Malinconia
La malinconia, l'antica 'melancolia' (dal greco μελαγχολία, composto di μέλας, "nero", e χολή, "bile") è uno stato d'animo caratterizzato da tristezza e temporaneo affievolimento d'interessi per la realtà immediata e futura. Se il malessere diviene più profondo e pervasivo al punto da compromettere importanti funzioni vitali (sonno, alimentazione, movimento ecc.), esso assume la forma di una vera e propria malattia. Nel suo aspetto clinico il concetto di malinconia è sovrapponibile a quello di depressione endogena (v. depressione).
di Eugenio Borgna
La malinconia è un'esperienza psicologica e umana con la quale ciascuno di noi non può non avere a che fare nel corso della vita. Scrive R. Guardini (1977): "Troppo dolorosa è la malinconia e troppo a fondo spinge le sue radici nel nostro essere di uomini, perché la si debba abbandonare nelle mani degli psichiatri [...]. Noi la riteniamo intimamente connessa con le profondità della nostra essenza umana" (p. 73). Queste parole, benché nascano nel contesto di una riflessione filosofica, colgono l'essenza della malinconia, al di là di ogni sua differenziazione in malattia clinica e in malinconia come esperienza umana ed esistenziale. Aggiunge Guardini: "La malinconia consiste in un'oppressione di spirito: un peso grava su di noi, che ci sta sopra fino a schiacciarci; dalla loro naturale tensione le membra e gli organi si rilasciano; sensi, impulsi, forze immaginative, pensieri si paralizzano; si spossa la volontà, e lo stimolo e la gioia del lavoro e della lotta languiscono" (p. 89).
Ci sono momenti della vita in cui, al di fuori di ogni avvertibile motivazione, la malinconia galleggia improvvisamente nella nostra anima e dilaga nella nostra interiorità. In una condizione di malinconia, che si costituisce come stato d'animo e non come malattia, ci si sente svuotati di interesse e di iniziativa, e soprattutto non si riesce più a ritrovare la spontaneità e la speranza nella vita. Gli aspetti spiacevoli dell'esistenza, che quando si sta bene si dileguano rapidamente, sono vissuti come dolorosi e insormontabili. Si fa fatica a pensare a quello che ci attende l'indomani e si è risucchiati da uno stato d'animo che si nutre di tristezza e di smarrimento, di ansia e di dolore morale e che è tale da oscurare gli orizzonti della vita, inaridendo gioia e attesa, speranza e fiducia. Il tempo vissuto, il tempo interiore, che non è il tempo cronologico (il tempo obiettivo), non fluisce più spontaneamente e limpidamente, ma tende a rallentare e a disgiungersi nelle tre dimensioni mirabilmente delineate da s. Agostino: la dimensione del presente, quella del passato e quella del futuro. Quest'ultima, in particolare, tende a dissolversi e con essa la speranza, che vive solo del futuro e nel futuro, divorata dalle ombre del passato che crescono e dilagano nella nostra immaginazione e nei nostri vissuti.
La malinconia come stato d'animo è un'esperienza che non può esserci estranea e sconosciuta: nella misura, poi, in cui riflettiamo sul senso delle cose che ci circondano e sul senso (sul nonsenso talora) delle cose che intraprendiamo. In ogni età della vita, certo, ma in particolare in quella contrassegnata dai crepuscoli, può nascere improvvisa la consapevolezza (l'intuizione) della precarietà e dell'inadeguatezza delle nostre azioni e dei nostri progetti; nasce allora la malinconia, che può essere anche creativa (come l'ha descritta G. Leopardi nello Zibaldone), che certo toglie smalto alle cose e ai paesaggi interiori, facendoci nondimeno recuperare, a volte, valori e riflessioni che non sarebbero altrimenti emersi. Citiamo ancora Guardini: "La malinconia è il prezzo della nascita dell'eterno nell'uomo [...] è l'inquietudine dell'uomo che avverte la vicinanza dell'infinito" (p. 111).
Quando la malinconia assume dimensioni psicopatologiche e cliniche, non più confrontabili con quelle della malinconia come stato d'animo, essa viene definita malinconia clinica, per il suo allontanarsi dai modelli normali di esperienza e il suo divenire malattia (Borgna 1999). Nella malinconia clinica la tristezza, che ne costituisce il nocciolo segreto e nascosto, nasce dalle profonde radici dell'essere: al di fuori, cioè, di motivi che ne possano costituire il fondamento. Tuttavia, la cosa più decisiva è costituita dal fatto che la tristezza viene vissuta nella sua dimensione vitale e corporea: come un 'peso', un'acuta sensazione di oppressione localizzata, in genere, al cuore, al torace o all'addome. L'espressione più intensa e straziante di una malinconia clinica si ha quando, a causa di essa, non è più possibile rivivere in sé sentimenti di dolore e di tristezza: non è più possibile cioè essere e sentirsi tristi, non si può piangere, non si hanno più lacrime, nel contesto di una desertificazione emozionale che sembra spegnere ogni emozione e ogni sentimento, non solo gioioso ma appunto anche triste. La vita interiore, insomma, tende a svuotarsi di intenzionalità: non è più portatrice di dialogo e di intersoggettività.
Come conseguenza di questa (anche se temporanea) attenuazione e, talora, cancellazione di una vita emozionale, si ha l'insorgenza di un emblematico fenomeno psichico che è chiamato estraneità, nel senso che le persone, le cose e le situazioni perdono la loro abituale conoscibilità e la loro scontata e ovvia familiarità. Si capisce, allora, come mai in una malinconia clinica i volti delle persone care non siano vissuti nella loro connotazione propria e familiare, ma piuttosto nella loro irrealtà.
Altri sintomi della malinconia clinica sono quelli che riguardano l'inibizione, e cioè la compromissione dell'iniziativa. I pazienti, la mattina in particolare, si sentono incapaci di svolgere i loro compiti quotidiani e abituali, il loro lavoro e le loro incombenze di lettura e di svago. E, ancora, si osservano paradigmatici disturbi del sonno. Si ha un'insonnia, non di rado ostinata e farmacoresistente, che presenta un andamento tipico e patognostico: i pazienti, cioè, si addormentano facilmente, ma poi il sonno si interrompe nelle primissime ore della notte, lasciandoli desti, tormentati dall'angoscia e dalla disperazione. Nella malinconia-malattia si rende drammaticamente più evidente l'alterata esperienza soggettiva del tempo, che è stata peraltro sottolineata anche nel contesto della malinconia come stato d'animo, ma le smagliature del tempo interiore, del tempo soggettivo, si fanno più profonde e radicali. La dimensione del futuro non è solo indebolita, ma radicalmente cancellata dall'orizzonte del tempo interiore: non c'è più spazio per la speranza e il tempo vissuto è, fino a quando persiste la malinconia, divorato dalla dimensione del passato, la quale alimenta, a sua volta, la colpa e la solitudine autistica.
In ogni malinconia clinica la disperazione e il taedium vitae assumono una grande significazione psicopatologica e clinica e stanno a fondamento del rischio della morte volontaria, del suicidio, che è, in particolare, possibile nel momento in cui la malinconia sta nascendo con la scia di angoscia che le si accompagna, e nel momento in cui essa sta guarendo: persistendo ancora la tristezza e attenuandosi l'inibizione, il suicidio si fa meta desiderata e fatale. In conclusione, la malinconia come stato d'animo sconfina talora in quella causata da ragioni psicologiche e umane, come la perdita di una persona cara, ma non ha nulla a che fare con la malinconia clinica: soltanto a questa deve essere attribuita la connotazione di malattia in senso sintomatologico e clinico. Questo tipo di patologia si cura e si guarisce con la somministrazione farmacoterapeutica che è, in ogni caso, necessaria, sia pure nel contesto di un'attitudine psicoterapeutica e umana fatta di ascolto e di immedesimazione da parte del medico; gli psicofarmaci antidepressivi, quelli di 'nuova generazione' e quelli (i triciclici) di più lontana circolazione in psichiatria, hanno diverse modalità di azione e diverse applicazioni cliniche a seconda della configurazione sintomatologica della malattia, ma sono, gli uni e gli altri, strumenti terapeutici della massima importanza. La malinconia causata da ragioni esistenziali e da motivazioni ambientali (interpersonali) ha, invece, bisogno soprattutto di relazioni di aiuto e di psicoterapia; nei suoi confronti la somministrazione di blande dosi di psicofarmaci antidepressivi assume una funzione terapeutica subalterna.
di Bruno Callieri, Anita Sama
Nell'antica medicina classica, fondata sulla teoria degli umori di Ippocrate (5°-4° secolo a.C.), la melancolia, la 'bile nera', detta anche atrabile (dal latino atra bilis), era uno dei quattro umori corporei e aveva origine nella milza; gli altri, il sangue, la bile gialla e la flemma, si trovavano rispettivamente nel cuore, nel fegato e nel cervello. Dalla buona o cattiva armonia di questi umori dipendeva la salute o la malattia. La melancolia, dunque, nasce in Grecia, nelle speculazioni dei fisici e dei medici che intendevano ridurre la complessità del sensibile a pochi principi elementari, nonché unire con un legame analogico microcosmo e macrocosmo. La dottrina degli umori diviene pertanto dottrina dei temperamenti: il predominio di un umore può causare una malattia passeggera, ma può anche determinare una costituzione permanente, appunto un 'temperamento'.
Il Problema XXX, attribuito ad Aristotele, ma derivato, più probabilmente, da un rimaneggiamento del trattato di Teofrasto, deve la sua importanza storica a una tesi forte: tutti gli uomini eccezionali sono melanconici. Dunque la melancolia, pur essendo una malattia, è anche un ἦθος, una delle condizioni del genio. Alla melancolia si attribuivano comunque vari disturbi psicologici che l'attuale psichiatria collocherebbe in differenti contesti patologici, come la depressione endogena, la depressione reattiva, le psicosi epilettiche e altre forme abnormi. Dato che le cause della malattia erano attribuite al prevalere della bile nera, i rimedi prescritti erano conseguenti: espellere l'eccesso dell'umore tossico e attuare una dieta priva di cibi di colore nero e di sapore acre. Per depurare l'organismo, si ricorreva a medicamenti fortemente evacuativi, come l'elleboro, estratto dalla radice di Elleborus niger, una pianta appartenente alle Ranuncolacee, che provocava forti diarree, vomiti e qualche esito emorragico per l'irritazione delle mucose intestinali. In questo caso le feci nere rassicuravano il medico della buona riuscita del trattamento. Per eliminare l'eccesso patogeno dell'umore, si utilizzavano anche i cosiddetti metodi revulsivi: le sanguisughe, i salassi, le ventose o sostanze irritanti della pelle. Altre cure più 'dolci' consistevano in manipolazioni corporee, massaggi, frizioni con oli ed essenze profumate, al fine di suscitare la reattività del melancolico e di risvegliarne la sensibilità. Quando queste cure fallivano, o quando il malato si trovava in preda a forte agitazione o a mania furiosa, si ricorreva alle docce fredde o a un vero e proprio shock, suscitandogli un'improvvisa e intensa paura, al fine di scuoterlo, di liberarlo dalla sua follia e riportarlo alla realtà; per i più riottosi si faceva uso delle percosse e delle catene. Per i malati meno gravi, invece, si prescrivevano viaggi, distrazioni, musica e teatro, come attestano, nel 1° secolo d.C., Celso nel De medicina, e Seneca nel De tranquillitate animi. Ai filosofi, come Seneca, si ricorreva per consigli, per averne una specie di guida consistente in un insieme di esortazioni morali e prescrizioni mediche. Tutte queste antiche terapie si sono mantenute nel corso dei secoli insieme alla teoria degli umori e dei temperamenti e anche quando questa fu abbandonata. Il riferimento all'atrabile conservò la sua 'autorevolezza' soprattutto per l'opera di Galeno che, ampliata e convalidata la teoria ippocratica nel 2° secolo d.C., ne fece un punto di riferimento fondamentale per i successivi studi sulla melancolia. Prima di Galeno, tuttavia, due autorevoli voci avevano dissentito dalla teoria degli umori: quelle di Sorano d'Efeso (secondo il quale la melancolia era dovuta a un restringimento delle fibre) e di Areteo di Cappadocia (secondo il quale le cause erano sia morali sia passionali).
Nella cultura cristiana medievale la malattia depressiva venne intesa come morbus animae, indifferenza, inerzia spirituale, accidia, e la rinuncia al linguaggio, alla volontà, all'istinto vitale e, soprattutto, alla salvezza fu considerata un peccato mortale, sì che Dante collocò gli accidiosi in un girone dell'Inferno. La malattia colpiva, in modo particolare, monaci, anacoreti, persone dalla vita solitaria e reclusa ed era attribuita all'influenza del 'demone meridiano' o, a volte, al peccato originale (Hildegard von Bingen, 11°-12°secolo). I rimedi, ereditati dalla tradizione, erano complicati da procedure magiche e da calcoli astrologici: per es., i salassi venivano praticati dopo aver consultato gli astri. La psichiatria medievale era intrisa di demonologia e, mentre i medici si occupavano delle cure fisiche, i teologi discettavano delle 'malattie dell'anima'. Comunque, prima del 14°secolo, anche considerando le malattie mentali nei termini demonologici allora prevalenti, si consigliavano anche metodi di cura razionali: per es., bagni, unguenti, diete, moderato esercizio fisico ecc., come si legge negli aforismi e precetti della Scuola salernitana. I temi della dannazione e della salvezza continuarono a influenzare l'atteggiamento verso i malinconici fino a tutto il 17° secolo; i rimedi per contrastare la malattia erano la lotta contro l'ozio, il lavoro indefesso, la dieta alimentare, le varie erbe e gli amuleti prescritti contro gli spiriti maligni. Per alcuni secoli, i malati mentali - con una prevalenza senza dubbio di psicotici e di maniaci furiosi più che di depressi - furono considerati con sospetto: se il medico non riusciva a trovare la causa della malattia e se le terapie somministrate non avevano effetto, si pensava a una possessione diabolica e si ricorreva allora all'esorcismo e al giudizio del tribunale ecclesiastico. Ricche suggestioni, alternative a quelle della cultura ufficiale, furono offerte dal neoplatonismo rinascimentale, nel quale la melancolia, morbosa o naturale (psicosi o personalità, diremmo oggi), venne associata a un dio e a un astro, Saturno.
Nell'astrologia sono riproposti antichi miti, il dio e l'astro si confondono e influiscono sulla natura e sul carattere degli uomini nati sotto il loro segno. I trattati di fisiognomia e di astrologia svolgono i principi di una 'semeiotica del melanconico', in cui il saturnino è il più sfortunato degli uomini, il più pesantemente carico di tare morali e psicologiche. Per i neoplatonici rinascimentali, tuttavia, Saturno, accanto alla follia e all''abbattimento' (depressione), favorisce le qualità intellettuali. La tradizione iconografica (si pensi, per es., alla Melancolia di A. Dürer, 1514) rende immediatamente sensibile l'influenza funesta, ma insieme la vocazione all'attività intellettuale, che Saturno conferisce a coloro che sono a lui sottoposti. Così, agli altri fili conduttori, umorale, religioso, astrale, viene ad allacciarsi quello della melancolia dei poeti, umore passeggero e non più proprietà intrinseca, figurazione che appare fondante per il significato moderno della melancolia. Un segno importante delle modalità di trasmissione dell'eredità antica è pervenuta nell'Anatomia della melanconia (1621) di R. Burton, la quale si ispira alla tradizione, ma apre al dibattito concettuale moderno, mescolando manuale di astrologia e testo medico. Una svolta cominciò a profilarsi nel 18° secolo, quando si iniziò a parlare di una melancolia di tipo nervoso, pur sempre accanto a quella dovuta all'atrabile (A.C. Lorry). Ci furono inoltre ipotesi eziopatogenetiche riguardanti la diversità di consistenza delle varie parti del cervello (G.B. Morgagni, P.-J.-G. Cabanis), ma ormai la malattia mentale era sempre più attribuita a una cattiva regolazione delle funzioni nervose: il cervello e l'irritabilità dei nervi assunsero la priorità riguardo all'eziologia delle malattie mentali. La melancolia diviene la malattia dell'essere sensibile. Così per Ph. Pinel, considerato uno dei fondatori della psichiatria moderna, l'origine dei disturbi era da attribuire a una cattiva regolazione dell'emotività, a un eccesso di passioni che pervadevano il soggetto privandolo del controllo.
La malattia mentale poteva essere curata, ma il trattamento terapeutico, definito da Pinel 'trattamento morale', doveva essere praticato dopo un'accurata anamnesi del paziente. Esso consisteva nel suscitare passioni nel malato al fine di contrastarne lo stato morboso e di realizzarne uno più sano. Si passava da un atteggiamento di forte indulgenza a quello opposto di grande durezza, a volte di brutalità. Altre tecniche impiegate erano quelle dell'inganno, delle docce gelate e della sonda gastrica per chi si rifiutava a lungo di mangiare; questi trattamenti, tuttavia, successivamente entrati nella pratica manicomiale, erano applicati solo come estremi rimedi. Quello dell'inganno era un espediente singolare: il medico fingeva di credere al delirio del paziente, poi lo induceva a un'azione concreta che avrebbe smentito in pieno l'idea morbosa. In seguito, la doccia divenne il trattamento elettivo che avrebbe dovuto scuotere il paziente dallo stato morboso e predisporlo a successivi trattamenti. L'allievo di Pinel, J.-É-D. Esquirol, usava degli emetici per i pazienti che credevano, nella loro onnipotenza patologica, di essere sanissimi, allo scopo di convincerli della loro malattia e indurli a farsi curare. Si passò così, nel 19° secolo, a metodi che, per analogia con quelli antichi, definiremmo di 'revulsione morale' (Starobinski 1960).
Una concezione nuova, tuttavia, s'impose, alla metà dell'Ottocento, con il positivismo: quella dell'ereditarietà (come in B.-A. Morel, con la sua teoria della dégénérescence, cioè, della deviazione morbosa della specie), della costituzione congenita e dell'eziologia organica (come nel caso di T.H. Meynert e della sua teoria sull'origine della depressione dovuta a uno scarso afflusso di sangue alle cellule corticali). Alle soglie del 20° secolo emersero nuove tendenze, le quali rovesciarono completamente il punto di vista positivistico. Nella teoria psicoanalitica di S. Freud, l'interesse è per la soggettività del malato e per il suo mondo psichico, centro motore della personalità e del comportamento dell'individuo, i cui complessi meccanismi regolatori si cerca di comprendere e di riequilibrare.
e. borgna, Malinconia, Milano, Feltrinelli, 1999.
v.e. von gebsattel, Imago hominis, Schweinfurt, Neues Forum, 1964.
r. guardini, Il senso della malinconia, in Id., Pensatori religiosi, Brescia, Morcelliana, 1977, pp. 73-120.
e. minkowski, Traité de psychopathologie, Paris, PUF, 1966.
k. schneider, Klinische Psychopathologie, Stuttgart, Thieme, 1962.
j. starobinski, Histoire du traitement de la mélancolie des origines à 1900, "Acta Psychosomatica", 1960.
h. tellenbach, Melancholie, Berlin, Springer, 1961 (trad. it. Roma, Il Pensiero Scientifico, 1975).