea che la medicina primitiva sia solo un insieme di pratiche e di credenze sconnesse e irrazionali, promuovendo invece un approccio teso a illustrarne l'intrinseca originalità. Pratiche e credenze mediche diverse da quelle occidentali non vanno, sostiene Rivers (1924), liquidate con leggerezza, quasi fossero un insieme di comportamenti bizzarri, poiché, anche se di primo acchito possono apparire erronee, sono comunque fondate su un insieme logico e coerente di credenze: esse si ispirano infatti a una precisa teoria delle cause che provocano l'insorgere della malattia. Tre sono, dal suo punto di vista, i modi principali con cui una cultura si confronta con il mondo, a seconda che prevalga una visione magica, religiosa oppure naturalistica. A queste tre visioni del mondo corrispondono altrettanti tipi di agenti causali: quelli umani, quelli spirituali e quelli naturali. Nelle culture primitive le istituzioni sociali che rientrano sotto le etichette di medicina, magia e religione, sono tra loro così intrinsecamente correlate da rendere difficile, se non impossibile, considerarle come fenomeni distinti. Una volta che si sia tenuto conto di tale presupposto, si resterà stupiti dal cristallino concatenarsi dei diversi elementi: il metodo del trattamento consegue logicamente dalle idee sull'eziologia e sulla patologia della malattia, e poiché in queste società il mondo viene interpretato in termini magico-religiosi, la malattia non può che essere pensata come un'aggressione legata all'azione malevola di terzi, l'arte della diagnosi consistere nello scoprire l'agente umano responsabile del disturbo e il fulcro del trattamento essere costituito da misure che obblighino il fattucchiere a porre fine a quelle azioni, tramite le quali si ritiene metta in atto i suoi propositi malefici (Rivers 1924, pp. 10-11).
In una serie di articoli pubblicati tra il 1942 e il 1947 Ackerknecht (1971) invita a considerare la medicina primitiva una funzione più della cultura che dei fenomeni biologici, una rappresentazione collettiva parte di un sistema magico attraverso cui viene attribuito un significato all'Universo, governata da una logica diversa da quella scientifica, dove tutto deve avere un significato e un'origine e ogni evento essere ricompreso, spiegato e interpretato in virtù dei presupposti di base. Il carattere inglobante dell'interpretazione magica emerge anche in quei contesti dove un osservatore occidentale non esiterebbe a riconoscere trattamenti e pratiche più strettamente empiriche. Già Rivers aveva sostenuto che, qualora esistano elementi di questo tipo, la loro presenza non pone in discussione il carattere prevalentemente magico dell'insieme. "Poiché certi episodi di malattia non sono collegati ad agenti umani o soprannaturali, non dobbiamo concludere che rientrino nell'insieme di quelle che chiamiamo cause naturali" (Rivers 1924, p. 41). Sono soltanto disturbi talmente quotidiani da non essere ricompresi nel dominio magico-religioso, così come i raffreddori restano al di fuori degli scopi della medicina occidentale. Il discorso di Ackerknecht (1971, p. 146) è ancora più categorico; egli riteneva queste situazioni, curate grazie ad atti pressoché automatici stabiliti dalla tradizione, a tal punto poco importanti da non meritare una teoria. Definire questi atti come razionali o empirici equivarrebbe a imporre ai dati contenuti che non hanno. La storia, a suo avviso, dimostra che la magia non ha mai dato luogo che a una pseudoscienza, sebbene siano presenti in essa degli elementi i quali, a rigore, potrebbero essere definiti razionali. Concludendo, si può sostenere che sia Rivers sia Ackerknecht hanno posto l'accento su quei tratti che rendono le medicine primitive esotiche agli occhi dell'osservatore occidentale. Il significato sociale della malattia emerge solo nelle culture altre, studiate dall'antropologia, mentre in quella d'appartenenza dell'osservatore è necessario tenere conto dello sviluppo storico di un pensiero, la biomedicina, che con il tempo si è andata rivelando sempre più aderente a un ordine di naturalità. Rivers, riconosciuta la presenza di un orizzonte discorsivo magico-religioso, lo contrappose alle concezioni naturalistiche della malattia sviluppatesi in Occidente, dove essa viene considerata un fenomeno naturale che non nulla ha a che vedere con la volontà di agenti umani o sovrumani: il discorso sulle patologie corporee è definitivamente scisso dalle influenze della magia e della religione. Se allora la medicina primitiva deve essere considerata con un metodo sociologico che riveli le sue connessioni con altri domini del sociale, quella occidentale deve invece essere oggetto di un'indagine, di tipo storico che espliciti il graduale costituirsi "di una definizione della malattia come fenomeno naturale, soggetto a leggi naturali, da trattarsi come trattiamo altri settori della natura" (Rivers 1924, pp. 1-2).
Ackerknecht, a sua volta, evidenzia la funzione punitiva svolta dalla malattia e dalla disgrazia nelle società di tipo primitivo: interpretate come sanzioni sovrannaturali che colpiscono chi non rispetti le norme del vivere comune, esse contribuiscono al perpetuarsi della società e al ristabilimento dell'ordine e possono essere comprese soltanto tenendo conto delle relazioni che legano gli individui all'organizzazione sociale e politica. Al contrario, nell'ottica occidentale la malattia rappresenta, in ultima analisi, un fatto biologico e individuale, senza alcun legame con l'etica. A chi mai verrebbe in mente di associare l'appendicite con "il proprio comportamento nei confronti dei vicini, della suocera o degli spiriti ancestrali?". Questa è invece, secondo Ackerknecht (1971, p. 20), l'operazione mentale preferita del primitivo che vede nella malattia l'espressione di tensioni sociali: spiriti, stregoni e tabu non sono altro che il linguaggio attraverso il quale la società proietta sui corpi individuali i propri conflitti e le proprie incertezze. Un problema biologico finisce per essere avviluppato in un discorso magico-religioso e la malattia e il curatore svolgono un ruolo sociale per noi incredibibile, "ruolo che nella nostra società è competenza dei giudici e dei preti, dei soldati e dei poliziotti" (p. 20).
3.
L'analisi antropologica, pur riconoscendo l'eredità di questi autori, ha ormai preso le distanze dalle loro argomentazioni. M. Foucault (1963), investigando il costituirsi del discorso medico occidentale, ne ha dimostrato la dipendenza non solo da un insieme di segni, ma anche da una serie di pratiche che danno sistematicamente forma agli oggetti ‒ in questo caso il corpo ‒ di cui si interessano. Le sue osservazioni hanno profondamente influenzato il modo in cui le categorie biomediche di malattia, paziente, esame clinico sono state considerate dagli antropologi (Lock 1993). Su di un piano più generale, A. Young (1976) ha formulato una teoria antropologica della malattia, proponendo di considerare l'ammalato come un soggetto che abbandona o minaccia di abbandonare le proprie responsabilità quotidiane. La vita, tuttavia, nella comunità cui egli appartiene, deve continuare a svolgersi secondo il proprio ritmo. Da qui la necessità di legittimare il comportamento deviante dell'ammalato, utilizzando tecniche, istituzioni e concetti che ne giustifichino la posizione. Diagnosi e terapia sono allora processi sociali attraverso cui segni corporei inizialmente preoccupanti ricevono un significato culturalmente riconoscibile, trasferendo la responsabilità dell'accaduto dall'ammalato a qualche agente indipendente dalla sua volontà, sia esso esterno al corpo (una strega o magari un virus) o interno (un processo patologico), oppure si presenti come una combinazione di entrambe le possibilità.
In effetti, si può dire che non esista una malattia che sia solo dell'individuo: avvenimento personale per eccellenza - "ognuno di noi la sperimenta e può morirne" (Le sense du mal 1983, trad. it., p. 34) -, il suo comparire costituisce di per sé una selezione - "Perché io?" - di cui bisogna in qualche modo rendere conto. Tutto è in essa sociale, perché eminentemente sociali sono gli strumenti che permettono di individuarla, di affrontarla e di guarirla. L'immagine delle transizioni di stato, mediata dalla chimica, rende conto del processo che porta al suo riconoscimento: come un liquido si solidifica solamente a una temperatura specifica, così i disturbi del corpo, circostanze personali e opache, assumono un loro significato soltanto in virtù di soglie e di punti di passaggio determinati culturalmente. Da avvenimenti inquietanti si trasformano in fenomeni socialmente riconosciuti, tappa iniziale di un itinerario diagnostico o terapeutico (Le sense du mal 1983).
Vi è ancora un altro aspetto che merita di essere sottolineato. Gli episodi di malattia non solo hanno una dimensione pratico-strumentale, legata alla necessità di modificare o addirittura prevenire una situazione di sofferenza e di disagio, ma anche un significato rituale. Situati in uno spazio e in un tempo precisi, sono distinti chiaramente dalla vita quotidiana; densi di simboli espressivi, contengono l'attesa di un climax (Young 1976). Il carattere spesso implicito di quell'universo simbolico e cognitivo che permette di interpretare la malattia trova una manifestazione nella lettura delle circostanze e delle situazioni individuali, imponendo un ordine alla natura, di per sé priva di significato, degli avvenimenti fenomenici: di fronte al dubbio e all'angoscia che ne accompagnano l'evoluzione, i processi di cura rinforzano la validità dei significati delle forme dominanti di conoscenza nel contesto più ampio della cultura. Costituiscono un'occasione per esplicitare, drammaticamente, quelli che sono i presupposti di un dato ordine sociale e culturale, trasformandosi in un veicolo utile a comunicare sia un mutamento nelle relazioni che uniscono le persone, sia le eventuali contraddizioni che le caratterizzano. Il modo in cui la malattia viene rappresentata può infine essere una mistificazione di sottese relazioni di potere. Nelle baraccopoli del Brasile nordorientale i sintomi che derivano dalla povertà e dalla mancanza di cibo sono spesso medicalizzati e curati come se affliggessero soltanto dei corpi individuali, ma la tubercolosi, la diarrea, gli esaurimenti nervosi sono in realtà il prodotto di un progressivo impoverimento, un disturbo sociale e collettivo che né le istituzioni governative né coloro che vi sono coinvolti vogliono affrontare direttamente (Scheper-Hughes 1992). Nello stesso contesto le epidemie di nervos, una malattia i cui sintomi sono l'inappetenza, la debolezza e le crisi nervose, che ripetutamente affliggono i tagliatori di canna da zucchero insieme ad altre categorie di soggetti socialmente svantaggiati, possono essere lette su una molteplicità di livelli diversi: sono una metafora utilizzata per parlare della fame e della malnutrizione infantile, considerati i pericoli di una discussione aperta di quelle che possono essere le cause di questi fenomeni; sono il modo in cui gli uomini rifiutano un lavoro debilitante; sono la risposta delle donne a uno schock violento (per es. un'irruzione della polizia), a una tragedia (come può essere la morte di un bimbo piccolo) e al continuo stato di emergenza della loro vita quotidiana.
Concludendo, si può insomma dire che i corpi esprimono significati anche senza la mediazione di parole: vivono la cultura prima ancora di descriverla o di renderla oggetto di riflessione. I malesseri che li affliggono hanno una dimensione implicita di performance culturale: possono essere interpretati in modo da convalidare e riprodurre una certa visione del sociale, ma costituiscono anche un'espressione di disagio, il contesto in cui vengono implicitamente formulati conflitti e tensioni tra gruppi e soggetti diversi (Frankenberg 1986). Di fatto, né la malattia né l'esperienza della sofferenza possono essere comprese da un'unica prospettiva analitica. Da qui la necessità di tenere conto di una pluralità di voci, ricostruendo la storia dei discorsi che ne rendono possibile l'interpretazione e valutando, al tempo stesso, le loro implicazioni sul piano sociale e politico (Good 1992).
4.
L'esito di un episodio di malattia è sempre piuttosto incerto. Raccontato a posteriori - la narrazione costituisce uno strumento d'indagine privilegiato per avvicinarsi alla percezione che sia l'ammalato sia le persone che lo circondano hanno di una data situazione di disagio - assume le sembianze di un itinerario, di un faticoso movimento tra opportunità terapeutiche, anche apertamente in contrasto, di una storia fatta di tentativi e progressivi fallimenti, di interpretazioni prima accettate e in seguito rifiutate (Augé 1985). Disturbi che provochino un simile tipo di reazione esistono anche in quei contesti dove maggiore è lo sviluppo delle istituzioni sanitarie e delle tecnologie biomediche. La ricerca affannosa di una soluzione è ancora più evidente laddove il livello dell'assistenza sanitaria sia scarso o quasi del tutto assente. Il tema dell'incertezza, sostiene S. Reynolds-Whyte (1997), riveste un ruolo di primo piano nel modo in cui i nyole, una popolazione bantu dell'Uganda dedita all'agricoltura, esperiscono e concettualizzano la malattia. Il territorio in cui vivono è contraddistinto ancora oggi da servizi sanitari spesso inefficienti e inadeguati alle esigenze della popolazione: gli ospedali governativi sono scarsamente attrezzati; i salari degli operatori sanitari troppo bassi; il numero di persone che fanno ricorso a questo tipo di cure troppo alto. Nel frattempo, nuove malattie, come l'AIDS, hanno fatto la loro comparsa, rendendo ancora più difficile la situazione. Non c'è da stupirsi che in un simile contesto i curatori locali rivestano un ruolo estremamente significativo nei processi di cura: divinatori, erboristi, specialisti nel trattamento della stregoneria costituiscono altrettante figure impegnate nell'interpretazione e nella risoluzione dei disturbi del corpo. I nyole hanno una visione ben precisa di quella che è una vita realizzata e completa. Il modo migliore per avvicinarvisi è ascoltare le preghiere improvvisate che rivolgono agli antenati; qui compaiono una serie di temi ricorrenti che uniti tra loro creano un'immagine della buona sorte. Essere benedetti dagli antenati significa ottenere la prosperità, un solido legame matrimoniale, i figli, il benessere, la tranquillità intesa come libertà dalle preoccupazioni materiali e spirituali. Quando i desideri falliscono, nasce la sofferenza; si tratta allora di affrontarla, non tanto nell'ottica di renderla sopportabile, quanto con il preciso proposito di modificare la situazione, e gli 'idiomi' che permettono di interpretarla individuano al tempo stesso un corso terapeutico. Il primo di questi idiomi, sintomatico, ricorre a preparati farmaceutici, locali o d'importazione; il secondo è esplicativo, invoca cioè il ruolo che agenti specifici, maledizioni umane, stregoni, fantasmi degli antenati, spiriti, rivestono nel provocare la malattia. Esso induce a riflettere sulle reti di relazioni che circondano l'ammalato; mette in discussione i legami esistenti e le identità, creando una sorta di preocuppazione per gli altri da cui la persona dipende e con cui è, bene o male, in rapporto; instaura una connessione tra la sofferenza e le sue cause sociali. Proprio per questa sua dimensione, così coinvolgente, non è il preferito: quando insorge un disturbo il primo tipo di trattamento è sempre sintomatico, si tratti di acquistare o procurarsi farmaci di tipo occidentale, di utilizzare erbe o di ricorrere all'aiuto degli specialisti sanitari. Solo in un secondo tempo, quando ne è comprovata la tenacia, i nyole cominciano a valutare la possibilità di un'altra interpretazione.
Un terzo tipo di discorso, ovvero quello relativo alla responsabilità individuale, tuttora poco condiviso, è promosso dai medici e dalle istituzioni sanitarie missionarie, soprattutto per quanto riguarda i casi di AIDS. Ciascun idioma genera forme di incertezza, dubbi e una sorta di insoddisfazione che porta a valutare le opportunità offerte dagli altri. La presenza di alternative rende possibile mettere in atto un piano d'azione e vedere se funziona: di fatto i nyole, mai del tutto convinti del corso terapeutico che hanno deciso di intraprendere, ne parlano sempre in termini ipotetici: "Forse gli spiriti hanno toccato il bambino!" oppure "Se davvero questo è l'agente responsabile!". I curatori stessi, per quanto posti sotto pressione e in un certo senso tentati dalle speranze e dai desideri dei loro clienti, non hanno alcuna illusione di successo. I 'forse' e i 'può essere' danno spazio all'incertezza, ma evitano anche di affrontare in modo diretto una situazione spiacevole. Enfatizzare i desideri, i dubbi e le speranze che caratterizzano l'intero processo, sostiene Reynolds-Whyte, è un modo per avvicinarsi a quello che è il punto di vista dei soggetti coinvolti. Siamo costretti a prestare attenzione alla modalità in cui delle persone reali affrontano la sventura che irrompe nelle loro vite. In virtù della posizione che occupano in un dato universo sociale e morale, esse hanno una certa familiarità con un insieme di idee sulla natura dei disturbi corporei, ne conoscono il significato e le implicazioni: tentano, sperano, riconsiderano le loro ipotesi e provano ancora un'altra soluzione. Talvolta raggiungono un certo grado di tranquillità, senza però avere mai la certezza assoluta che la scelta fatta sia la migliore. I nyole di per sé non sono conservatori, ma l'uso dei metodi di cura locali è una necessità in una situazione, come la loro, priva di un'adeguata assistenza sanitaria. L'esempio dimostra la necessità di porre le esperienze soggettive in tensione con il loro contesto culturale e sociale. Le discipline biomediche rappresentano la malattia come qualcosa di localizzato nel corpo, in un dato processo fisiologico o in un contesto anatomico particolare. Ma essa è anche parte della storicità umana, del vivere di individui, famiglie e comunità. Sottolinearne la natura sociale non esclude l'importanza della dimensione biologica. Impone, invece, di valutare il ruolo rivestito da una molteplicità di fattori, dalla biologia alle pratiche sociali, che tra loro interagiscono, nel trasformare i disturbi del corpo in un oggetto sociale. Significa insistere sulla pluralità di discorsi e di griglie esplicative, ciascuna con un suo punto di vista, una sua spiegazione e una sua soluzione terapeutica, chiamate in causa dal loro insorgere (Good 1992). È allora necessario individuare strategie di rappresentazione e descrizione della realtà etnografica che non reifichino il discorso sulla malattia, trasformandolo in un'astratta questione cognitiva, ma che sottolineino invece la sua dimensione di esperienza intersoggettiva, interrogandosi sul rapporto che si instaura tra percezioni individuali e ordine culturale, tra la natura socialmente condivisa del pensiero e la realtà, sempre personale, della sofferenza individuale. Ponendo in luce la natura stratificata e inegualmente distribuita, attraverso le diverse categorie sociali, dei saperi che permettono di interpretare e curare i disturbi del corpo, concentrandosi sulle situazioni che condizionano il riprodursi e il costituirsi della conoscenza medica e su quei fattori che determinano a priori chi e come possa contrarre un certo tipo di disturbo e possa, in certe circostanze, ricorrere a una data opzione terapeutica, l'analisi antropologica suggerisce infine di non dimenticare le ineguali relazioni di potere che circondano i discorsi sulla malattia.
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