Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Seicento è un secolo che si apre sotto il segno dell’ambiguità, specialmente in Italia, all’indomani di quella che Carlo Maria Cipolla ha definito l’“estate di San Martino” dell’economia italiana e alla vigilia di quella che altri storici economisti hanno detto essere la “rifeudalizzazione del XVI secolo”. Ma tale secolo è anche quello della “rivoluzione scientifica”, metodologica ed epistemologica, e, in campo medico, quello della “prima rivoluzione biologica”, iatrofisica e iatrochimica.
Se per la Spagna il cinquecentesco siglo de oro, sfavillante di ricchezza per l’oro d’importazione americana, si è realizzato in spese smisurate, fautrici del fasto barocco (e precorritrici d’infausta decadenza), nell’Italia ingemmata alla corona spagnola, nei territori con capitali a Milano e Napoli, la congiuntura economico-politica è fortemente contraddittoria. Le dovizie e superfluità dello sfarzo, proprie degli stili di vita dei ceti dominanti, si riflettono a rovescio nelle penurie e indigenze dei ceti subalterni. Rialzano il capo, accorpate, le due piaghe secolari del pauperismo e della patologia collettiva. Mentre la penisola va incontro a quel processo di marginalizzazione che giustificherà l’etichetta di “espressione geografica” conferitole nel 1814 dal cancelliere austriaco principe di Metternich, la popolazione che abita lo “stivale” è travagliata da crisi di sussistenza e pestilenza congiunte.
Le pestilenze che affliggono l’Italia del Seicento sono soprattutto la peste di Milano del 1629-31 e la peste di Napoli del 1656. La prima, portata dai lanzichenecchi inviati dall’imperatore Ferdinando II a cingere d’assedio Mantova, entra in Milano il 22 ottobre 1629. La seconda, arrivata dalla Sardegna (giunta ad Alghero da Barcellona), penetra in Napoli, in Roma e in tutta l’Italia centro-meridionale (fatta eccezione per la Sicilia, ma con in più la Repubblica di Genova) colpendo in pratica tutte le regioni risparmiate dall’ondata epidemica di venticinque anni prima.
La peste di Milano è – come è noto – quella descritta due secoli dopo nelle pagine manzoniane. Menzionati nei Promessi sposi sono tre illustri medici del tempo, Ludovico e Senatore Settala, padre e figlio, e Alessandro Tadino. A quest’ultimo si deve il Raguaglio dell’origine et giornali successi della Grande Peste contagiosa, venefica et malefica, seguita nella Città di Milano et suo Ducato nell’anno 1629 fino all’anno 1632. Tale resoconto, pubblicato nel 1648, è tra le fonti primarie del romanzo di Manzoni.
Scrive Tadino, nel capitolo XX del Raguaglio, ch’egli e Settala senior, sul finire del 1629, al primo profilarsi della pestilenza che sarebbe costata a Milano 60 mila morti, “quando altri medici la negavano o ne dubitavano, avvisarono che veramente la peste era in Milano, e però della plebe n’ebbero villanie, e poco mancò non fossero percossi”. Aggiunge che, per intimare alla folla l’osservanza delle grida sanitarie, si dovette “far piantare una forca eminente poco discosta dal mercato”, affinché si sapesse “che il Tribunale supremo della Sanità, in simili casi di contradire i suoi ordini, suole curare la peste, per servizio della pubblica salute, con ferro, con fuoco et forca”.
Gli ufficiali di sanità, con in testa i due Settala e il Tadino, sono in prima linea sul fronte antipestilenziale. Sono tra i pochi a non fruire della sola risorsa veramente efficace per poter scampare alla peste: la fuga. Recita un antico aforisma medico, risalente all’autorità di Galeno: ““ in temporibus mortalitatis, cito, longe, tarde ”” (in tempi di moria pestilenziale, fuggi presto, va lontano, torna più tardi che puoi). Intorno a sé, gli ufficiali sanitari vedono fuggire tanta gente, perfino i padri che abbandonano i figli, o i figli i genitori, finanche i medici che abbandonano i pazienti e i preti che abbandonano i malati e i morenti. La peste non è solo una malattia ad alto tasso di mortalità, un disastro demografico, un dissesto economico-sociale. Essa è anche una tragedia esistenziale, un guasto civile e morale.
Scrive il canonico Giuseppe Ripamonti, “istoriografo milanese”, in De peste quae fuit anno 1630, cronistoria pubblicata a Milano nel 1640, che “scarsi erano i medici, essendosi nascosti o simulando di non essere tali”. Stigmatizza il canonico: “Benché si promettessero stipendi generosissimi, non si riusciva a cavar fuori dalle ville parecchi di loro, i quali si tenevano nascosti, aborrendo la mercede della morte”. È la peste il momento della verità, quello in cui si dimostra lo zelo di una professione, “di un’arte il cui nome soltanto è sollievo e farmaco agl’infermi”.
Se il medico – anche l’impotente medico del Seicento – è la prima e migliore medicina, la peste è la prima e peggior malattia. Ma l’impotenza della medicina seicentesca è anche insipienza. Nonostante che da quasi un secolo il medico veronese Girolamo Fracastoro ne abbia certificato la contagiosità nell’opera De contagiose et contagiosis morbis, pubblicata a Venezia nel 1546, è ancora dominante il paradigma aerista, secondo cui la peste, malattia epidemica a diffusione ubiquitaria, cioè “sparsa dappertutto”, è considerata dipendente da una causa anch’essa “sparsa” dovunque, come l’aria che si respira, qualitativamente alterata in “mal’aria” per “malefica” influenza celeste (astrale) o per venefica “corruzione” terrestre (climatica).
Peraltro, mentre la scienza medica è ancora fallimentare, la sanità pubblica, ispirata dall’alternativo e competitivo paradigma contagionista, è ben avvertita che l’unica risorsa a disposizione è la prevenzione del contagio attraverso una rete d’informazioni e una serie di misure contumaciali, d’isolamento, di quarantena, di controllo dei “sospetti” e di segregazione degli “infetti” (nei lazzaretti). La prevenzione, non la terapia, è la sola arma che può non fallire e che può anzi, se ben usata, talora o spesso riuscire vincente.
La peste – oggi sappiamo – è una malattia infettiva il cui agente causale è un bacillo identificato al microscopio da Alexandre Yersin nel 1894. Nel 1898 Paul-Luis Simon dimostrò che esso è veicolato dalla “pulce indiana” (Xenopsylla cheopis) trasmettitrice dell’infezione dai topi (Rattus rattus, Rattus norvegicus) all’uomo.
Di tutto ciò nulla si sa nel Seicento, quando topi e pulci sono presenze abituali, per così dire parafisiologiche, in ambienti di vita igienicamente precaria per gran parte della società. Presenti, gli uni, in fogne e granai, presenti, le altre, nei cenci e nelle “robe”, topi e pulci non appaiono come possibili cause o concause di malattia. Si sa solo che la peste si appalesa con i “bubboni” (tumefazioni linfoghiandolari) come peste bubbonica o con “gli sbocchi di sangue”(emottisi) come peste polmonare, che il suo decorso è acuto o acutissimo e che il suo esito è infausto in altissima percentuale. La clinica medica ignora totalmente eziologia e patogenesi.
Questo è il quadro che emerge dalle descrizioni coeve, sia da quelle del Ripamonti e del Tadino sulla peste di Milano del 1630, sia da quelle del cardinale Girolamo Gastaldi e del medico ebreo Jacob Zahalon sulla peste di Roma del 1656. Altrettanto dicasi per quanto attiene alla peste di Londra del 1664, descritta cent’anni dopo dal libellista Daniel Defoe.
Il Seicento merita dunque in pieno il nome di “secolo della peste”, condiviso peraltro con il Trecento, teatro della pandemia del 1347-50 descritta da Boccaccio nel Decameron. Ma sotto l’aspetto epidemiologico sono anche altre le malattie collettive che logorano il corpo dell’Europa lungo tutto l’arco secolare, a partire dalla guerra dei Trent’anni (1618-48). La guerra si aggiunge alla fame, ed entrambe alla peste, nel riproporre il triplice flagello esorcizzato tre secoli prima dalla preghiera dell’uomo medioevale: “a fame, peste et bello libera nos, Domine ” (O Signore, liberaci dalla fame, dalla peste e dalla guerra).
Gli spostamenti degli eserciti facilitano il diffondersi delle epidemie così come lo favoriscono gli scambi commerciali in una fase storica di crescente mercantilizzazione. Ma sono anche gli scambi sessuali, dilaganti tra i soldati e le tante “femine da coito impuro” al seguito delle milizie, a diffondere in forma epidemica le malattie veneree, tra cui al primo posto la sifilide. Quanto la peste è malattia mortale, che nell’immaginario collettivo è sinonimo e metafora di “morte fisica”, tanto la sifilide è malattia vergognosa e peccaminosa, percepita come sinonimo e metafora di “morte morale”.
Ancora tra le milizie serpeggiano, mietendo vittime, “i morbi castrensi”, che pullulano negli accampamenti, favoriti dalla promiscuità e dalla scarsa igiene. Al primo posto è la “febbre petecchiale”, cioè il tifo esantematico, che va e che viene dentro e fuori gli eserciti, coinvolgendo la popolazione civile. Esso si propaga tra gli individui parassitati da zecche e pulci, ma soprattutto dai pediculi humani corpori, i “pidocchi”. Nella sporcizia generale, anche tale presenza passa inosservata. Non sfugge però all’attenzione quella dei “pellicelli”, identificati nel 1687 quali agenti della scabbia da parte del medico Giovan Cosimo Bonomo e dallo speziale Giacinto Cestoni. Saranno poi detti “acari”, quasi fossero “atomi” di materia vivente, trasmissibili come altri secondo un modello già enunciato o riformulato dal medico Giovanni Alfonso Borelli nell’opera Delle cagioni delle febbri maligne, pubblicata a Cosenza nel 1649.
Un’altra “febbre maligna” che nel Seicento si presenta in ripetute endemie circoscritte, preannuncianti il dilagare a macchia d’olio che la malattia avrà nel secolo successivo, è il vaiolo. Dalla sua evoluzione in forma epidemica dà notizia il medico Thomas Sydenham, definito l’“Ippocrate inglese”, nell’opera De morbis epidemicis ab anno 1675 ad annum 1680, pubblicata a Londra nel 1680. La malattia ha un’impennata violenta e virulenta ammorbando soprattutto i bambini. È caratterizzata da un’alta mortalità e da gravi postumi ed esiti fra cui, tremenda, la cecità.
Morbo altamente febbrile, letale o deturpante, il vaiolo non è una malattia congenita, come sostengono i medici anticontagionisti, che attribuiscono le pustole vaiolose allo spurgo attraverso la pelle della materia peccans presente nei bambini, o persistente negli adulti, in conseguenza del peccato originale o del suo lascito residuale. Esso è invece una malattia acquisita, come affermano i medici contagionisti, che attribuiscono le medesime pustole all’espulsione transcutanea del “veleno” morboso o virus proiettato all’esterno dal moto rutilante del sangue surriscaldato e portato a ebollizione dalla febbre elevata.
L’umano genere, se dovrà attendere un secolo per iniziare a giovarsi delle cure antivaiolose (prima con la vaiolazione e poi con la vaccinazione), già nel Seicento può giovarsi di un rimedio efficace contro una malattia che in Italia alligna da secoli, ma che nel Seicento è massimizzata nella sua estensione territoriale, da nord a sud, dal delta padano all’intero Mezzogiorno e alle isole: la malattia è la malaria e il rimedio è la corteccia di china.
Come la peste e come il tifo esantematico, anche la malaria dipende dalla guerra biologica tra l’uomo e gli insetti, in questo caso zanzare (Anopheles), vettrici di ematozoi (Plasmodium vivax, malariae, falciparum), viventi nel sangue umano come parassiti dei globuli rossi, cibandosi del loro pigmento (emoglobina). Il quadro malarico dell’Italia seicentesca è quello, invariante, legato alle paludi, ai vivai di zanzare, e quell’aria nociva – mal’aria – che in esse si respira. Lo certificherà, di lì a poco, il trattato del medico archiatra Giovanni Maria Lancisi, intitolato appunto De noxiis paludum effluviis eorumque remediis, pubblicato a Roma nel 1717.
Il rimedio principale, strutturale e preventivo, è la bonifica dei terreni paludosi, da realizzare mediante opere di risanamento irriguo. Ha tentato di realizzarle, a fine Cinquecento, papa Sisto V, ma il suo tentativo è stato vanificato dalle ricorrenti alluvioni. Il papa stesso è morto di malaria, nel 1590, come poco dopo il suo successore, Urbano VIII. Il rimedio succedaneo, terapeutico o palliativo, è la scorza polverizzata della “corteccia peruviana”, importata dall’America e commercializzata in tutta l’Europa dalla spezieria del romano ospedale di Santo Spirito, gestito dai padri della Compagnia di Gesù. È la polvere loyolita ad azione febbrifuga, il cui estratto ottocentesco – il chinino – sarà il farmaco antipiretico e antimalarico di elezione fino a Novecento inoltrato.
La corteccia di china, dopo la sperimentazione clinica fatta da Sydenham, è chiamata “il rimedio inglese”. Il monopolio ne esalta il prezzo a quindici sterline la libbra. Il farmaco è per ricchi; per sfebbrare i poveri l’“Ippocrate inglese” usa il “metodo perfrigerante”, sbarazzando i malati dalle coperte più pesanti, aprendo le finestre delle loro camere, somministrando acqua d’orzo ghiacciata. I malati stanno meglio di quelli curati con il “regime termico”, che li copre di lana e li fa sudare; e quelli che guariscono, in virtù della magna vis medicatrix naturae, sono comunque più numerosi tra i primi.
Sydenam, come ogni medico d’altro rango, ha un occhio di riguardo per le malattie da opulenza, diverse dalle malattie da carenza, che affliggono la maggior parte della popolazione. Suo è il Tractatus de podagra, pubblicato a Londra nel 1683. “Podagra” è la localizzazione ai piedi della gotta, malattia a penetranza sociale altolocata, che colpisce – morbus dominorum – prevalentemente il ceto signorile, avvezzo ai pasti copiosi. Tra i “gottosi” celebri figurano personaggi quali Pietro de’ Medici, Carlo V ed Enrico VIII.
“La gotta, diversamente da altre malattie, uccide più ricchi che poveri”, scrive Sydenham, cui si deve la prima e più completa descrizione dell’attacco gottoso acuto, che egli cura con l’oppio confezionato in forma di tintura: è il laudano di Sydenham, l’unica vera risorsa contro il dolore per almeno due secoli, fino alla scoperta di metà Ottocento dell’anestesia mediante “gas esilarante”. Febbri e dolori sono i mali dell’uomo: china e laudano sono, nel Seicento, i loro rimedi sovrani.