Malattie infettive emergenti
Dei 57 milioni di decessi che ogni anno si registrano nel mondo, circa 15 milioni sono causati da malattie infettive: oltre il 25% (Morens, Folkers, Fauci 2004). L’umanità deve fare i conti con le patologie vecchie, che non ci hanno mai del tutto abbandonato, e con quelle nuove: le cosiddette malattie infettive emergenti. Con la locuzione emerging infectious diseases, un rapporto dello statunitense Institute of medicine of the National academies (Microbial threats to health, 2003) ha definito quelle patologie infettive la cui incidenza è andata aumentando in aree del mondo circoscritte o a livello globale nell’ultimo ventennio del 20° secolo. Le malattie infettive riemergenti sono invece quelle che divengono nuovamente frequenti dopo aver mostrato una diminuzione significativa di incidenza.
Nel primo gruppo rientrano sia malattie che potremmo definire nuove, ovvero causate da un agente patogeno che prima di venire identificato era sconosciuto, sia malattie dovute alla diffusione in nuove aree di patogeni già esistenti, sia infine malattie nate dall’introduzione nella specie umana di patogeni che prima colpivano altre specie animali. L’AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome), la malattia di Ebola, la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) sono esempi di malattie emergenti. Nel secondo gruppo rientrano, invece, quelle malattie che per un certo periodo sono sembrate sotto controllo, ma che oggi sono tornate a essere una minaccia in vaste aree del mondo. La tubercolosi è una di queste.
Le malattie di cui ci occupiamo sono diventate un problema serio negli ultimi decenni. Tra il 1940 e il 2004 è stato calcolato che 335 malattie infettive emergenti hanno colpito la popolazione umana (Jones, Patel, Levy et al. 2008). Il picco di questo fenomeno si è avuto tra gli anni Ottanta e Novanta del 20° secolo. L’inizio del 21° sec. ha visto comunque mantenersi molto alto il numero di casi o focolai di queste patologie. Nella prima parte del saggio cercheremo di spiegare quali sono i meccanismi che favoriscono tale fenomeno e ricorderemo quali sono le principali malattie infettive emerse negli ultimi anni. Nella seconda parte, invece, prenderemo in analisi cinque casi significativi di malattie infettive emerse in questo inizio di 21° sec.: la SARS, l’influenza aviaria, la chikungunya, la tubercolosi resistente a farmaci di prima e seconda scelta e le malattie favorite dai cambiamenti climatici. Ognuno di questi casi, infatti, rappresenta un esempio di come le condizioni di vita tipiche dei nostri tempi possano favorire la nascita e la diffusione di alcune malattie infettive.
Meccanismi di emergenza delle malattie infettive
Come emergono queste nuove malattie? In realtà esseri umani e microbi convivono e interagiscono continuamente da milioni di anni e solo raramente questa interazione produce una nuova malattia. Alcuni fattori possono favorire tale fenomeno. Nel 1992 l’Institute of medicine ne individuava sei, ma nel 2003 la lista era cresciuta fino a comprenderne tredici. Sono fattori che riguardano l’ambito genetico e biologico, quello ambientale, quello ecologico e quello sociale, politico ed economico.
Il più importante di questi fattori è forse l’evoluzione dei microbi. I microrganismi patogeni, anche a causa della loro velocità di riproduzione, hanno un elevato potenziale evolutivo. Queste mutazioni possono consentire loro di adattarsi a nuove specie, facendo così nascere un nuovo virus. È quello che è successo, per es., con l’AIDS: un retrovirus dei primati è diventato capace di infettare cellule umane evolvendo in quello che noi oggi conosciamo come HIV (Human Immunodeficiency Virus). Ed è quello che accade con il virus dell’influenza. Se le mutazioni sono meno importanti, possono far emergere ceppi nuovi di virus che già circolano fra gli esseri umani, come avviene tutti gli anni per l’influenza stagionale. Talora, per una ricombinazione, ossia uno scambio di interi segmenti di materiale genetico tra ceppi virali diversi, oppure per il sommarsi di mutazioni successive, possono generarsi varianti virali molto diverse da quelle circolate fino a un dato momento. In altri termini, possono prodursi virus che appaiono del tutto nuovi per la specie umana e per i quali non esiste immunità neanche parziale; ciò causa lo scoppio di pandemie, come quella, gravissima, del 1918-19, designata con il nome di spagnola perché si riteneva che il focolaio primitivo avesse avuto origine nella Penisola Iberica. Oltre il 60,3% delle malattie emergenti è dovuto ad agenti patogeni che causano zoonosi, ovvero microrganismi che normalmente circolano tra gli animali e che, a un certo punto, cominciano a colpire anche gli esseri umani. Inoltre, si è visto che buona parte di questi patogeni ha origine tra gli animali selvatici. Due esempi significativi di questo passaggio dalle specie animali selvatiche all’uomo sono il Nipah virus, emerso per la prima volta in Malaysia nel 1999, e la SARS, nata nella provincia cinese del Guangdong nel 2002. Il primo è normalmente presente nei pipistrelli, mentre un virus quasi identico a quello della SARS è stato ritrovato nello zibetto. In alcuni casi, è l’uomo stesso che può contribuire a selezionare ceppi mutanti: è quello che è successo con gli antibiotici. L’uso diffuso e improprio di questi farmaci negli ultimi cinquant’anni ha selezionato, infatti, ceppi batterici in grado di resistere alla loro azione.
Un altro fattore determinante nell’insorgenza di nuove malattie è la modificazione della suscettibilità umana alle infezioni. La presenza di microrganismi patogeni è stata un potente fattore di evoluzione della specie umana poiché ha fornito un vantaggio evolutivo agli individui geneticamente meno suscettibili alle infezioni. In sostanza, le persone che venivano colpite meno dalla malattia per questioni genetiche sopravvivevano alle epidemie, facevano figli e trasmettevano questa loro caratteristica alla prole. Tale fenomeno, al quale ci si riferisce come coevoluzione, fa sì che le popolazioni nelle quali un determinato agente infettivo è presente da molto tempo abbiano sviluppato una certa immunità per la malattia causata da quell’agente. Ciò spiega perché, invece, popolazioni completamente vergini rispetto ad alcune infezioni presentino una suscettibilità assai maggiore agli agenti patogeni, che possono quindi diffondersi molto più rapidamente e spesso con conseguenze più drammatiche. Un esempio storico è quello del vaiolo che, introdotto in America dai conquistadores insieme ad altre malattie, ebbe una rapida diffusione a carattere epidemico tra gli amerindi uccidendo milioni di uomini. Oggi nel mondo la causa maggiore di suscettibilità alle malattie infettive è la malnutrizione, che provoca un abbassamento delle difese immunitarie negli individui.
L’influenza dei due fattori citati finora sull’emergere di nuove infezioni è sempre stata la stessa nel corso dei millenni. Tuttavia, ci sono altri fattori il cui peso è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni. Uno di questi è la modificazione degli ecosistemi. Ogni variazione ecologica può riflettersi sulla possibilità dei microrganismi di riprodursi e di colonizzare nuovi ospiti. Infatti, i microrganismi sono in grado di evolversi per adattarsi alle mutate condizioni ambientali, ma la loro evoluzione può tradursi anche nell’acquisizione di nuove capacità patogene. Questo vale soprattutto per quelle malattie trasmesse da un vettore animale. Tra le modificazioni ecologiche più importanti cui stiamo assistendo c’è il cambiamento climatico. L’Intergovernmental panel on climate change (IPCC), un organismo dell’ONU, nel suo quarto rapporto (Climate change 2007, 2007) prevede un rialzo termico a livello mondiale di circa 3 °C nel corso del 21° secolo. Si pensa che questa variazione costituisca per la salute umana una minaccia particolarmente grave perché favorirebbe l’espansione delle aree in cui colpiscono alcune malattie infettive trasmesse da animali.
Anche le attività umane sono da temere. Per es., la deforestazione o la costruzione di dighe possono modificare il territorio e quindi favorire la diffusione delle infezioni. È il caso della febbre emorragica venezuelana: la trasformazione di vaste aree di foresta in terreno agricolo ha, infatti, favorito la crescita della popolazione di roditori, che rappresentano il serbatoio dell’infezione, e ha facilitato il contatto di questi animali con la specie umana.
L’aumento demografico può rappresentare un altro fattore importante nella nascita di nuove malattie infettive. Nel corso del 20° sec. la popolazione umana ha conosciuto un’esplosione senza precedenti, passando da 1,5 a 6 miliardi di persone, con un ritmo di crescita successivo dell’1,2% annuo. Secondo queste previsioni, si è calcolato che alla fine del 21° sec. gli abitanti della Terra saranno un numero compreso tra 10 e 23 miliardi. Questa crescita si è accompagnata finora a due ulteriori fenomeni. Da un lato si assiste, in modo particolare nel mondo industrializzato, a un progressivo invecchiamento della popolazione: in Europa nel 2000 la quota di ultrasessantacinquenni rispetto alla popolazione totale aveva superato il 15%. Ed è stato dimostrato che l’età avanzata si associa, anche in assenza di specifiche patologie, a un aumentato rischio di infezioni. L’altra conseguenza della crescita demografica è la progressiva urbanizzazione, con l’aumento delle megalopoli. Nel 1975 solo 5 aree urbane superavano i 10 milioni di abitanti; questo numero è cresciuto fino a 19 nel 2000 e si stima possa arrivare a 24 nel 2015. La creazione di infrastrutture, in particolare di quelle volte ad assicurare sufficienti livelli igienici, spesso non riesce a tenere il passo con la crescita della popolazione. La popolazione impoverita che abbandona le aree rurali e si concentra nelle megalopoli è destinata così a vivere in condizioni di disagio e sovraffollamento. Queste difficoltà portano talora a un aumento di fenomeni come quello della prostituzione che, per molti, rappresenta una scelta obbligata per la sopravvivenza, favorendo in tal modo la diffusione delle malattie infettive.
Gli sviluppi industriali e tecnologici del 20° sec. hanno contribuito al miglioramento dello stato di salute e della speranza di vita delle popolazioni umane in vaste aree del globo. D’altra parte, questi avanzamenti hanno anche creato le condizioni per l’emergere di nuove patologie infettive. Si è già accennato alle infezioni negli immunodepressi e alle infezioni da batteri antibiotico-resistenti. Altri fattori potenzialmente rilevanti sono quelli relativi alle moderne tecniche di allevamento, come ha dimostrato alla fine del secolo scorso la vicenda della ‘mucca pazza’. Nel 1996 in Gran Bretagna furono individuati dieci casi umani di una malattia neurodegenerativa che fu definita variante del morbo di Creutzfeldt-Jakob. Causata da un prione, agente infettante elementare formato da una sola proteina, simile a quello cui si deve l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE, Bovine Spongiform Encephalopathy), questa malattia era passata dagli ovini ai bovini a causa dell’impiego di mangimi preparati con farine proteiche ottenute a partire dalle carcasse di pecore malate.
La possibilità per le malattie infettive di diffondersi in vaste aree geografiche non è un dato nuovo, tuttavia sono cambiati i tempi con cui questo avviene. Nel 14° sec. si scatenò una delle più devastanti epidemie della storia, quella che fu chiamata peste nera. Essa ebbe origine dal cuore della Cina e, dopo aver attraversato nel corso di tre lustri l’Asia centrale sulle vie carovaniere, giunse nel 1346 in Crimea e nel 1347 a Costantinopoli, impiegando un altro anno per arrivare nel Sud della Gran Bretagna e altri due anni per completare la sua marcia attraverso l’Europa. Alla fine del 2002 l’epidemia di SARS è emersa in Cina e pochi mesi dopo ha raggiunto altri sei Paesi in due diversi continenti. Questa enorme accelerazione nella possibilità di diffusione di un contagio è senz’altro riconducibile alla maggiore facilità e rapidità con cui viaggiano persone e merci. Si stima, infatti, che la velocità media di spostamento degli esseri umani sul pianeta sia aumentata di circa mille volte negli ultimi due secoli e che il numero di passeggeri internazionali sia andato rapidamente crescendo fino a giungere a 700 milioni per anno nel 2000, con una previsione di un miliardo per anno nel 2010. È anche aumentato il numero delle destinazioni. Tutto ciò rende possibile a persone affette da patologie contagiose di spostarsi rapidamente in luoghi diversi portando con sé agenti patogeni. È stata anche dimostrata la possibilità che a diffondere il contagio imbarcandosi sugli aerei non siano esseri umani ma artropodi, vettori di microrganismi. Anche gli accresciuti volumi del commercio, sia nazionale sia internazionale, possono contribuire alla diffusione di malattie, in particolare il commercio di cibi e di animali. Infine, è da ricordare il ruolo delle migrazioni. I flussi migratori odierni si svolgono da Paesi a più alta vulnerabilità per l’emergenza di infezioni (i Paesi poveri) a Paesi a più basso rischio di diffusione di infezioni. Ciò fa sì che i migranti tendano a portare con loro nei luoghi di arrivo anche una maggiore vulnerabilità alle infezioni.
Il mantenimento di efficienti strutture di prevenzione e controllo della diffusione delle infezioni è un elemento essenziale per impedire l’emergere o il riemergere delle malattie infettive sia nei Paesi a economia sviluppata sia in quelli in via di sviluppo. Il caso della tubercolosi illustra chiaramente questo punto. Negli anni Ottanta del 20° sec. negli Stati Uniti si è registrata una netta ripresa del numero di casi di tubercolosi, parallelamente allo smantellamento dei programmi di assistenza e controllo. Questa tendenza è stata invertita nel decennio successivo, soprattutto grazie all’investimento in strutture di sanità pubblica e, in particolare, in servizi di terapia gratuiti che permettono una cura sotto osservazione diretta, ossia con somministrazione quotidiana dei farmaci anche presso il domicilio del paziente, o talora in strutture di ospitalità per i senzatetto.
Nonostante siano stati registrati progressi non trascurabili nell’ultima parte del 20° sec., la povertà estrema interessa tuttora una larga parte dell’umanità. Si stima che 2,8 miliardi di persone vivano con meno di 2 dollari al giorno e 1,2 miliardi con meno di un dollaro. Analizzata a livello globale, esiste una chiara correlazione tra aree in cui sono concentrate le persone più povere (Sud e Sud-Est asiatico e Africa centro-meridionale) e incidenza di infezioni. Anche nei Paesi con livelli medi o alti di reddito medio pro capite esiste una chiara correlazione tra povertà e vulnerabilità alle infezioni.
Le guerre e, soprattutto, le loro conseguenze creano frequentemente le condizioni per l’emergere di fenomeni epidemici e, in generale, per lo sviluppo delle infezioni. Le condizioni di vita dei profughi sono infatti caratterizzate da sovraffollamento, carenza estrema di strutture igieniche, difficoltà di accesso all’assistenza sanitaria, contatti stretti fra persone di diversa provenienza geografica. Questi elementi concorrono a far sì che in tali condizioni 3/4 dei decessi siano da attribuire a infezioni.
Un altro ostacolo che si frappone alla capacità di affrontare le malattie infettive emergenti è la sottovalutazione del problema che, fino alla fine del secolo scorso, ha rappresentato un atteggiamento comune non solo all’interno della comunità scientifica, ma anche, e forse in misura maggiore, a tutti i livelli della società. Di conseguenza, molti governi consideravano inutile investire risorse nel controllo delle malattie infettive, ritenendo questo un problema ormai risolto, o comunque rilevante per altre aree del mondo.
Infine, il bioterrorismo. L’idea che agenti infettivi possano essere usati come armi non è certo nuova, ma negli ultimi anni è cresciuta la paura che microrganismi emergenti possano essere diffusi intenzionalmente. A oggi sono stati documentati due episodi di bioterrorismo, entrambi negli Stati Uniti. Nel 1984 in Oregon una setta religiosa contaminò con salmonella i cibi di un ristorante. Nel 2001 un terrorista inviò numerose lettere contenenti spore di antrace a personalità di rilievo. Diciotto persone si ammalarono maneggiando quelle lettere e cinque morirono. Enorme fu il panico sollevato da questo episodio negli Stati Uniti così come in altri Paesi, inclusa l’Italia.
Come abbiamo visto, ciò che rende la nostra epoca particolarmente a rischio per l’emergere delle malattie infettive è la globalizzazione (The impact of globalization on infectious disease emergence and control, 2006). La velocità degli spostamenti e l’intensità degli scambi di merci stanno creando le condizioni ideali per una «tempesta microbica perfetta» (Microbial threats to health, 2003). Nessuna nazione si può sentire immune quando un’epidemia scoppia in un remoto angolo del pianeta, perché i microbi viaggiano tanto velocemente quanto le persone e le merci. Nello stesso tempo, però, l’interconnessione tra le diverse parti del mondo permette che si crei uno sforzo multinazionale che potrebbe limitare il rischio di diffusione di queste malattie emergenti. La rete di questi sforzi, insieme alla proliferazione globale di tecnologie e informazioni, migliora la capacità della sanità pubblica di prevenire e controllare le malattie infettive emergenti.
Il primo decennio del 21° secolo
La SARS
La SARS è un esempio di come un virus che normalmente colpisce gli animali possa diventare capace di infettare gli esseri umani e di trasmettersi da persona a persona. La promiscuità tra animali ed esseri umani in alcune zone del mondo e la velocità degli spostamenti hanno fatto sì che questa malattia, emersa all’alba del 21° sec., abbia creato uno stato di panico tra gli abitanti del mondo senza alcuna distinzione geografica.
C’è una data che segna il momento in cui la SARS ha fatto il suo ingresso nel mondo: è il 12 marzo del 2003, il giorno in cui la World health organization (WHO) decise di rendere pubblico l’allarme per una nuova sindrome che minacciava la salute mondiale (Pulcinelli, Girardi, Greco 2003). Da quel giorno e in pochi mesi la SARS fece il giro del mondo. Secondo dati dell’agosto 2007, l’epidemia è arrivata in 32 Paesi, colpendo oltre 8000 persone e uccidendone più di 900. Poi, in meno di un anno, la malattia è sparita così come era arrivata. Non sapremo mai con certezza se le misure messe in atto in quei mesi siano state le artefici della sconfitta di questa malattia. Tuttavia, è certo che se la sindrome non fosse stata riconosciuta per tempo, anche grazie al medico italiano Carlo Urbani che lavorava a Hanoi per conto della WHO e che identificò il primo focolaio di questo nuovo morbo, l’epidemia sarebbe stata molto più tragica per l’umanità.
La SARS è una malattia virale che si manifesta con una grave forma di polmonite. È causata da un virus che si trasmette attraverso le secrezioni respiratorie e fa parte della famiglia dei coronavirus, isolati per la prima volta nel 1965. Il loro nome deriva dal fatto che presentano sulla superficie una struttura che ricorda una corona. Sono suddivisi in tre gruppi: i primi due includono virus che colpiscono i mammiferi, il terzo gruppo contiene solo virus che colpiscono gli uccelli. Normalmente questi virus provocano varie malattie negli uomini e negli animali, incluse gastroenteriti e affezioni dell’apparato respiratorio, ma, mentre i coronavirus animali causano malattie anche gravi nei loro ospiti, negli esseri umani producono normalmente un raffreddore senza febbre. Si è calcolato che i coronavirus sono responsabili del 30-40% dei comuni raffreddori che colpiscono l’uomo, secondi solo ai rhinovirus.
Tuttavia, il virus della SARS isolato durante l’epidemia del 2003 è risultato diverso da tutti i coronavirus conosciuti fino a quel momento, tanto che alcuni virologi proposero di inserirlo in un nuovo gruppo di coronavirus, il quarto. In molti si chiesero da dove venisse questo virus sconosciuto. L’analisi del genoma sembra far pensare che ci siamo trovati di fronte a un virus animale che da pochissimo aveva sviluppato la capacità di infettare l’uomo. Il salto di specie sarebbe avvenuto nella provincia di Guangdong, nel Sud della Cina. In questa zona, caratterizzata da numerose fattorie irregolari, la promiscuità tra animali ed esseri umani è massima. Inoltre, questa provincia è famosa perché propone una cucina a base di carne, anche di animali appartenenti a specie protette, che vengono mangiati appena macellati. I mercati delle città del Guangdong pullulano di animali vivi che vengono uccisi sul posto dal venditore, e sangue e interiora sono spesso presenti sui banchi di vendita. Sembra che proprio in uno dei passaggi della catena alimentare il virus si sia trasferito da un animale selvatico, probabilmente uno zibetto, all’uomo.
Il virus della SARS però non solo è diventato capace di infettare l’essere umano, ma anche di trasmettersi da una persona all’altra. La malattia aveva cominciato a manifestarsi proprio nel Guangdong già a novembre del 2002, ma le autorità non avevano comunicato nulla alla WHO, anche perché l’epidemia era rimasta circoscritta alla provincia cinese. Quando il virus arrivò a Hong Kong, le cose cambiarono. Qui il coronavirus giunse con un medico del Guangdong arrivato in città per far visita ai parenti. L’uomo, già malato, alloggiò in un grande hotel dove, nel giro di pochi giorni, infettò dodici persone che, a loro volta, trasmisero la SARS a decine di altre persone di diversa nazionalità.
Ecco dunque l’altro elemento che fa della SARS un caso emblematico di malattia infettiva emergente. A farla uscire dall’angolo di mondo in cui era nata è stata la facilità degli spostamenti. Inoltre, non bisogna dimenticare che queste malattie a carattere epidemico rappresentano una minaccia non soltanto per la vita umana, ma anche per l’economia dei Paesi colpiti. Si calcola che la SARS sia costata alla sola economia cinese venti miliardi di dollari. In Canada, dove i casi sono stati solamente 140, si è calcolato che nel 2003 il PIL si sia abbassato dello 0,15%, con un valore dello 0,5% nella città di Toronto.
Tuttavia, c’è qualcosa che possiamo imparare dall’epidemia scoppiata nel 2003. Volendo riassumere l’opinione dei tanti osservatori, potremmo dire che la SARS ci ha insegnato due cose: 1) le malattie infettive emergono senza preavviso, possono essere ancora molto pericolose e quindi bisogna essere preparati; 2) solo la cooperazione e la trasparenza possono aiutarci a limitare l’impatto di un evento epidemico che si presenti su scala globale.
Pandemia influenzale e influenza aviaria
Se il 2003 è stato l’anno della SARS, il 2005 e il 2006 sono stati gli anni dell’influenza aviaria. In quei ventiquattro mesi si è infatti concentrato il numero maggiore di casi tra gli esseri umani: 213. L’aviaria conferma quello che si era visto con la SARS: un virus può evolvere e acquisire capacità nuove, come quella di infettare e fare ammalare la specie umana. E questo ‘salto’ avviene laddove la promiscuità tra animali e persone è più alta. L’influenza aviaria non è una malattia nuova: chiamata peste dei polli, era stata riconosciuta dal veterinario Edoardo Perroncito nel 1878 come una grave malattia dei volatili di allevamento. Solo nel 1955 però è stato dimostrato che la malattia è causata da un virus A dell’influenza. Da allora, virus A di diversi sottotipi sono stati individuati in oltre 90 specie di uccelli selvatici apparentemente sani.
Gli uccelli acquatici, in particolare le anatre, sono i principali serbatoi del virus; sembra che lo abbiano portato per migliaia di anni senza sviluppare sintomi significativi: un ottimo esempio di adattamento di un agente patogeno al suo ospite. Un serbatoio stabile, ma anche molto mobile: gli uccelli portano il virus per grandi distanze e lo distribuiscono in grandi quantità con la saliva, le secrezioni respiratorie e le feci. Le più comuni forme di contagio sono quella oro-fecale, quella diretta o il contatto con acqua contaminata da feci infette. Del resto, il virus può sopravvivere a lungo nelle feci, soprattutto a basse temperature.
Alla fine del 20° sec. qualcosa cambiò. Il virus dell’influenza aviaria, chiamato H5N1 (Hemagglutinin5Neuroaminidase1), fece il salto di specie diventando capace di colpire anche l’uomo. Quel momento storico è documentato: nel maggio del 1997 un bambino di tre anni venne ricoverato in un reparto di terapia intensiva di Hong Kong con una patologia respiratoria acuta e febbre alta. Pochi giorni dopo il bambino morì, ma il virus presente nel suo apparato respiratorio fu isolato e analizzato. Si scoprì così che si trattava di un virus dell’influenza A, ma di un sottotipo nuovo, mai isolato negli esseri umani: appunto, H5N1. Il ceppo però non era del tutto sconosciuto. In tre allevamenti di Hong Kong aveva già ucciso il mese precedente 4500 polli. Fino a quel momento, come detto, nessun virus di quel tipo aveva mai infettato esseri umani; inoltre, non era mai capitato che un virus di solito presente negli uccelli contagiasse direttamente l’uomo. Normalmente, affinché questo avvenga, deve entrare in gioco il maiale. I maiali, infatti, vengono infettati facilmente sia dai virus umani sia da quelli degli uccelli acquatici. Nel loro organismo dunque può avvenire la ricombinazione, ovvero lo scambio di materiale genetico tra i due virus che ne fa emergere un terzo in grado di infettare l’uomo e di far scoppiare la pandemia. Così è accaduto, per es., per le pandemie influenzali più recenti, come l’asiatica e quella di Hong Kong. Tuttavia, non è impossibile che un virus aviario diventi capace di passare direttamente all’uomo, tanto che esiste già un precedente: la spagnola (Taubenberger, Reid, Lourens et al. 2005). Le indagini genetiche sul virus che provocò la famosa pandemia del 1918-19, uccidendo circa 50 milioni di persone in un anno, hanno dimostrato che si trattava di un virus interamente aviario.
L’influenza aviaria, comunque, è ricomparsa all’inizio del 2004 in Vietnam. Il 5 gennaio il governo vietnamita avvertì la WHO che, a cominciare dall’ottobre precedente, negli ospedali di Hanoi e dintorni era in atto un forte flusso di persone con problemi respiratori. In particolare, furono i bambini a essere colpiti. Tra il 2004 e il 2005 il virus uscì dall’Asia e colpì alcuni Paesi europei, diffondendo il panico in tutto il mondo. Al 31 dicembre 2009 risultano infettate da H5N1 in 50 Paesi 397 persone. I numeri non sono elevati, ma la mortalità si è rivelata molto alta: 249 casi. In molti pazienti, la malattia causata da H5N1 ha un decorso particolarmente aggressivo. Fino a oggi la WHO ha registrato una letalità del 61%, ma conosciamo ancora molto poco di questa malattia e soprattutto non sappiamo come si presenterà in futuro, visto che il virus è portato a mutare rapidamente e in modo imprevedibile (Writing committee 2008).
Proprio questa capacità del virus di mutare rapidamente rappresenta la maggiore minaccia per gli esseri umani e il numero dei casi di influenza aviaria nell’uomo è rimasto limitato perché l’agente patogeno non ha compiuto il secondo salto, ovvero non è diventato capace di trasmettersi da persona a persona. Attualmente, per contagiarsi si deve entrare in contatto con le secrezioni di uccelli infettati e per questo si ammalano soprattutto le persone che vivono a stretto contatto con gli animali.
Questo secondo salto è stato compiuto invece da un altro virus influenzale denominato A H1N1v. La vicenda iniziò a metà marzo del 2009 quando dal Messico furono segnalati alla WHO i primi casi di una malattia dai sintomi simili a quelli dell’influenza. I casi si moltiplicarono rapidamente e, nel giro di un mese, nella sola Città di Messico si contavano oltre 850 pazienti con polmonite, di cui 59 in seguito deceduti. Ad aprile arrivarono le prime segnalazioni dagli Stati Uniti, mentre l’agente patogeno veniva isolato e identificato: si trattava di un virus dell’influenza A sottotipo H1N1. Virus di questo sottotipo erano stati in circolazione nel mondo negli anni precedenti, ma l’analisi genetica mostrò che questo era diverso da tutti gli altri: infatti, proveniva dagli animali e da poco aveva compiuto il salto di specie, diventando capace di infettare l’uomo (Peiris, Poon, Guan 2009). Questo vuol dire che quasi nessuno presenta un’immunità specifica per questo virus. Ma c’è di più: il virus ha sviluppato anche la proprietà di passare da essere umano a essere umano per via aerea. Queste due caratteristiche lo rendono il candidato ideale per scatenare una pandemia influenzale, come si è puntualmente verificato. Alla fine di aprile i Paesi interessati dall’epidemia erano 11, alla fine di maggio diventarono 53, con oltre 15.500 casi confermati. A giugno la WHO decise di innalzare il livello di allerta alla fase 6, chiaro segnale del fatto che il mondo era di fronte a una nuova pandemia influenzale. A ottobre si smise di contare i casi, perché ormai troppi.
Le pandemie influenzali precedenti sono state caratterizzate da un’elevata mortalità. La Hong Kong, che ha colpito tra il 1968 e il 1969 ed è stata di gravità contenuta, ha causato un milione di morti in più rispetto all’influenza stagionale. Inoltre, tali pandemie hanno causato elevati disagi e danni economici consistenti. Preoccupata da questi precedenti, la WHO ha spinto i governi nazionali a prepararsi all’arrivo dell’influenza A H1N1, innanzitutto predisponendo una scorta di vaccini adeguata. Ma la pandemia si è dimostrata diversa dalle precedenti, diffondendosi soprattutto tra i giovani e arrivando a interessare, secondo alcune stime (Miller, Hoschler, Hardelid et al. 2010), almeno un quarto dei bambini e degli adolescenti, nei primi mesi della sua diffusione, nelle regioni con alta incidenza della patologia. Comunque la mortalità nell’ondata epidemica del 2009 è stata bassa e sostanzialmente non diversa da quella delle epidemie stagionali.
La chikungunya in Italia
La chikungunya è una malattia causata da un arbovirus, ovvero un virus che viene trasmesso dalla puntura di artropodi, una classe di animali di cui fanno parte le zanzare. In particolare, a trasportare il virus della malattia sono le zanzare del genere Aedes, come Aedes Aegypti, che trasmette anche la dengue, o Aedes albopictus, ovvero la zanzara tigre.
Il nome della malattia tradisce la sua origine: in una lingua bantu parlata in alcune zone della Tanzania, chikungunya vuol dire «ciò che piega» ed è un termine introdotto durante un’epidemia che ha colpito il Paese africano nel 1952-53. A ‘piegare’ il malato sono dolori particolarmente forti alle ossa e alle articolazioni, che possono permanere per mesi dopo l’infezione. Oltre ai dolori, i sintomi della malattia sono febbre alta, brividi, cefalea, nausea, vomito e si manifestano dopo un periodo di incubazione che va da 3 a 12 giorni. Le complicanze più gravi sono rare e possono essere di natura emorragica (ma non in modo così serio come nella dengue) entro 3-5 giorni, o neurologica, soprattutto nei bambini. In rarissimi casi la chikungunya può essere fatale, soprattutto in soggetti anziani con sottostanti patologie di base. Non esiste vaccino e neppure una cura specifica.
Fino agli anni Ottanta del 20° sec. la chikungunya aveva colpito alcune zone dell’Africa subtropicale e dell’Asia, tra cui India, Vietnam, Giava. Negli ultimi anni una grande epidemia si è registrata in Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano, in particolare sull’Isola della Riunione, territorio francese d’oltremare dove tra il 2005 e il 2006 si sono avuti oltre 200.000 casi, pari a un terzo della popolazione. Dopo di allora, alcuni casi sono stati segnalati in diversi Paesi europei, anche in Italia, ma si trattava di persone che avevano contratto l’infezione nelle zone epidemiche e si erano ammalate dopo il rientro nel Paese di origine. Durante l’estate del 2007 però è accaduto qualcosa di imprevisto. Tra Castiglione di Cervia e Castiglione di Ravenna, sulle due sponde opposte dello stesso fiume romagnolo, è scoppiato un focolaio epidemico di chikungunya: 197 casi sospetti e 166 confermati dall’inizio di luglio a tutto settembre. Non più, dunque, un singolo caso di importazione, ma l’instaurarsi di una catena di trasmissione, la prima in un Paese occidentale. E sempre nel mese di settembre sono risultate positive all’infezione tre persone residenti nello stesso stabile a Bologna, che non avevano viaggiato all’estero né si erano recate nella zona del focolaio epidemico romagnolo.
Che cosa era successo? La ricostruzione fatta dagli epidemiologi fa ritenere che una persona infettata dal virus, giunta dall’India, sia stata punta da una zanzara tigre che poi ha punto qualche altra persona trasmettendo il virus. E quindi una persona infettata in Romagna si sarebbe recata a Bologna dando origine, sempre a seguito di una puntura di zanzara, a un secondo piccolo focolaio. Il fatto che un virus trasmesso da artropodi inizi a diffondersi in una zona dove non è presente in origine, ma dove è presente un vettore capace di trasmetterlo, non è un fenomeno nuovo. Nel 1997 a Grosseto una donna si era ammalata di malaria in seguito alla puntura di una zanzara anofele, ancora presente nella zona, che le aveva trasmesso il parassita dopo aver punto una bambina residente a poca distanza e da poco rientrata dall’India dove aveva contratto la malattia. Ma si era trattato di un caso isolato. Un episodio simile si è verificato nel 2006 in Corsica. Un precedente ben più importante è rappresentato dal West Nile virus, un altro virus trasmesso da zanzare, stabilmente presente negli Stati Uniti dal 1999 (v. oltre). Al momento in cui scriviamo ancora non sappiamo se la chikungunya riemergerà nuovamente in Italia. Ciò è teoricamente possibile se, al ripresentarsi della stagione calda, zanzare nate da uova infettate dal virus torneranno a pungere esseri umani (Rezza, Nicoletti, Angelini et al. 2007). Questo fenomeno, definito overwintering, è stato individuato per es., negli Stati Uniti per il West Nile virus.
Ci si è chiesti perché un’epidemia locale si sia verificata in una specifica zona d’Italia e non in altre zone d’Europa, dove si sono avuti casi di chikungunya in persone che tornavano da zone endemiche. Tra le cause ipotizzate c’è la cosiddetta sincronia stagionale. Molti dei casi provenienti dalle isole dell’Oceano Indiano sono rientrati in Europa durante il nostro inverno, che in quelle zone corrisponde alla stagione umida e quindi al picco epidemico. Una volta rientrati in Europa, però, la probabilità di essere punti da zanzare era praticamente nulla. Per contro, la persona che avrebbe dato origine all’epidemia in Romagna proveniva dall’India, dove l’intensità epidemica e l’attività delle zanzare si erano mantenute costanti nel corso dell’anno, ed era rientrata in Italia in giugno, quando le zanzare sono in piena attività. Inoltre, ed è forse l’aspetto più rilevante, la densità di zanzare tigre nell’area colpita è particolarmente alta. E vale la pena ricordare che anche la zanzara tigre, come il virus chikungunya, non è originaria dell’Italia. Importata dall’Asia in Europa probabilmente attraverso il commercio di copertoni usati, la zanzara tigre è arrivata in Italia nel 1990, dove ha apparentemente trovato un ambiente così favorevole da diffondersi rapidamente in tutta la penisola.
Infine, l’epidemia di chikungunya rappresenta un ulteriore esempio di come, in questo inizio di 21° sec., la velocità degli spostamenti possa favorire l’espandersi di alcune epidemie. Se il paziente indiano avesse impiegato due mesi (invece di un giorno) per arrivare dall’India a Castiglione di Cervia, il virus sarebbe stato eliminato dal suo organismo ben prima di giungere a destinazione, e non si sarebbe quindi potuta innescare nessuna nuova catena di contagio.
Microrganismi resistenti ai farmaci: la tubercolosi XDR
Farmaci e vaccini contro le malattie infettive sono sempre più efficaci. Tuttavia, proprio nel momento in cui le cure migliorano, nasce una nuova minaccia per la nostra salute: l’emergere di microrganismi resistenti all’azione dei farmaci. Lo sviluppo di ceppi resistenti può essere considerato una risposta evolutiva alla pressione selettiva dei farmaci, quando questi non riescano a sopprimere completamente la riproduzione dei microrganismi. Quindi, fattori che possono favorire questo fenomeno sono la prescrizione inadeguata dei farmaci antinfettivi (per es., dosi inappropriate o scelta di farmaci solo parzialmente efficaci), la loro assunzione irregolare o l’abbandono della terapia, la scarsa qualità dei farmaci utilizzati.
Sta di fatto che recentemente sono emersi numerosissimi ceppi microbici resistenti ai farmaci. Si calcola che il 20,9% delle malattie infettive emerse nel corso degli ultimi sessant’anni sia dovuto a batteri o rickettsie (microrganismi di complessità intermedia tra i virus e i batteri) resistenti ai farmaci e che questa percentuale sia aumentata notevolmente negli ultimi anni. Le malattie infettive più importanti, come le malattie diarroiche, le infezioni del tratto respiratorio, le malattie a trasmissione sessuale e le infezioni ospedaliere, stanno conoscendo un aumento di batteri resistenti. Alcuni esempi: Streptococcus pneumoniae resistente alla penicillina, Staphylococcus aureus resistente alla meticillina, l’enterococco resistente alla vancomicina, la salmonella multiresistente. Nel primo decennio del 21° sec. il fenomeno delle infezioni farmaco-resistenti ha cominciato a interessare in modo significativo anche le infezioni virali. Un esempio importante è rappresentato dall’HIV, il virus responsabile dell’AIDS. Alla fine degli anni Novanta del 20° sec. è entrata nella pratica clinica un’efficace terapia di questa infezione basata sull’uso combinato di tre classi di farmaci, ma dopo meno di dieci anni sono già apparsi ceppi di virus resistenti a tutti o quasi i farmaci disponibili.
Un particolare allarme di sanità pubblica è stato recentemente causato dalla diffusione di ceppi di micobatterio tubercolare resistente ai farmaci. La tubercolosi è un grande problema a livello globale. Basti pensare che 9 milioni di persone ogni anno vengono colpiti dalla malattia e circa 2 milioni muoiono per cause correlate. La tubercolosi è, d’altra parte, una patologia prevenibile e curabile grazie agli antibiotici, a patto di avere una diagnosi tempestiva e di assicurare un trattamento completo, che prevede la somministrazione contemporanea di più farmaci (in genere almeno quattro), per un congruo periodo di tempo. Purtroppo, accade spesso che il trattamento prescritto non sia corretto o che non venga seguito adeguatamente.
Le forme resistenti ai singoli farmaci non rappresentano in genere un problema rilevante. Non è così invece per la tubercolosi MDR (MultiDrug-Resistant) e la tubercolosi XDR (eXtensively Drug-Resistant). La prima è una forma della malattia resistente a isoniazide e rifampicina, i due principali farmaci di prima linea per il suo trattamento. La seconda è una forma resistente non solo ai farmaci di prima linea, ma anche ai fluorochinoloni e ai farmaci iniettabili di seconda linea (Hamilton, Sterling, Blumberg et al. 2007). In sostanza si tratta di una tubercolosi non trattabile, a causa della quale si rischia di tornare indietro nel tempo, quando gli antibiotici ancora non c’erano e la malattia provocava una mortalità del 50%.
La tubercolosi MDR è più diffusa di quanto si pensi. La più grande indagine su questa forma resistente ai farmaci è stata condotta dalla WHO (Wright, Zignol 2008) tra il 2002 e il 2006 in 83 Paesi. I dati, che sono stati resi noti a fine febbraio 2008, indicano che solo nel 2006 si sono verificati quasi 500.000 casi di tubercolosi MDR, circa il 5% di tutti i casi mondiali di tubercolosi. In alcune aree del mondo però l’incidenza di questo ceppo resistente è molto più alta; in particolare in alcune zone dell’ex Unione Sovietica, dove ha raggiunto percentuali mai riscontrate in nessun’altra parte del mondo. A Baku, in Azerbaigian, per es., il 22,3% dei nuovi casi di tubercolosi apparsi tra il 2002 e il 2006 era resistente ai normali farmaci; in Moldavia il 19,4%; nell’oblastʹ di Doneck (Ucraina) il 16%. Sono percentuali molto più alte di quelle che gli esperti, anche i più pessimisti, si aspettavano. Una delle cause di questo fenomeno sta nel cattivo funzionamento dei servizi sanitari in quei Paesi. Spesso l’approvvigionamento dei farmaci non è sistematico, la loro qualità non ottimale e mancano servizi che controllino la regolarità e il completamento della cura. Inoltre, i laboratori spesso non sono in grado di eseguire i test di sensibilità ai farmaci, necessari per poter impostare cure mirate delle forme resistenti.
Purtroppo, oltre al costo in termini di vite umane, il fenomeno ha anche un costo sociale ed economico. Curare la tubercolosi MDR, infatti, è molto più complicato: il trattamento dura circa due anni contro i 6-8 mesi della tubercolosi che risponde ai farmaci, mentre i costi salgono da 3 a 100 volte, a seconda del Paese e del tipo di resistenza del ceppo batterico. Sappiamo inoltre che una parte significativa delle tubercolosi classificate come MDR è costituita da tubercolosi XDR. Sulla base di casi sporadici negli Stati Uniti, in Lettonia, in Russia, i Centers for diseases control and prevention degli Stati Uniti hanno elaborato per la prima volta nel 2006 una definizione di questa forma di tubercolosi. Mancano ancora dati sistematici sulla diffusione di tale patologia, ma a oggi la tubercolosi XDR è stata segnalata in almeno 45 Paesi, inclusa l’Italia. La sua prevalenza peraltro varia molto nelle diverse aree geografiche. Nei Paesi dell’ex Unione Sovietica, per es., la tubercolosi XDR potrebbe rappresentare circa il 5% dei casi di tubercolosi, mentre questa percentuale è verosimilmente inferiore all’1% nei Paesi dell’Europa occidentale (circa lo 0,3% in Italia) e in America Settentrionale. Infine, oggi sappiamo che questa patologia può anche determinare eventi epidemici.
La più grande epidemia conosciuta al momento di tubercolosi XDR è quella che si è avuta tra il 2005 e il 2006 in una povera comunità zulu, stanziata a Tugela Ferry, una zona rurale della Repubblica Sudafricana. L’epidemia è stata riconosciuta quando i medici dell’ospedale Church of Scotland di quella regione hanno cominciato a notare una mortalità molto alta tra i pazienti affetti sia dalla tubercolosi sia dall’HIV. La correlazione tra queste due patologie è nota da tempo: l’infezione da HIV indebolisce il sistema immunitario rendendo le persone più vulnerabili al batterio della tubercolosi e più difficili da curare. E nella Repubblica Sudafricana, Paese con alta incidenza di tubercolosi, circa 5,5 milioni di persone sono positive per l’HIV. Poiché i pazienti dell’ospedale sudafricano non rispondevano alle terapie, i medici hanno deciso di analizzarne l’espettorato per verificare la presenza di ceppi batterici resistenti ai farmaci. I risultati si sono rivelati molto preoccupanti: tra gennaio 2006 e marzo 2007, su 1539 pazienti con i sintomi della malattia, 221 avevano una tubercolosi multiresistente e 53 avevano una tubercolosi XDR. Di questi ultimi, 52 sono morti con una media di sopravvivenza di 16 giorni dopo la diagnosi. Da quel primo studio fino ai primi mesi del 2008 sono stati individuati a Tugela Ferry 217 casi di tubercolosi XDR, con una mortalità dell’84% (Koenig 2008).
L’epidemia di Tugela Ferry ha rappresentato un importante campanello di allarme sui rischi di diffusione della tubercolosi XDR. La WHO ha costituito una task force che ha subito stilato alcune raccomandazioni per affrontare il problema, come, per es., effettuare un controllo maggiore delle infezioni sia da HIV sia da micobatterio tubercolare e organizzare laboratori più efficienti. Queste misure hanno già prodotto alcuni cambiamenti, come, per es., nel caso dei test per la resistenza ai farmaci antitubercolari, fino a due anni fa utilizzati pochissimo nella Repubblica Sudafricana (in quanto costosi e lunghi da effettuare), a favore di un immediato inizio della terapia, senza altre attese. Oggi molti pazienti sudafricani con tubercolosi vengono sottoposti al test per capire se il ceppo batterico che ospitano è resistente, mentre iniziano la terapia con i farmaci di prima linea. Rimane il problema di come trattarli. I pazienti vengono attualmente isolati all’interno di ospedali recintati e controllati da guardie: bisogna evitare infatti in tutti i modi che possano entrare in contatto con persone sane e trasmettere loro il batterio super resistente. Ma per quanto tempo si può tenere isolato un paziente? E se la cura, che dura circa due anni, non ha effetto, che cosa si deve fare? Bisogna continuare a tenere le persone rinchiuse? Intanto, già si sono verificati casi di fuga: nel dicembre 2007, 48 pazienti sono scappati da un foro praticato nel recinto di un ospedale sudafricano. Otto di essi non sono mai più tornati.
Questa epidemia ha probabilmente avuto un importante precedente in Italia. Negli anni Novanta del 20° sec. si è verificata nell’area di Milano un’epidemia di tubercolosi MDR tra pazienti con infezione da HIV, con probabile diffusione del contagio in ambito ospedaliero, che determinò oltre cento casi. Rianalizzati con i criteri odierni, quei casi si potrebbero nella grande maggioranza classificare come casi di tubercolosi XDR.
L’epidemia sudafricana segnala anche un altro problema. Finora si è ritenuto che il fenomeno dello sviluppo di resistenze fosse praticamente limitato ai Paesi sviluppati, e ciò in relazione a un elevato uso di farmaci antinfettivi in queste aree. Tuttavia, parallelamente all’aumentare della disponibilità di farmaci in altre aree del mondo, aumenta anche la probabilità che in queste aree emergano microrganismi farmaco-resistenti, in particolare se non possono essere garantite condizioni ottimali di controllo delle terapie.
Malattie infettive e clima
È ormai un dato di fatto che il clima sta cambiando. L’IPCC, come detto (Climate change 2007, 2007), stima che finora il pianeta si sia riscaldato di 0,7 °C e prevede nel corso del 21° sec. un rialzo termico a livello mondiale di circa 3 °C. Questo innalzamento delle temperature avrà un impatto anche sulla nostra salute. Anzi, lo sta già avendo: la WHO ha stimato che gli effetti dei cambiamenti climatici prodotti dalla metà degli anni Settanta alla fine degli anni Novanta del 20° sec. hanno causato 150.000 morti nel solo 2000 e quindi, per deduzione, un numero analogo ogni anno. Secondo un rapporto stilato da una commissione del governo britannico, però, questi numeri sono destinati a salire e nel 2030 la mortalità raggiungerà le 300.000 persone l’anno (Stern 2007).
Tra le varie conseguenze che un rialzo termico avrà sulla salute degli esseri umani c’è l’aumento dell’incidenza di alcune malattie infettive, in particolare quelle trasmesse da animali. In molte di queste patologie, perché avvenga il passaggio all’uomo c’è bisogno di quattro elementi: l’agente infettivo, l’animale che lo trasmette (chiamato vettore), l’animale nel quale vive normalmente il microrganismo (chiamato serbatoio) e l’uomo. Le malattie trasmesse da un vettore sono responsabili del 22,8% delle malattie emergenti degli ultimi sessant’anni, ma se si guarda agli ultimi dieci anni si vede che la percentuale arriva al 28,8% (Jones, Patel, Levy et al. 2008). Si ritiene che tale aumento sia dovuto alle anomalie climatiche di questo periodo. Infatti, sono proprio queste malattie infettive che risentono maggiormente dei cambiamenti climatici. Il motivo sta nel fatto che sia gli agenti infettivi sia gli animali che fungono da vettori hanno un ambiente ottimale per crescere, sopravvivere, spostarsi e disseminarsi. Le precipitazioni, la temperatura, l’umidità e l’intensità delle radiazioni ultraviolette sono parte dell’ambiente. Ognuno di questi fattori può quindi avere un impatto sull’epidemiologia delle malattie infettive (Committee on climate 2001).
I microrganismi, per es., si riproducono con una velocità proporzionale alla temperatura del luogo in cui si trovano. Sotto certe temperature la loro replicazione si arresta del tutto. Ma un aumento può anche far crescere il tasso di replicazione del vettore (come la zanzara) e il numero di volte in cui punge (se fa molto caldo, la zanzara ha bisogno di più liquidi). Ci sono poi effetti indiretti dei cambiamenti climatici sulle malattie, come la modificazione degli ecosistemi locali. Un esempio di come funzioni questo meccanismo ci è fornito dall’epidemia di febbre della Rift Valley scoppiata in Kenya tra dicembre 2006 e gennaio 2007. La febbre della Rift Valley è una malattia virale trasmessa dalla puntura di una zanzara che depone le uova in luoghi umidi. La ricostruzione di come sia scoppiata l’epidemia ha messo in evidenza come tra ottobre e dicembre del 2006 quella zona dell’Africa sia stata battuta da piogge torrenziali: la quantità di precipitazioni in quei mesi è stata 13 volte superiore a quella che si è avuta nello stesso periodo dell’anno precedente. Ciò ha favorito la formazione di pozze nelle depressioni del terreno. I depositi di acqua si sono rivelati ideali per la deposizione delle uova delle zanzare che portano il virus responsabile della malattia; questo ha determinato un aumento nella popolazione di questi insetti e, di conseguenza, anche nella trasmissione del virus.
I modelli di cosa accadrà alla nostra salute con il cambiamento del clima sono stati disegnati sulla base degli effetti di El Niño, un fenomeno climatico ciclico che consiste in un processo di inversione delle correnti equatoriali nelle acque di superficie più calde del Pacifico e nelle correnti di aria umida (McMichael 2001). El Niño si ripresenta circa ogni cinque anni e porta con sé eventi meteorologici estremi, simili a quelli che ci si attende nei prossimi anni a causa del cambiamento climatico. Quello che si prevede è l’estendersi delle aree in cui colpiscono alcune malattie, come la malaria e la dengue.
La malaria è uno dei grandi problemi di sanità pubblica del mondo. È causata da quattro specie diverse di un protozoo chiamato plasmodio. Il plasmodio passa da una persona all’altra attraverso la puntura di una zanzara, l’anofele, di cui esistono numerose specie distribuite in aree geografiche diverse. La malattia si presenta con periodi ricorrenti di febbre alta accompagnata da brividi. Ogni anno causa da 400 a 500 milioni di casi e oltre un milione di morti, per lo più bambini. Dopo un periodo in cui sembrava sotto controllo, negli ultimi anni la malaria è tornata a colpire duramente in varie parti del mondo, anche in zone dove normalmente non era presente a causa delle condizioni climatiche sfavorevoli alla presenza della zanzara anofele, come nelle aree montuose dell’Africa. Scienziati hanno sviluppato alcuni modelli per predire quale sarà l’effetto dei cambiamenti climatici sulla malaria nei prossimi anni. Molti di questi modelli prevedono una moderata espansione geografica della potenziale trasmissione della malattia nei prossimi trent’anni, con una trasformazione più evidente verso le fine di questo secolo. Uno scenario disegnato sulla base dei dati forniti dal progetto MARA (MApping malaria Risk in Africa) e dei modelli di cambiamento climatico prevede che, se la popolazione non aumenterà di numero, nel 2100 in Africa le persone esposte alla malaria saranno il 16-28% in più al mese rispetto a oggi (Tanser, Sharp, le Sueur 2003). Secondo un’analisi dei costi economici dei cambiamenti climatici commissionata dal governo britannico, un aumento di 2 °C potrebbe esporre dai 40 ai 60 milioni di persone in più alla malaria nel solo continente africano (Stern 2007).
La dengue, invece, è considerata la più importante delle malattie virali trasmesse da artropodi. I sintomi dell’infezione sono febbre, mal di testa, dolore ai muscoli e alle ossa. In alcuni casi la malattia evolve provocando emorragie. Il tasso di mortalità per la dengue emorragica è del 5%. La malattia è causata da quattro specie di un virus chiamato flavivirus, trasmesso da una persona all’altra attraverso la puntura della Aedes Aegypti, che si nutre soprattutto di sangue umano e vive per lo più nelle zone urbane. Il numero delle infezioni è cresciuto enormemente in tutto il mondo negli ultimi anni. Basti pensare che prima del 1970 solo nove Paesi avevano sperimentato epidemie di questa malattia, mentre oggi la dengue è endemica (ovvero è costantemente presente) in oltre cento Paesi sparsi tra Africa, America, Mediterraneo orientale, Sud-Est asiatico e Pacifico occidentale. Alcuni ricercatori hanno calcolato cosa accadrebbe nel caso di un riscaldamento del pianeta: tutti i modelli prevedono un sostanziale aumento della popolazione a rischio di ammalarsi di dengue (McMichael, Woodruff, Hales 2006). Secondo uno dei modelli, per es., nelle regioni in cui la malattia è già presente un aumento della temperatura di 1 °C determinerebbe un aumento del rischio di epidemia tra il 31% e il 47%. Un aumento di 2 °C provocherebbe un innalzamento del rischio di epidemie di dengue alle alte latitudini e in montagna e una maggiore durata della stagione di trasmissione.
Naturalmente, molte altre malattie possono conoscere un’espansione delle aree in cui colpiscono in seguito ai cambiamenti climatici. Per alcune questo è già avvenuto, come nel caso dell’encefalite causata dal West Nile virus. Questo virus è originario dell’Africa e viene trasmesso dalla puntura di una zanzara del genere Culex. Nel 1999 un’epidemia di meningoencefalite si verificò nella città di New York. A causarla fu appunto il West Nile virus, probabilmente perché una persona infetta arrivata dall’Africa era stata punta da una zanzara Culex, una specie presente anche in America. Una volta arrivato, però, il virus trovò le condizioni ideali per la sua sopravvivenza. Dallo Stato di New York viaggiò lungo la costa orientale, si spostò nella parte centrale degli Stati Uniti e arrivò fino a ovest. Nel 2007, secondo i Centers for diseases control and prevention, il West Nile virus aveva colpito 3630 persone in 43 Stati.
Esiste una decina di altre encefaliti causate da virus trasmessi da zanzare. Alcune sono presenti in Africa, altre in Asia, altre ancora in America Latina. Tutti questi virus hanno uccelli o roditori come ospiti naturali, ma possono passare all’uomo quando il loro normale ambiente viene disturbato o subisce mutamenti. Si ritiene che molte altre malattie infettive possano espandere la propria area a causa del cambiamento del clima, come la febbre gialla, le malattie trasmesse da zecche (per es., la malattia di Lyme o alcune encefaliti), le malattie trasmesse da roditori (per es., la leptospirosi e la polmonite da hantavirus), le malattie trasmesse da altri animali (come la leishmaniosi, la schistosomiasi, il morbo di Chagas), le malattie trasmesse dall’acqua (come la criptosporidiosi e il colera), le malattie trasmesse per via aerea (come la coccidioidomicosi e l’influenza).
C’è da ricordare però che qualcosa si può fare: la trasmissione delle malattie infettive è influenzata dalle condizioni socioeconomiche di una popolazione nonché dallo stato della sanità pubblica di una nazione. Si è visto infatti che la sorveglianza delle persone infette e il loro trattamento in zone isolate, il controllo delle attività di deforestazione e delle acque di superficie, la presenza di programmi di sorveglianza della popolazione delle zanzare potrebbero frenare l’aumento del rischio di infezione legato ai cambiamenti climatici.
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Si veda inoltre:
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