Genetiche, malattie
Le malattie genetiche sono quelle condizioni morbose che hanno come causa predominante, o come concausa necessaria, una modificazione (mutazione) di sequenza del DNA, che coinvolge uno o più geni presenti nel genoma (v. gene).
1.
Le malattie genetiche sono generalmente distinte in tre principali categorie: cromosomiche, monogeniche o mendeliane, e poligeniche-multifattoriali.
Le malattie cromosomiche (v. cromosoma) sono dovute alla mancanza o all'eccesso di uno o più cromosomi (alterazioni numeriche) o a loro alterazioni strutturali, che producono un difetto o un eccesso di una grande quantità di DNA e influenzano molti geni contemporaneamente. Queste anomalie si rilevano con l'analisi al microscopio ottico dei cromosomi in metafase (cariotipo costituzionale), dopo specifiche colorazioni. Le anomalie cromosomiche costituzionali sono frequentemente indotte da nuove mutazioni: in questo caso, entrambi i genitori dell'individuo affetto, come per es. nella sindrome di Down, sono sani (fenotipo normale) e non presentano alterazioni cromosomiche numeriche o strutturali all'analisi del cariotipo. In talune anomalie cromosomiche, invece, uno dei genitori dell'individuo affetto è portatore di una traslocazione bilanciata, un'anomalia che non comporta alcun effetto sul fenotipo, ma si associa a un elevato rischio di avere figli con una traslocazione sbilanciata, che può essere causa di una patologia anche grave. Le malattie monogeniche o mendeliane sono così definite in quanto, essendo determinate dalla presenza di un singolo gene mutato, la loro trasmissione ereditaria segue le leggi di Mendel. In questo contesto, sono suddivise in malattie (o disordini) a eredità autosomica dominante, autosomica recessiva e legata al cromosoma X. Tra le monogeniche sono comprese anche le malattie mitocondriali, nelle quali l'alterazione è a carico del DNA contenuto nei mitocondri, e quelle dovute a mutazioni instabili.
Le malattie poligeniche-multifattoriali sono imputabili all'azione combinata di più geni mutati e fattori ambientali; tendono a presentarsi in più soggetti di una stessa famiglia (aggregazione familiare), ma la loro modalità di trasmissione è complessa e non rientra negli schemi semplici di quella mendeliana. Benché sia utile considerare queste categorie, la classificazione proposta rappresenta una notevole semplificazione di quanto si osserva nell'esperienza clinica. Minute alterazioni strutturali di un cromosoma, quali per es. le microdelezioni cromosomiche (che comportano la perdita di più geni contigui localizzati sul segmento del cromosoma alterato), possono dar luogo contemporaneamente a malattie monogeniche multiple.
È anche opportuno sottolineare che non solo nel caso delle malattie poligeniche-multifattoriali, ma anche in quelle monogeniche a trasmissione mendeliana, i fattori ambientali incidono in varia misura sull'espressione clinica e l'evoluzione della condizione morbosa o, talvolta, ne rappresentano una concausa determinante. Infine, anche per quanto concerne le malattie monogeniche, l'espressione clinica (fenotipo clinico) è influenzata dalla presenza di altri geni.
2.
Le malattie genetiche rappresentano per l'uomo un importante gruppo di patologie. Esse possono manifestarsi sul piano clinico in tutte le fasi della vita: alla nascita (per es., anomalie cromosomiche, malformazioni congenite, alterazioni scheletriche gravi), nell'infanzia (per es., fibrosi cistica, talassemie, malattie lisosomiali, ritardo mentale, distrofia muscolare di Duchenne), nell'adolescenza o anche nella vita adulta (per es., tumori ereditari, malattie neuromuscolari degenerative ecc.); in quest'ultimo caso si parla di malattie genetiche a comparsa tardiva.
Si stima che nei paesi industrializzati il 6-8% dei ricoveri in reparti pediatrici sia dovuto a malattie monogeniche, lo 0,4-2,5% ad anomalie cromosomiche, e circa il 30% a diverse patologie nelle quali la componente genetica riveste un ruolo di rilievo. Lo studio sistematico del cariotipo in nati vivi non preselezionati indica che la frequenza delle varie anomalie cromosomiche (alterazioni di numero e di struttura) sia presente in circa 1/200 (0,5%) individui. La frequenza di malattie monogeniche o mendeliane nei nati vivi si stima intorno a 1/100 individui; più difficile è definire quella delle malattie poligeniche-multifattoriali nei nati vivi, fatta eccezione per le malformazioni congenite (v. oltre): si ritiene che nell'adulto esse contribuiscano per larga parte (più del 60%) alle malattie comunemente osservabili nei soggetti che vivono nei paesi industrializzati. È verosimile ritenere che, aumentando le conoscenze sul genoma umano e attraverso l'identificazione di nuovi geni e delle relative mutazioni, si riuscirà a definire l'origine genetica precisa di malattie che sono ritenute al momento a causa ignota o di quelle che sono ancora considerate prive di una sicura base genetica.
3.
Nell'uomo sono note più di 5000 condizioni morbose classificate come malattie a trasmissione mendeliana. Esse, come si è detto in precedenza, sono suddivise in tre principali tipi, a seconda della loro modalità di trasmissione: autosomiche dominanti, autosomiche recessive, legate al cromosoma X. Il loro elenco viene periodicamente aggiornato. Ognuna delle circa 5000 malattie monogeniche classificate, singolarmente considerata, è relativamente rara; come gruppo tuttavia esse si presentano in circa 10/1000 dei nati vivi e sono così distribuite: 7/1000 sono autosomiche dominanti; 2,5/1000 autosomiche recessive; 0,5/1000 sono malattie legate al cromosoma X. A queste condizioni morbose vanno poi aggiunte le malattie monogeniche mitocondriali, che hanno una specifica modalità di trasmissione.
a) Trasmissione autosomica dominante. Per malattia autosomica dominante (o, più correttamente, malattia a fenotipo autosomico dominante) s'intende una condizione morbosa che si manifesta nell'individuo eterozigote, cioè un individuo che possiede su uno degli autosomi, cioè dei cromosomi non sessuali, sia il gene normale (ossia la variante, o allele, normale) sia la sua controparte mutata (allele mutato). In questo caso, che è il più frequente nella pratica clinica, un individuo eterozigote evidenzia una sintomatologia più o meno rilevante che ne permette l'identificazione rispetto agli individui sani. Quando, invece, un individuo è omozigote per una malattia autosomica dominante (cioè possiede entrambi gli alleli mutati), il quadro clinico è generalmente più grave; in talune situazioni la condizione di omozigosi può essere letale, cioè portare a morte sia prima della nascita sia nei primi mesi di vita extrauterina. Data la differente gravità della patologia nell'eterozigote rispetto all'omozigote, per le malattie dominanti si parla di effetto di dosaggio genico (per indicare che la presenza di due alleli mutati amplifica la gravità clinica rispetto a quanto si può osservare nel caso di un singolo allele mutato).
Per quanto riguarda i meccanismi di trasmissione, va detto che un individuo affetto, se è eterozigote, ha sicuramente un genitore portatore della mutazione, e quindi affetto, e uno sano, mentre se è omozigote ha entrambi i genitori affetti. I due sessi possono essere ugualmente colpiti e la trasmissione della malattia in genere è indipendente dal sesso del genitore affetto che l'ha trasmessa. Un individuo affetto ed eterozigote ha, a sua volta, il 50% di probabilità di trasmettere la malattia alla discendenza. Due genitori entrambi affetti ed eterozigoti hanno il 25% di probabilità di avere un figlio/a omozigote. I figli sani di un individuo affetto ovviamente non trasmettono la malattia alla discendenza. L'analisi di un albero genealogico per una malattia dominante dimostra generalmente la presenza di una trasmissione verticale attraverso le varie generazioni, cioè la malattia è presente in almeno un individuo per generazione. Questo si verifica ovviamente nel caso in cui la malattia non comprometta le capacità riproduttive degli individui affetti. In alcuni casi, le malattie autosomiche dominanti presentano una trasmissione anomala; possono infatti essere presenti condizioni paradossali che sembrano contraddire i criteri generali sopra elencati.
Le cause più frequenti di questa trasmissione anomala possono essere identificate o nella comparsa di nuove mutazioni, o, ancora, nell'assenza di penetranza e nella variabilità di espressione clinica. Il primo fenomeno si verifica quando un individuo affetto da una malattia dominante ha genitori normali e non presenta nella storia familiare altri parenti affetti dalla stessa malattia (casi sporadici). In queste evenienze, dopo aver accertato la paternità, si assume che sia intervenuta una nuova mutazione in un gene a livello dei gameti (spermatozoo o cellula uovo) di uno dei genitori. Poiché la comparsa di una nuova mutazione è un evento raro, la probabilità che la malattia si ripresenti in fratelli o sorelle di un individuo affetto con genitori normali è molto bassa rispetto al 50% atteso nella classica trasmissione autosomica dominante; naturalmente gli individui nei quali la malattia è insorta a causa di una nuova mutazione avranno il 50% di probabilità di trasmetterla alla discendenza. Alcune osservazioni suggeriscono che in talune malattie dominanti le nuove mutazioni avvengono più frequentemente nella linea germinale maschile nel caso di padri relativamente anziani (effetto dell'età paterna).
Riferito alle malattie in esame, il termine penetranza indica la proporzione di individui eterozigoti (per una mutazione che è causa di malattia) che presentano le manifestazioni cliniche della condizione morbosa. Si parla di assenza di penetranza quando un individuo, pur possedendo un allele mutato (ricevuto da un genitore affetto) non manifesta in alcun modo la malattia, ma è in grado di trasmetterla alla discendenza e quindi può avere figli affetti.
Dal punto di vista della pratica clinica e della consulenza genetica, questo problema si pone allorché il figlio sano di un genitore affetto da una malattia dominante desidera conoscere se avrà o meno la possibilità di trasmetterla alla prole. La risposta a questa domanda richiede il ricorso a indagini genetico-molecolari del gene responsabile della malattia, possibili solo se questo è stato clonato. La penetranza varia a seconda del tipo di malattia genetica. Per quanto riguarda la terza fonte di atipicità, va detto che in molti casi l'espressione clinica della malattia, cioè il fenotipo clinico, presenta notevoli variazioni interindividuali, sia tra gli individui affetti di uno stesso nucleo familiare sia tra gli individui affetti appartenenti a famiglie diverse. Questa variabilità si riferisce al tipo, alla severità e all'età di comparsa dei sintomi, così come all'evoluzione della malattia ed è particolarmente pronunciata in quelle dominanti a comparsa tardiva. I fattori che si ritiene rivestano un ruolo importante riguardo alla variabilità di espressione sono svariati.
In primo luogo, è determinante il tipo di mutazione che è presente nell'allele mutato. Alcune mutazioni, infatti, possono annullare completamente l'attività biologica della proteina codificata dall'allele mutato (alleli mutati nulli), mentre altre possono ridurre l'attività della proteina, consentendone un'attività biologica residua (alleli difettivi). Nel caso di alleli nulli, ci si attende un effetto biologico più severo e una sintomatologia clinica più marcata rispetto al caso di alleli difettivi. Numerose malattie dominanti sono caratterizzate da una notevole eterogeneità allelica (molte mutazioni dello stesso gene responsabili della malattia), che rappresenta probabilmente il fattore più importante alla base della diversa espressione fenotipica osservabile in individui affetti appartenenti a differenti famiglie. La variabilità di espressione clinica può anche essere dovuta all'effetto di altri geni del genoma dell'individuo, diversi da quello responsabile della malattia. L'interazione tra il gene mutato e altri geni può aggravare o mitigare l'espressione clinica. Varie condizioni ambientali, quali dieta, stile di vita (per es., consumo di alcol, fumo, attività fisica ecc.), impiego di farmaci, esposizione a inquinanti ambientali ecc., possono modificare la gravità dei sintomi e l'evoluzione di una malattia monogenica dominante.
b) Trasmissione autosomica recessiva. Per malattia autosomica recessiva si intende una condizione morbosa che si manifesta solo nell'individuo omozigote. L'individuo eterozigote, infatti, non presenta alcuna sintomatologia ed è indistinguibile da un individuo che possiede entrambi gli alleli normali. Gli individui eterozigoti per malattie recessive vengono anche chiamati portatori sani, proprio per indicare il fatto che essi non presentano alcuna sintomatologia clinica pur avendo un allele mutato che può essere trasmesso alla discendenza. Essi possono mostrare, in particolari circostanze ambientali, alcune lievi manifestazioni cliniche. In numerose malattie monogeniche recessive i portatori sani possono essere identificati per mezzo di indagini di laboratorio (per es. portatori sani per mutazioni del gene della β-globina nel caso di β-talassemia). I genitori degli individui affetti sono fenotipicamente normali, pur essendo ovviamente portatori sani. Due genitori portatori sani hanno il 25% di probabilità di avere un figlio affetto.
Dal punto di vista clinico, le malattie recessive mostrano una minore variabilità clinica rispetto a quelle dominanti. Anche in questo caso la variabilità di espressione clinica, se presente, è imputabile agli stessi fattori elencati per le malattie autosomiche dominanti. È naturale assumere che anche per le malattie recessive vi siano nuove mutazioni; queste tuttavia non sono facili da evidenziare: non si manifestano, infatti, a livello clinico poiché generano un soggetto eterozigote (per definizione asintomatico).
La frequenza varia a seconda della popolazione considerata: per es., l'anemia falciforme è molto più diffusa nelle popolazioni africane rispetto alle popolazioni europee; analogamente, la β-talassemia è più ricorrente nelle popolazioni del bacino del Mediterraneo in confronto a quelle dell'Europa del centro e del Nord. L'elevata incidenza di queste malattie in alcune aree geografiche specifiche sembra essere imputabile a qualche vantaggio selettivo dell'eterozigote (portatore sano) rispetto all'individuo normale non portatore dell'allele mutato. Nel caso della β-talassemia e dell'anemia falciforme il vantaggio selettivo potrebbe essere attribuito alla malaria: il parassita malarico troverebbe nell'individuo eterozigote per queste malattie dell'emoglobina una condizione sfavorevole al suo ciclo replicativo, rispetto a quella presente in un individuo normale. Alcune malattie recessive, rare nella gran parte delle popolazioni, sono invece relativamente frequenti in altre; talvolta sono esclusive di alcune popolazioni (per es., finlandesi, francocanadesi, ebrei-askenaziti, afrikaaners del Sudafrica ecc.). Si tratta di gruppi etnici che per ragioni storiche, geografiche, politiche o religiose, sono stati biologicamente isolati e hanno avuto un alto livello di endogamia: alcuni alleli mutati recessivi si sono, quindi, mantenuti a elevata frequenza nella popolazione per mancanza di un contributo genetico esogeno proveniente dal contatto con altre popolazioni.
Un aspetto peculiare delle malattie a trasmissione autosomica recessiva è rappresentato dalla consanguineità. Per definizione, una malattia recessiva si verifica in quanto un allele mutato di uno specifico gene è ricevuto da entrambi i genitori (eterozigoti portatori sani). Quando nella popolazione la frequenza degli eterozigoti è molto bassa, la malattia è rara in quanto la probabilità di unione di due individui eterozigoti è molto bassa: in questa situazione la comparsa di un individuo affetto (omozigote) è spesso la conseguenza dell'unione di due individui eterozigoti tra loro consanguinei, che hanno ereditato un allele mutato da un antenato comune, portatore sano. In genere, si può affermare che quanto più raro è un allele mutato recessivo in una popolazione, tanto più è frequente che un individuo affetto (omozigote) provenga da due genitori consanguinei.
c) Trasmissione di malattie legate al cromosoma X. I geni responsabili di queste condizioni morbose si trovano sul cromosoma X; per tale ragione la gravità delle manifestazioni cliniche e il rischio di ricorrenza sono differenti nei due sessi. Dal momento che nel sesso femminile sono presenti due cromosomi X, le donne possono essere eterozigoti od omozigoti per un gene mutato; in questo caso la malattia può essere dominante o recessiva, analogamente a quanto osservato per la trasmissione autosomica. Nei maschi, la presenza di un gene mutato sul cromosoma X si esprimerà sempre a livello fenotipico come malattia, in quanto, essendoci un solo cromosoma X, manca l'allele normale; ciò si verifica indipendentemente dal fatto che il gene mutato produca una malattia dominante o recessiva nel sesso femminile. Pertanto, parlare di malattia dominante o malattia recessiva legate al cromosoma X è appropriato soltanto in riferimento al sesso femminile. Deve essere tuttavia sottolineato che l'espressione clinica di una malattia (dominante o recessiva) nel sesso femminile può variare in funzione dell'inattivazione (v. oltre) del cromosoma X. Nel caso di una malattia recessiva (emofilia A, distrofia muscolare di Duchenne e di Becker) solo i maschi presentano sintomi clinicamente evidenti. I figli maschi di femmine portatrici sane (eterozigoti) hanno il 50% di probabilità di manifestare la malattia. I maschi affetti non trasmettono la malattia ai figli maschi, ma trasmetteranno il gene mutato a tutte le figlie, le quali saranno quindi tutte portatrici sane. Le femmine affette possono derivare soltanto da un padre affetto e da una madre portatrice. Per la gran parte delle malattie recessive legate al cromosoma X, quest'ultimo caso è un evento molto poco frequente.
Le malattie dominanti legate al cromosoma X sono rare. L'esame dell'albero genealogico rivela le seguenti caratteristiche di trasmissione: il numero di femmine affette è maggiore del numero di maschi affetti; una femmina affetta ha il 50% di probabilità di trasmettere la malattia ai figli di ambedue i sessi; un maschio affetto trasmette la malattia unicamente alle figlie femmine e non ai figli maschi. La sintomatologia clinica è solitamente più severa (fino a essere letale) nei maschi rispetto alle femmine (eterozigoti). Nel caso in cui una malattia dominante legata al cromosoma X sia letale in fase uterina per i maschi (condizione, questa, che si manifesta con aborto spontaneo), l'albero genealogico apparirà caratterizzato dalla presenza di femmine affette e di maschi sani. Anche i geni localizzati sul cromosoma X possono essere interessati da nuove mutazioni. Un'eventualità di questo tipo può verificarsi nella gametogenesi di una donna normale: per es., se la nuova mutazione interessa il gene per il fattore VIII della coagulazio- ne (il cui difetto è causa dell'emofilia A) si potrà avere da una donna normale (non portatrice) la nascita di un figlio maschio affetto (emofilico) o di una femmina portatrice sana. Una nuova mutazione di questo tipo può avvenire anche durante la gametogenesi maschile; in questo caso il gene mutato sarà trasmesso dal padre a tutte le figlie che risulteranno portatrici e quindi, come ricordato in precedenza, nelle condizioni di poter generare figli maschi affetti. Dal punto di vista pratico, è importante definire se un caso sporadico di una malattia grave legata al cromosoma X (per es., emofilia A, distrofia muscolare di Duchenne), cioè la presenza in una famiglia di un solo individuo maschio affetto, in assenza di altri maschi affetti in linea materna, sia dovuta a una nuova mutazione o alla trasmissione di un allele mutato da parte di una madre portatrice. In queste circostanze si rende necessaria un'analisi genetico-molecolare del gene coinvolto (se questo è stato caratterizzato) per dirimere il dubbio e fornire un accurato consiglio genetico.
In una fase molto precoce dello sviluppo embrionale di una femmina uno dei due cromosomi X subisce un'inattivazione irreversibile a livello delle cellule somatiche. L'inattivazione è un processo casuale, cosicché in ciascuna cellula vi sarà uguale probabilità che sia inattivato il cromosoma X di origine paterna (cioè il cromosoma X ricevuto dal padre) o quello di origine materna (il cromosoma X ricevuto dalla madre). Una volta stabilitasi, questa inattivazione è permanente, nel senso che ogni cellula figlia manterrà inattivo il cromosoma originariamente inattivato nella cellula progenitrice. Un individuo di sesso femminile quindi può essere considerato un mosaico, in quanto in una parte del suo corredo di cellule è attivo il cromosoma X di origine materna e in una parte di cellule è attivo il cromosoma X di origine paterna. Qualora in uno dei due cromosomi X di una femmina sia presente un allele mutato per una patologia recessiva (per es. emofilia A), una parte delle cellule avrà attivo il gene normale e una parte delle cellule il gene mutato. In relazione alla proporzione di cellule dell'uno o dell'altro tipo presenti nel tessuto nel quale quello specifico gene viene espresso (per es. nel fegato, nel caso dell'emofilia A), una femmina geneticamente eterozigote potrà o non potrà manifestare la sintomatologia della malattia di cui porta l'allele mutato (generalmente in forma più lieve rispetto a quella del maschio affetto). Quanto maggiore è il numero di cellule di quel tessuto nel quale è presente il cromosoma X con il gene mutato, tanto maggiore risulterà la gravità delle manifestazioni cliniche.
4.
Accanto alle mutazioni che hanno luogo in geni presenti sui cromosomi (autosomi e cromosomi sessuali) ve ne sono altre che interessano geni del genoma mitocondriale (DNA mitocondriale). Le malattie dovute a mutazioni che coinvolgono i geni del genoma mitocondriale (malattie mitocondriali ereditarie) sono caratterizzate dai seguenti due aspetti peculiari.
a) Eredità materna. L'eredità materna si verifica in quanto i mitocondri (e quindi il DNA mitocondriale) presenti nello zigote derivano esclusivamente dalla cellula uovo. Nel corso della fecondazione, infatti, non vi è trasferimento di mitocondri dal gamete maschile alla cellula uovo che ne contiene numerosissimi; se tra questi vi è un certo numero di portatori di mutazioni, si potrà sviluppare una malattia mitocondriale. Data l'origine esclusivamente materna dei mitocondri presenti nello zigote, una tipica malattia mitocondriale sarà trasmessa dalle madri affette a tutti i figli di entrambi i sessi; di conseguenza, un maschio affetto da una malattia dovuta a tale mutazione non è in grado di trasmettere la malattia.
b) Eteroplasmia. La situazione delle malattie mitocondriali è complicata dal fatto che in ogni cellula sono presenti numerosissimi mitocondri e, quindi, altrettante copie di DNA mitocondriale. La comparsa di una mutazione in un gene mitocondriale può interessare una o più copie di DNA mitocondriale presente in una stessa cellula. Se in una cellula tutti i mitocondri mostrano la mutazione causa della malattia si parla di 'omoplasmia'; se nella cellula coesistono mitocondri con DNA mitocondriale non mutato accanto a mitocondri il cui DNA contiene un gene mutato si parla di 'eteroplasmia'. L'eteroplasmia nelle cellule di un tessuto (cioè la proporzione di cellule contenenti DNA mitocondriale mutato rispetto al normale) varia dopo ripetute divisioni cellulari, a seconda della distribuzione dei mitocondri delle cellule figlie alla fine della mitosi. Il diverso grado di eteroplasmia è un importante fattore che contribuisce alla variabilità di espressione clinica e di manifestazioni organo specifiche delle malattie mitocondriali.
5.
Nella visione tradizionale delle malattie monogeniche si assume che, una volta instauratasi una mutazione genica, l'allele mutato sia strutturalmente stabile e venga trasmesso immodificato alle generazioni successive. Ciò risulta sostanzialmente corretto per la gran parte delle malattie monogeniche che seguono strettamente la trasmissione mendeliana; negli ultimi anni del 20° secolo, però, ne sono state identificate altre dovute a mutazioni instabili. Si tratta di malattie sia autosomiche sia legate al cromosoma X, causate da espansione di triplette ripetute presenti in alcuni geni: sono sequenze di DNA costituite da tre nucleotidi che si ripetono numerose volte a livello di uno specifico gene. Negli individui normali sono presenti in un numero variabile, ma contenuto entro precisi limiti quantitativi. La più specifica proprietà di queste triplette ripetute consiste nella loro instabilità durante la trasmissione germinale (da genitore a figlio), per cui in alcuni individui si può verificare un'espansione del loro numero. Tale fenomeno determina una situazione che viene definita premutazione, nel senso che qualsiasi ulteriore espansione del numero di triplette può indurre la comparsa di una vera mutazione e quindi di una malattia. Peraltro si è osservato che il passaggio da premutazione a vera mutazione si attua, a seconda dei casi, durante la meiosi femminile o quella maschile; quindi, attraverso successive generazioni è possibile assistere a una progressiva espansione del numero di triplette che diviene causa diretta della comparsa della malattia. Un'ulteriore espansione del numero di triplette, che può avvenire nel passaggio da una generazione all'altra, comporta un aggravamento dell'espressione clinica della malattia. Questo si esprime non solamente con un peggioramento del quadro clinico, ma anche con una maggiore precocità di comparsa dei sintomi nell'individuo: al suddetto fenomeno viene dato il nome di anticipazione.
Tra le più importanti malattie genetiche imputabili a mutazioni instabili si possono ricordare: la sindrome da X-fragile, una forma severa di ritardo mentale che si registra più frequentemente nei maschi poiché il gene coinvolto si trova sul cromosoma X; la corea di Huntington, una grave forma di degenerazione progressiva del sistema nervoso centrale che si manifesta con completa perdita del controllo motorio e delle capacità intellettuali e si trasmette come malattia autosomica dominante a comparsa tardiva; infine, la distrofia miotonica, una malattia autosomica dominante che interessa il sistema nervoso centrale e il sistema muscolare.
6.
Lo studio di una malattia monogenica-mendeliana può essere svolto a diversi livelli, a seconda che il gene mutato causa della malattia sia stato identificato e caratterizzato o meno. Al momento, solamente un numero limitato di malattie rientra in questa categoria, anche se esso appare in rapida espansione grazie agli studi sul genoma umano.
Il primo livello di studio è quello clinico, che comprende un'accurata descrizione della sintomatologia (fenotipo clinico) presentata dall'individuo affetto, in particolare in quelle malattie caratterizzate da una variabile espressività clinica. Questa indagine si completa con la ricostruzione dell'albero genealogico e l'osservazione clinica, quando è possibile, dei familiari di primo grado (genitori, fratelli e figli).
Il secondo livello è quello biochimico-cellulare, finalizzato a definire le modificazioni biochimiche (nel plasma o in cellule ottenute dal paziente) imputabili alla presenza del gene mutato. Questo studio può estendersi anche all'analisi della proteina codificata dal gene mutato, al fine di determinarne le proprietà fisico-chimiche e biologiche.
Il terzo livello è quello genetico-molecolare, teso a identificare la mutazione del gene responsabile della malattia. Ovviamente, questa fase è possibile solo nel caso in cui il gene sia stato caratterizzato (clonato). L'identificazione della mutazione responsabile della malattia nell'individuo affetto permette di ricercare la presenza della stessa mutazione anche nei familiari (sia affetti sia sani), e ciò consente anche di definire con cura lo stato di portatore sano (per es. nel caso di malattie recessive), la presenza di nuove mutazioni e di dirimere i dubbi relativi alla possibile assenza di penetranza nel caso di malattie a trasmissione dominante. L'identificazione della mutazione genica all'origine della malattia è inoltre la premessa per eseguire una diagnosi prenatale (v. oltre). Quando il gene che è causa della malattia è ignoto, l'analisi genetico-molecolare non è possibile. In questa evenienza, tuttavia, l'attenta valutazione del fenotipo clinico e la sua modalità di trasmissione, particolarmente nel caso di famiglie molto estese, sono gli strumenti indispensabili per ulteriori studi mirati a identificare la localizzazione cromosomica del gene mutato, nonché a permettere il suo isolamento e la sua caratterizzazione.
7.
Molte malattie mostrano un'aggregazione familiare che non rientra negli schemi classici della trasmissione ereditaria di tipo mendeliano. Tra queste patologie si includono le comuni malformazioni congenite (per es., labbro leporino-palatoschisi, lussazione congenita dell'anca, malformazioni congenite del cuore, stenosi pilorica ecc.), così come alcune frequenti patologie che si riscontrano nell'adulto (diabete mellito, ipertensione arteriosa essenziale, infarto del miocardio, glaucoma, psicosi maniaco-depressiva ecc.). In realtà, in molti di questi esempi l'origine genetica della malattia è eterogenea. Per es., il labbro leporino-palatoschisi può essere presente in associazione a malattie a trasmissione mendeliana o ad anomalie cromosomiche, ovvero essere una malformazione isolata che mostra un'aggregazione familiare. La stessa cosa può essere detta per l'infarto del miocardio; in alcuni casi questa patologia ha come base predisponente una malattia monogenica che coinvolge il metabolismo dei lipidi del sangue (per es. ipercolesterolemia familiare), di contro in altri casi l'aggregazione familiare non può essere immediatamente ricondotta alla presenza di una malattia oppure di un'alterazione del metabolismo a trasmissione monogenica-mendeliana.
L'aggregazione familiare delle malattie poligeniche-multifattoriali è spiegata come il risultato del concorso di diversi geni mutati, ognuno dei quali, singolarmente considerato, non è sufficiente a determinare una malattia, ma la cui associazione e i relativi effetti biologici combinati sono in grado di indurre la malattia o di determinarne la predisposizione (eredità poligenica). È verosimile che la malattia si renda manifesta anche, o soltanto, per l'intervento di fattori ambientali di varia natura, che rendono possibile l'estrinsecazione dell'effetto di molti geni mutati. Per questa ragione si impiega la locuzione malattie poligeniche-multifattoriali per sottolineare il contributo di più geni mutati in associazione con fattori ambientali. In altri termini, un individuo che eredita una particolare combinazione di geni mutati ha un rischio relativo che questi geni si possano combinare con qualche componente ambientale per superare una soglia biologica critica, oltre la quale si ha la manifestazione di una patologia specifica. Affinché un altro individuo della stessa famiglia manifesti la stessa patologia, è necessario che la stessa combinazione di geni mutati sia ereditata e che idonei fattori ambientali siano operanti.
Poiché il numero di geni responsabili di una malattia poligenica non è al momento precisabile, il rischio che un membro della famiglia di un soggetto affetto presenti la stessa patologia è difficile da calcolare. All'uopo, la stima del rischio si basa su dati empirici derivati dal computo della proporzione dei familiari affetti in un largo numero di famiglie con specifiche malattie poligeniche-multifattoriali.
In contrasto con le malattie monogeniche nelle quali il 25% o il 50% dei parenti di primo grado sono a rischio, nelle malattie poligeniche-multifattoriali, secondo l'osservazione empirica, non più del 5-10% è a rischio. Inoltre, contrariamente alle malattie monogeniche, il pericolo di ricorrenza varia notevolmente tra famiglia e famiglia. Alcuni criteri generali derivati da queste osservazioni possono essere così riassunti: 1) l'incidenza di una specifica malattia poligenica-multifattoriale è maggiore tra i familiari dei pazienti che presentano le forme cliniche più severe: per es., nel caso di una famiglia in cui vi sia un individuo con il labbro leporino monolaterale (forma lieve), l'incidenza nei familiari di primo grado (genitori, fratelli o figli) della stessa malformazione è del 2%; se la forma è grave (per es., labbro leporino e palatoschisi bilaterale), l'incidenza nei familiari di primo grado è del 6%; 2) il rischio è maggiore quanto più stretto è il grado di parentela con il familiare affetto e viceversa: in una famiglia in cui vi sono due fratelli affetti, è maggiore il rischio di comparsa della stessa malattia in altri membri della famiglia.
Nel campo delle malattie genetiche, la diagnosi precoce è un intervento articolato in tre principali tipologie: la diagnosi prenatale, che è finalizzata all'identificazione di una specifica malattia prima della nascita; la diagnosi presintomatica, che riconosce all'interno di famiglie a rischio per specifiche malattie le persone che hanno ereditato il gene-malattia, quando esse sono ancora clinicamente sane; infine, la diagnosi generica di rischio, che identifica le persone che hanno ereditato un corredo cromosomico oppure geni che, in particolari condizioni, costituiscono per loro stessi o per i loro discendenti causa o concausa di malattia.
La diagnosi prenatale è basata su tecniche strumentali e di laboratorio che consentono di monitorizzare, lungo tutto l'arco della gravidanza, specifiche patologie per le quali l'embrione-feto è a rischio. Mentre le tecniche invasive, che si basano sull'acquisizione di materiale biologico dal concepito, vengono applicate solo in presenza di un rischio di patologia cromosomica o genica, quelle non invasive sono utilizzate per monitorizzare la gravidanza anche nelle coppie a basso rischio.
a) Tecniche non invasive. La tecnica principale è l'ecografia (analisi ultrasonografica) che viene impiegata nella diagnosi prenatale dei difetti strutturali del feto e come supporto a tutte le indagini invasive. Si tratta infatti di una diagnosi indiretta, che, in presenza di un reperto patologico, non sempre può definirne il significato e la gravità (per es. riscontro di cisti nei plessi coroidei) e che perciò spesso si avvale di tecniche complementari (analisi cromosomiche, biochimiche, molecolari) per l'approfondimento del quadro morfologico osservato. Un'altra tecnica non invasiva, che deve essere effettuata nel secondo trimestre di gravidanza, è quella basata sull'analisi biochimica sul siero materno di alcuni marcatori, cioè il dosaggio dell'α-fetoproteina (AFP), una glicoproteina prodotta dal feto i cui valori aumentano in presenza di alcune malformazioni (soprattutto i difetti del tubo neurale), il dosaggio dell'estriolo non coniugato e quello della gonadotropina corionica (cosiddetto triplo-test) per la predizione della sindrome di Down. La sensibilità dell'AFP è del 100% nella predizione dell'anencefalia e superiore al 90% per la spina bifida aperta, mentre quella del triplo-test è del 70%, con circa 5% di risultati falsi positivi.
b) Tecniche invasive. Le principali tecniche sono rappresentate dall'amniocentesi, che consiste nella puntura per via transaddominale del sacco amniotico e nel prelievo di liquido amniotico, e dalla villocentesi, che utilizza un analogo protocollo per l'acquisizione del trofoblasto (cosiddetti villi coriali). Entrambe le tecniche comportano un minimo pericolo per la gravidanza (0,5% per l'amniocentesi, 1-2% per la villocentesi). Per questo ne viene raccomandato l'uso solamente nelle gravidanze a rischio. I tessuti acquisiti vengono utilizzati per indagini cromosomiche, biochimiche e molecolari. Minore importanza diagnostica rivestono l'acquisizione di sangue fetale per puntura del cordone ombelicale (cordocentesi) e la visualizzazione diretta del feto mediante fetoscopio (fetoscopia). Una tecnica invasiva di uso molto limitato è costituita dalla diagnosi preimpianto, che può essere effettuata in coppie ad alto rischio. Essa consiste nella rimozione di una cellula dalla blastula, ottenuta per concepimento in vitro, quando questa è allo stadio di 8 cellule; la cellula viene poi analizzata per la specifica patologia a rischio. Qualora l'analisi molecolare fornisca un risultato non patologico, la gravidanza viene avviata attraverso il trasferimento dell'embrione in utero. La principale indicazione per la diagnosi prenatale è l'analisi cromosomica (eseguita idealmente sugli amniociti), che riguarda: le coppie a rischio per età materna avanzata (>35 anni); quelle con precedente figlio affetto da patologia cromosomica (rischio 1%) o nelle quali uno dei genitori è portatore di un'anomalia bilanciata; quelle in cui l'ecografia o il triplo-test rivelano quadri patologici.
L'analisi del DNA (eseguita idealmente sul trofoblasto) trova crescenti applicazioni nelle coppie a rischio per malattie mendeliane a difetto molecolare noto. Una straordinaria possibilità offerta dai progressi della genetica medica è quella di riuscire a spostare l'asse degli interventi, da quello più tradizionale della medicina preventiva a quello della medicina predittiva. Le basi ereditarie della maggior parte delle malattie consentono, infatti, di identificare nel genoma individuale gli specifici fattori di rischio e/o i geni-malattia, prima che questi manifestino i loro effetti clinici. Questa predizione, e perciò la diagnosi presintomatica, è particolarmente rilevante nei confronti di alcune malattie autosomiche dominanti a esordio tardivo, come, per es., la corea di Huntington o la distrofia miotonica. Il quadro clinico è correlato con il livello di mutazione genetica e, di conseguenza, la caratterizzazione molecolare del difetto consente di predire, con un buon livello di approssimazione, sia l'età di esordio della malattia sia la gravità dei sintomi clinici.
Non tutte le anomalie presenti nel genoma individuale sono direttamente causa di malattia, ma possono costituire fattori di rischio per una determinata patologia. La diagnosi precoce può identificare queste situazioni di rischio e avviare il paziente a un programma di prevenzione (diagnosi di rischio). Si possono configurare tre principali scenari. Il primo scenario riguarda la diagnosi precoce di una situazione di rischio di patologia cromosomica. Almeno una persona ogni 500 è eterozigote per un'anomalia bilanciata (in particolare una traslocazione). I portatori di questi riarrangiamenti sono di regola clinicamente normali, ma a rischio di produrre gameti sbilanciati e perciò concepimenti con duplicazioni/deficienze cromosomiche. L'identificazione, prima che avvenga il concepimento, di queste persone a rischio (di solito all'interno di famiglie nelle quali segrega il riarrangiamento) consente di monitorizzare la gravidanza con le già ricordate tecniche di diagnosi prenatale. Il secondo scenario riguarda la diagnosi precoce dei soggetti eterozigoti per mutazioni recessive comuni. La condizione di portatore sano di mutazioni mendeliane interessa tutte le persone. Si calcola infatti che ogni persona sia eterozigote in media per una ventina di geni che, in omozigosi, causano una malattia. Dato che la maggior parte di queste mutazioni è rara, la probabilità di matrimonio tra due estranei, eterozigoti per mutazioni dello stesso gene, è relativamente bassa e perciò il rischio di malattia nei figli è trascurabile.
Diverso è il caso delle mutazioni comuni, come, per es., la β-talassemia o la fibrosi cistica, che in Italia interessano oltre due milioni di persone. Gli eterozigoti per questi geni-malattia possono essere identificati prima del concepimento attraverso screening di popolazione (per la talassemia), oppure attraverso indagini mirate all'interno delle famiglie a rischio (per la fibrosi cistica). Tali indagini consentono di avviare le coppie a rischio alla diagnosi prenatale. Il terzo scenario riguarda la diagnosi precoce di fattori di rischio genetico, che agiscono nel contesto di un meccanismo multifattoriale. Molte malattie, soprattutto dell'adulto, hanno origine dall'interazione tra fattori genetici e fattori ambientali. Per es., le vasculopatie responsabili dell'infarto o dell'ictus giovanile hanno un'elevata ereditabilità e circa il 50% del fenotipo è riconducibile a fattori genetici, che possono essere identificati con indagini precoci appropriate. Analoghe considerazioni si pongono per il diabete mellito e per alcuni tumori. Tuttavia, l'avvio di indagini di popolazione rivolte all'identificazione dei geni della suscettibilità ai fenotipi complessi suscita non poche perplessità, legate al sospetto che possano produrre danni, piuttosto che benefici, alle persone sottoposte allo screening. Infatti, l'identificazione di un fattore di rischio non implica necessariamente che la persona svilupperà quella malattia. È perciò problematico in casi di questo genere offrire un consiglio clinico accurato e gestire l'informazione senza far nascere allarmismi. Esiste, inoltre, il potenziale pericolo che il risultato di un'indagine predittiva possa creare delle barriere tra il paziente e le compagnie assicurative o discriminazioni nell'attività lavorativa. Per queste ragioni, la diagnosi precoce dei rischi genetici è sottoposta a un continuo dibattito, che riflette tanto i nuovi livelli di conoscenza sulle basi biologiche delle malattie umane, quanto la ricerca di un consenso sulle informazioni che dovrebbero essere preliminarmente fornite a chi si sottopone a queste indagini.
L. Andrews et al., Assessing genetic risk, Washington, National Academy Press, 1994.
Antenatal diagnosis of fetal abnormalities, ed. J.O. Drife, D. Donnai, Berlin, Springer, 1991.
S. Elias, Maternal serum screening for fetal genetic disorders, Edinburgh, Churchill Livingstone, 1992.
P.S. Harper, Practical genetic counselling, Oxford, Butterworth-Heinemann, 19934.
R.J. Lilford, Prenatal diagnosis and prognosis, London, Butterworths, 1990.
B. Modell, M. Modell, Towards a healthy baby, Oxford, Oxford University Press, 1992.
R.F. Mueller, I.D. Young, Emery's elements of medical genetics, Edinburgh, Churchill Livingstone, 1995.
Prenatal diagnosis and screening, ed. D.J.H. Brock, C.H. Rodeck, M.A. Ferguson-Smith, Edinburgh, Churchill Livingstone, 1992.
Prenatal diagnosis in obstetric practice, ed. M.J. Whittle, J.M. Connor, Oxford, Blackwell, 1989.
F. Vogel, A.G. Motulsky, Human genetics. Problems and approaches, Berlin, Springer, 19973.
D. Weaver, Catalog of prenatally diagnosed conditions, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1992.