male
Nozione complementare a quella di bene (➔) che, al pari di questa, nella storia della filosofia è stata interpretata sia in senso oggettivo, sia in senso soggettivo. Nella concezione oggettiva o metafisica, il m. è inteso come uno dei poli di una dualità interna all’essere, diviso tra i due principi antagonistici del bene e del m., oppure come esatta antitesi dell’essere, e identificato quindi con il non essere stesso. Nell’interpretazione soggettivistica, per contro, il m. perde ogni connotazione ontologica, configurandosi come l’oggetto di un giudizio di valore negativo, e come tale relativo al sistema di norme e valori su cui si fonda tale giudizio.
L’idea del m. come principio ontologico-metafisico antitetico al bene è presente in molte mitologie e filosofie arcaiche, in partic. nello zoroastrismo (o mazdeismo), caratterizzato da una concezione dualistica che contrappone alla divinità (Ahura Mazdā), quale Spirito Benefico (Spanta Mainyu), uno spirito malefico (Angra Mainyu, Arimane). La concezione dualistica dell’antica religione persiana ritorna in alcune sette gnostiche del 2° sec. d.C. (in partic. in quella di Basilide), e soprattutto nella dottrina manicheista, che concepisce tutto l’esistente come espressione di una lotta perenne tra due principi opposti: il Bene (la Luce, lo Spirito, Dio nel senso proprio della parola) e il Male (le Tenebre, la Materia, lo Spirito demoniaco). L’esistenza positiva del m. verrà riaffermata alla fine del 17° sec. da Bayle il quale – riprendendo in polemica con Leibniz le argomentazioni epicuree contro gli stoici (se gli dei volessero togliere il male dal mondo, ma non potessero farlo, non sarebbero onnipotenti; se lo potessero ma non lo volessero, sarebbero malvagi) – sostiene la superiorità dal punto di vista razionale del manicheismo, al fine di sottolineare l’incompatibilità del m., in tutte le sue forme, con l’onnipotenza divina e con la perfezione dell’Universo. Sull’idea che il m. sia altrettanto reale quanto il bene si impernia l’originale teodicea di Malebranche, il quale risolve il problema del m. e della responsabilità divina asserendo che la bontà di Dio, con la quale egli vorrebbe impedire il m., è subordinata alla sua saggezza, che gli comanda di non moltiplicare le leggi di natura con una serie di decreti ad hoc, di violazioni delle leggi generali che, sole, sarebbero in grado di impedirlo. In alcune interpretazioni della dottrina dualistica i due principi antitetici del bene e del m. non vengono intesi come realtà separate, ma ricompresi in Dio stesso; così il mistico Böhme, nel 17° sec., sottolineando la presenza in tutti gli aspetti della realtà di due principi in lotta, ossia il bene e il m., ne attribuisce la causa alla compresenza in Dio dei due principi antagonisti identificati con luce e tenebre, amore e odio, bene e male. Idee analoghe saranno riprese da Schelling nelle Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809; trad. it. Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana) in cui, richiamandosi alla distinzione da lui operata tra essenza in quanto esiste ed essenza quale semplice fondamento dell’esistenza, postula una «natura di Dio», una brama, un volere cieco e sregolato di uscire dall’oscurità, in tensione costante con il principio luminoso dell’intelletto. Essendo però in Dio questi due principi intrinsecamente uniti, non vi è in lui distinzione tra bene e m., laddove con la separazione di tali principi nell’uomo nasce la possibilità del male. L’idea che il m. sia contenuto in Dio stesso, sia pure in forma di possibilità vinta e superata, ritorna nella filosofia contemporanea con Pareyson, secondo il quale l’onnipotenza divina, in quanto assoluta, deve essere intesa anche come libertà di volere il male. Un altro filosofo contemporaneo, Jonas, nega invece l’assoluta onnipotenza divina e sceglie di risolvere il problema della realtà del m. optando per la prima delle alternative che erano state indicate da Epicuro: Dio è buono, ma non onnipotente, e quindi non è in grado di eliminare il male.
L’idea del m. come antitesi dell’essere, ossia come non essere, appare nella filosofia antica con la dottrina stoica, secondo cui ìl m., in sé, non esiste, in quanto non è altro che privazione del bene. I cosiddetti m. non sono veramente tali, in quanto necessari all’ordine dell’Universo. Così Crisippo asserisce che il rapporto bene/m. è equivalente a quello luce/ombra: «giacché essendo i beni contrari ai mali, è necessario che entrambi gli opposti si mantengano fra loro e quasi da mutuo e contrario sforzo sostenuti: ché non si dà contrario (per contrario che sia) senza l’altro contrario […]. È lo stesso caso, difatti, dell’esistenza di beni e mali, felicità e disagio, dolore e piacere» (Sulla provvidenza, IV). Il tentativo più coerente di equiparare il m. al non essere viene condotto però dal neoplatonismo. Plotino considera il m. come pura steresi, assenza, negazione del principio opposto, solo davvero esistente. In questo senso egli identifica il m. con la materia, la quale, priva di tutti i caratteri, equivale al non essere. E sarà la metafisica neoplatonica a fornire ad Agostino il quadro concettuale in cui pensare il problema del male. «Si Deus est, unde malum?», è il quesito fondamentale sul quale si interroga Agostino. Se il creatore di tutte le cose è assolutamente buono, quale è l’origine del m.? La soluzione manichea, che eleva il m. a principio contrapposto al bene, è da rifiutare in quanto inficia l’onnipotenza di Dio e priva altresì l’uomo di ogni libertà, riducendolo a teatro passivo dello scontro di principi opposti. Occorre dunque pensare che se tutto ciò che procede da Dio è buono, il m. non esiste. Tale inesistenza va intesa però in senso ontologico e metafisico, non in senso fattuale: il m. «non è una sostanza, perché se fosse una sostanza, sarebbe un bene» (Confessioni, VII, 12). Esso non appartiene al mondo dell’essere, ma a quello del non essere. È privazione, venir meno del bene, è il negativo, pensabile solo come mancanza del positivo inerente alla natura di un essere. Il m. volontario, o morale, cioè il peccato, non deriva dal fatto che l’uomo indirizza il suo volere verso un oggetto cattivo – perché non esistono cose in sé cattive – ma dal fatto che egli sceglie un bene inferiore anziché uno superiore. La possibilità del peccato inerisce alla natura umana nella sua finitezza e contingenza. Ed è in questo spazio che si dispiega la libertà di scelta. Il m. si istituisce all’interno della libertà, e la sua responsabilità è per Agostino interamente a carico dell’uomo. Questa linea di pensiero percorre tutta la filosofia cristiana, accomunando la scolastica agostiniana e quella aristotelica (non può essere che ‘m.’, asserisce Tommaso d’Aquino, significhi un qualche essere o una qualche forma o natura; esso può significare solo l’assenza del bene). Il tradizionale argomento neoplatonico secondo cui il m. non ha una realtà positiva, ma è solo privazione ed è legato alla originaria limitazione delle cose create rispetto alla perfezione e infinità di Dio, costituirà in seguito il cardine della teodicea di Leibniz, secondo il quale ciò che, considerato isolatamente, appare come un m., concorre in realtà all’armonia e alla perfezione del tutto, al pari di una dissonanza nel complesso di un brano musicale. Variamente formulata, la tesi della nullità del m. si ritrova in tutte le dottrine filosofiche che identificano l’essere con il bene, ossia con la razionalità e il dover essere (Hegel).
Nella concezione soggettivistica il m. è inteso non come realtà o irrealtà, ma come disvalore, ossia come oggetto di un giudizio negativo di valore, e implica pertanto il riferimento alle norme e ai valori sui quali si fonda tale giudizio. Eventi e comportamenti sono definiti m. non per un loro particolare status ontologico o metafisico, bensì perché entrano in contrasto con tali sistemi normativi e assiologici. Questa concezione soggettivistica si afferma soprattutto a partire dalla filosofia moderna. «L’uomo chiama buono l’oggetto del suo desiderio, cattivo l’oggetto del suo odio o della sua avversione, vile l’oggetto del suo disprezzo. Le parole ‘buono’, ‘cattivo’, ‘vile’ si intendono sempre in rapporto a chi le adopera; perché non c’è nulla di assolutamente e semplicemente tale e non c’è nessuna norma comune per il bene e per il male, che derivi dalla natura delle cose», scrive Hobbes (Leviatano, I, 6). Locke dal canto suo afferma: «Ciò che è atto a produrre piacere in noi è quello che chiamiamo bene e ciò che è atto a produrre dolore è ciò che chiamiamo male; e per nessun’altra ragione tranne la sua attitudine a produrre in noi piacere o dolore, nelle quali cose consiste la nostra felicità o infelicità» (Saggio sull’intelletto umano, II, 21, 43). L’ interpretazione del m. in termini soggettivistici verrà poi riproposta e sviluppata nella filosofia kantiana, secondo la quale bene e m. non possono essere determinati indipendentemente dalla facoltà di desiderare dell’uomo, e quindi non sono realtà o irrealtà autonome. E in questi termini Kant interpreta anche l’ineliminabile inclinazione al m. (che egli definisce «male radicale») presente nell’uomo al pari dell’inclinazione al bene, testimoniata dalla presenza della legge morale. Il «m. radicale» è la tendenza ad adottare una massima di comportamento contraria alla legge morale, pur nella consapevolezza di questa, e dunque la possibilità di contravvenire alle norme morali proprie dell’uomo. La ‘cattiveria’, in questa visione, è pertanto una scelta che dipende dalla libertà, è una «inversione dell’ordine morale dei moventi» consistente nel subordinare la legge morale all’amore di sé. Sarà questa, variamente declinata, la linea di pensiero dominante nella riflessione filosofica sul tema del m. sino all’epoca contemporanea.