(al) Malik (al) Kāmil
I rapporti di M. con Federico II si chiariscono alla luce del sistema familiare ayyubide che alterna fra i principi competizione e precaria collaborazione. Il Saladino, semplice ufficiale, ottenne solo una legittimazione a posteriori per aver annientato lo sciismo ismailita in Egitto, poi per la sua vittoria imprevista e insperata su Guido di Lusignano nel 1187. Tolse Damasco e Aleppo all'erede del suo signore Nūr al-Dīn Ibn Zanǧī e integrò i principati di Siria e di al-Ǧazira in un sistema d'autorità delegata, sanzionata dalla proclamazione nella predica del venerdì del nome del sovrano supremo dopo quello del califfo abbaside di Baghdad, fonte teorica dell'autorità. Il riferimento politico e religioso della dinastia era l'Islam sunnita, di cui gli Ayyubidi assicurarono il trionfo in Egitto e in Siria, senza tuttavia eliminare i rifugi sciiti sulle montagne siro-libanesi. A fianco della nuova ortodossia, sempre pluralista con le sue quattro scuole giuridiche, si diffusero il misticismo musulmano, radicato nella povertà, gli esercizi devozionali praticati nei conventi dei sufi da confraternite di iniziati, e il culto dei santi. La dinastia ayyubide, infine, faceva ricorso a un personale politico misto, in particolare persiano, e si fondava su una teoria della regalità ecumenica, espressa attraverso lo specchio dei principi, che esaltava il potere regio, la missione di pastori saggi e illuminati.
Al-Malik al-Kāmil Naṣīr al-Dīn Abū 'l-Ma῾ali Mu-ḥammad era il figlio primogenito di al-῾Ādil Abū Bakr b. Ayyūb, fratello e successore del Saladino (Salāḥ al-Dīn Yūsuf Ibn Ayyūb) nell'autorità suprema. Nato fra il 1177 e il 1180, cominciò la sua carriera politica in al-Ǧazira nel 1191 come rappresentante del padre, all'epoca luogotenente del Saladino e amico di Riccardo Cuor di Leone. Padre e figlio spodestarono al-Afḍal, figlio del Saladino, dei suoi stati e della sua sovranità. Nel 1200 al-῾Ādil fu proclamato sultano d'Egitto e di Siria; investito dal califfo nel 1207, distribuì allora le province tra i suoi figli e M. ricevette l'Egitto.
Nel maggio 1218 una spedizione inattesa, la quinta crociata, prese di mira l'Egitto. Al-῾Ādil, venuto a difendere la provincia 'sede dell'Impero', morì in agosto e M. gli succedette come capo supremo di un sistema familiare instabile. Dopo la presa di Damietta nel novembre 1219, difese il cuore del Regno fino all'arrivo dei suoi fratelli, al-Ashraf e al-Mu῾aẓẓam, che accerchiarono l'esercito crociato. Sulla base di un trattato ne ottenne l'allontanamento il 27 agosto 1221. In una lettera a M., l'Epistola salutaris, lo storico della crociata, Oliviero di Paderborn, lo ringraziava di aver provveduto a curare i feriti e i malati, di aver fatto condurre l'esercito ad Acri e di averlo approvvigionato. Insisteva sulla necessità vitale del pellegrinaggio. L'umanità e la benevolenza di M., che emergono anche nell'episodio della venuta di s. Francesco d'Assisi nel suo campo, scaturiscono dalla riflessione su una pace duratura e sui mezzi per raggiungerla, che approderà al trattato di Giaffa. Il sovrano offrì ai capi crociati di scambiare Gerusalemme con Damietta nel momento più drammatico della crociata, con l'accordo di al-Mu῾aẓẓam che aveva restaurato l'Haram. Lo spirito millenarista che animava i crociati e la volontà di liberare i copti, all'epoca scossi anch'essi da un movimento escatologico, avevano indotto il legato pontificio Pelagio a respingere la proposta.
Gli anni tra il 1221 e il 1227 furono segnati da una vivace competizione fra M. e i suoi fratelli. Alleatosi con al-Ashraf, M. minacciò al-Mu῾aẓẓam, sovrano di Damasco. Quest'ultimo nel 1225 si alleò con un condottiero persiano, lo scià dei corasmi, Ǧalāl al-Dīn, alla testa di un potente esercito scacciato dalla Transoxiana dall'avanzata mongola e divenuto mercenario. Preoccupato di stabilire una barriera fra l'Egitto e la minaccia congiunta del fratello, inquieto per la preparazione della crociata siciliana e nel timore di una nuova spedizione da Damietta, M. riesumò nel 1226 l'antica mossa strategica dei sovrani d'Egitto. Gli stati crociati erano stati il loro scudo, avevano consentito la sopravvivenza del regime fatimide di fronte a Nūr al-Dīn e la tranquilla crescita del potere del Saladino: M. offrì a Federico, re di Gerusalemme dopo le nozze con Iolanda di Brienne, di restituirgli la Palestina allora in mano ad al-Mu῾aẓẓam.
La morte di al-Mu῾aẓẓam, nel novembre 1227, e la successione assicurata da un giovane principe, suo figlio al-Nāṣir, resero M. padrone del gioco. Nell'agosto 1228 occupò la Palestina insediandovi dei governatori. L'arrivo di Federico II, il 7 settembre, salvò al-Nāṣir. Secondo Humphreys (1977) l'obiettivo di M. consisteva nell'assicurarsi il possesso della Siria: poteva contare su forze sufficienti e non voleva a nessun costo disgregarle con una guerra inutile; era quindi costretto a evitare il conflitto. Si noterà tuttavia che la sua posizione era forte: certo, Federico disponeva di ottocento cavalieri su undicimila uomini, ma non poteva restare impegnato troppo a lungo; la divisione dei latini fra l'imperatore scomunicato e i partigiani del papa rendevano la sua situazione precaria. E M. ne era consapevole. Solo un'approfondita riflessione politica, dunque, lo indusse a tentare una regolamentazione duratura: avviata a Damietta, si estese parallelamente alla cerchia di Federico II; come scrive Paul Alphandéry, "non si tratta più di riprendere i Luoghi santi all'infedele, ma di raggiungerli, anche con lui". Il pellegrinaggio era il valore supremo e una politica pacifica di convergenza era possibile tra pastori di popoli illuminati da un pensiero filosofico. L'emiro Fakhr al-Dīn (v.), figlio dello 'shayk degli shuyukh' Sadr al-Dīn, appartenente a una famiglia di sufi e di sapienti hanefiti persiani, anche lui uomo d'armi, diplomatico, poi reggente nel 1249, fu il garante di questa politica e l'interlocutore di Federico, che lo ordinò cavaliere. Le relazioni fra i sovrani furono consolidate da uno scambio di corrispondenza filosofica e dall'invio di un astronomo nel campo di Federico.
L'accordo di Giaffa fu concluso per dieci anni, cinque mesi e quaranta giorni a partire dal 18 febbraio 1229 e includeva la restituzione di Gerusalemme, di Lydda e della strada che conduceva alla Città Santa. Il Toron (Tibnin) e Betlemme furono ceduti come doni personali di M. all'imperatore. L'Haram (Cupola della Roccia e moschea di al-Aqṣā) rimase ai musulmani, come pure i villaggi vicini, sotto l'autorità di un governatore. Sussiste un dubbio sul capitolo che concerne la ricostruzione delle mura, abbattute per ordine di al-Mu῾aẓẓam: secondo i cronisti musulmani non dovevano essere ricostruite; di fatto i rappresentanti di Federico II non le fecero consolidare. La storiografia ayyubide arricchì la venuta dell'imperatore a Gerusalemme di aneddoti apocrifi che rappresentano altrettanti elementi di interpretazione: è venuto per ascoltare l'appello alla preghiera, ha scacciato un prete entrato nell'Haram. Gli storici, uomini di religione, mal compresero la logica pacifica della cultura regia, del 'divano dei re', e l'attribuirono a un materialismo fuori luogo. Federico ne diede comunque spiegazione nella sua enciclica del 28 marzo 1229, datata da Gerusalemme: la città e i suoi dintorni erano stati ceduti pacificamente "per consentire ai pellegrini di accedere liberamente al Sepolcro e fare ritorno senza pericolo". Gerusalemme era stata suddivisa secondo il medesimo principio: "Poiché i Saraceni hanno per il Tempio una certa venerazione, e vi accedono per adorare secondo il loro rito alla maniera dei pellegrini, noi consentiamo loro di venire liberamente, senza armi, e nel numero che vorranno, senza esservi ospitati, ma all'esterno e, una volta conclusa la preghiera, lasceranno la città".
La decisione di M. suscitò opposizione negli ambienti devoti, censori di tutti i poteri, conquistati nel XII sec. dal tema del ǧihād divenuto strumento d'influenza e principio della loro alleanza con il Saladino. Emmanuel Sivan (1967) ha segnalato che si levarono voci indignate: uomini di religione di Gerusalemme che giunsero per protestare al campo di M. e furono puniti, predicatori di al-Ǧazira, di Mossul, di Baghdad e anche dell'Egitto. La protesta in qualche modo oltrepassò gli ambienti religiosi: furono composti poemi contro la cessione di Gerusalemme, un emiro fu arrestato e un principe turco di Irbil, cognato del Saladino, scrisse esprimendo la sua indignazione. Ma M. soffocò con facilità l'opposizione fugacemente sfruttata da al-Nāṣir: a Damasco durante la predica Sibṭ Ibn al-Ǧawzi, uno dei sapienti, poco numerosi, a essersi stabiliti nella città riconquistata, non esitò a mentire assicurando che il pellegrinaggio era ormai proibito; pare che M. abbia ugualmente rassicurato gli oppositori affermando che avrebbe potuto riprendersi senza alcuno sforzo la Città Santa.
Dopo la partenza dell'imperatore M., rinvigorito, manifestò la sua autorità. L'alleanza con al-Ashraf e un breve assedio a Damietta imposero nel giugno 1229 ad al-Nāṣir, abbandonato dai suoi emiri, uno scambio impari: cedette Damasco ad al-Ashraf ottenendone l'Oltregiordano con il Krak e Shawbak. Alcuni principi favorevoli a M. si insediarono nei principati minori separando quindi i domini di al-Ashraf, Siria e Armenia. M. si ripropose quindi, nel 1234, di abbattere il sultanato selgiuchide dell'Asia Minore per trasferirvi i principi della sua famiglia con possedimenti in Siria e instaurare uno stato unitario che riunisse la Siria e l'Egitto, senza principi vassalli. L'opposizione di al-Ashraf e di altri ayyubidi lo costrinse a rinunciare. Nel 1237, alla morte di al-Ashraf, occupò Damasco, resa ben presto ad al-Nāṣir, e in questa città morì nel marzo 1238.
Fonti e Bibliografia
H.L. Gottschalk, Al-Malik al-Kāmil von Egypten und seine Zeit, Wiesbaden 1958.
E. Sivan, Le caractère sacré de Jérusalem dans l'Islam aux XIIe-XIIIe siècles, "Studia Islamica", 27, 1967, pp. 149-182.
R.S. Humphreys, From Saladin to the Mongols. The Ayyubids of Damascus, 1193-1260, Albany 1977.
D. Abulafia, Frederick II. A Medieval Emperor, London 1988.
(traduzione di Maria Paola Arena)