Abstract
Viene esaminata la struttura e le problematiche della “Malversazione ai danni dello Stato”, una norma nata con la legge n. 86 del 1990 di riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione che, pur abolendo formalmente la condotta di distrazione dall’art. 314 c.p., la fa rivivere sotto le mentite spoglie della “non destinazione” nell’art. 316 bis c.p.
1. Bene giuridico
L’art. 316 bis c.p. tutela l'interesse dello Stato o di altro Ente pubblico o delle Comunità europee al corretto impiego degli strumenti di sostegno alle attività economiche di pubblico interesse (Pagliaro, A., Principi di diritto penale, pt. spec., Delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Milano, 2000, 94; altresì, Pisa, P., Commento alla L. 26 aprile 1990, n. 86, in Legisl. pen., 1990, 280). La suindicata correttezza deve risultare dalla conformità dell'uso del denaro pubblico rispetto ai criteri di buona amministrazione e che nella situazione concreta si traduce nella tutela del risultato in vista del quale contributi, finanziamenti o sovvenzioni sono stati concessi. Si è, pertanto, coerentemente evidenziato come l'interruzione del nesso teleologico tra la destinazione indicata nella norma istitutiva del finanziamento e la condotta dell'agente integra il tipo delittuoso, in quanto, si traduce in una frustrazione dell'interesse sotteso al finanziamento (Benussi, C., Note sul delitto di malversazione ai danni dello Stato, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, 1042 ss.).
Ad essere lesi (o posti in pericolo) dalla condotta penalmente sanzionata sono, infatti, da una parte, l’interesse patrimoniale dell’Ente erogante i contributi; dall’altra, soprattutto, l’interesse, spettante all'Ente medesimo, alla corretta individuazione degli obiettivi in vista dei quali impiegare le proprie risorse finanziarie (Pelissero, M., Sub art. 4, in Commento alla legge 29 settembre 2000, n. 300, in Legisl. pen., 2001, 991 ss.).
La dottrina ha criticato la collocazione sistematica della fattispecie fra i delitti dei Pubblici Ufficiali contro la p.a. e il nomen juris della stessa, in quanto, parlando di malversazione a danno dello Stato si evoca una condotta propria del pubblico ufficiale (Benussi, C., Sub art. 316 bis, in Marinucci, G. –Dolcini, E., Codice penale commentato, pt. spec., Milano, II ed., 2007, 2158.). Più opportuna sarebbe stata, a detta di una parte della dottrina, la collocazione della norma nel capo dei delitti dei privati contro la P.A. (Coppi, F., Profili dei reati di malversazione e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, in Reati contro la pubblica amministrazione, Coppi, F., a cura di, Torino, 1993, 60; Pelissero, M., Osservazioni sul nuovo delitto di malversazione ai danni dello Stato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 183). L’unico punto di contatto con i delitti dei P.U. contro la p.a. starebbe nella condotta tipica, dato che la “non destinazione” sembra essere il travestimento verbale della ben più nota condotta di distrazione propria del peculato ante riforma del ’90.
2. I soggetti
Si tratta di un reato proprio. La norma richiede infatti la presenza, in capo al soggetto attivo, di due requisiti: uno negativo ed uno positivo. Deve trattarsi di un soggetto estraneo alla P.A. e deve aver ricevuto lecitamente un finanziamento pubblico (Romano, M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, II ed., Milano, 2006, 60 ss.). In altri termini, la norma richiederebbe l’instaurazione di un rapporto tra ente erogante e beneficiario dell’erogazione.
Tale tesi sembra cogliere la natura dell’art. 316 bis c.p. che sanzionerebbe la violazione di «un rapporto fiduciario intercorrente tra ente pubblico erogante e soggetto fruitore il quale, attraverso la sola mancata destinazione delle risorse, a lui affidate per la realizzazione di finalità di interesse pubblico, finisce per arrecare un pregiudizio alla P.A.» (Sessa, A., Infedeltà e oggetto della tutela nei reati contro la Pubblica Amministrazione, Napoli, 2006, 113, nota 124).
Il soggetto agente assume una posizione di garanzia che si risolve nell’assunzione di particolari obblighi nei confronti dei beni affidati. In questa ricostruzione, non è certamente la fedeltà alla p.a. ad assurgere a bene tutelato, bensì, questo vincolo con la p.a. Ciò costituisce un presupposto delle condotte che aumenta il disvalore delle stesse, in quanto, attraverso un abuso di poteri o violazione di doveri, si giunge ad alterare, in concreto, le scelte della p.a. nell’allocazione delle risorse. Si è, dunque, in presenza di un c.d. reato proprio a struttura inversa, laddove la qualifica soggettiva deriva dalla situazione di fatto che fa scaturire un determinato obbligo per l’agente (Pisa, P., Art. 316 bis, in Padovani, T., a cura di, I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 1996, 40). Lo scopo di pubblico interesse, che investe il contributo o il finanziamento, è solo quello individuato dall'ente pubblico, non potendosi ammettere una sovrapposizione di una diversa valutazione da parte del privato fruitore del finanziamento.
Lo Stato, la p.a. in generale, l’Unione europea costituiscono i principali soggetti passivi del reato.
3. I presupposti della condotta
Il requisito della “estraneità dalla p.a.” sta a significare che i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio non possono commettere il fatto di cui all’art. 316 bis c.p. (Fornasari, G., Malversazione ai danni dello Stato, in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, 148). L’interpretazione più ragionevole sarebbe quella di leggere la locuzione alla stregua di una clausola di sussidiarietà: se il fatto descritto dall’art. 316 bis c.p. è realizzato da un soggetto qualificato, con abuso di poteri inerenti alle funzioni o al servizio, troverà applicazione un diverso titolo criminoso e non vi sarà concorso né formale né materiale col delitto in oggetto (Salcuni, G., Malversazione a danno dello Stato, in AA.VV., a cura di, Trattato di diritto penale, pt. spec., II, Torino, 2008, 82). Tale clausola di sussidiarietà va letta in senso restrittivo ovvero operante solo se il fatto è stato compiuto da un pubblico agente (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) nell’esercizio delle sue funzioni o del servizio. Quindi estraneo alla P.A. si risolverebbe in un criterio ad excludendum, cioè tutti coloro che non risponderebbero dei reati di cui agli artt. 314 e 323 c.p. (Salcuni G., op. cit., 82).
Oltre al requisito negativo, per la sussistenza del reato, è necessaria l’integrazione del requisito positivo, ovvero, il soggetto attivo deve risultare beneficiario, ed aver ottenuto, dalla P.A. il contributo, la sovvenzione o il finanziamento. È necessario che i fondi siano stati materialmente erogati, non basta la sola decisione di concederli (Romano M., I delitti, cit., 62). Da ciò si evince che il soggetto potrà rispondere del reato anche in ipotesi in cui abbia ottenuto il finanziamento prima dell’entrata in vigore della fattispecie incriminatrice ad opera della l. 26.4.1990, n. 86, se la condotta di non destinazione sia stata posta in essere successivamente a tale data (Cass., pen., sez. VI, 27.5.1998, in Cass. pen., 2000, 75; Cass., pen., sez. VI, 16-3-2000, in Cass. pen., 2001, 2363).
Il richiamo ai termini concessione, finanziamento e sovvenzione non andrebbe inteso in senso tassativo, con richiamo alle distinzioni proprie del diritto amministrativo. Le locuzioni andrebbero, invece, interpretate considerando le precipue finalità della norma incriminatrice, perciò, il riferimento ai finanziamenti, ai contributi o alle concessioni dovrebbe ricomprendere tutte quelle erogazioni di denaro pubblico, di qualsiasi tipo, a fondo perduto o con obbligo di restituzione, che si caratterizzano per la vantaggiosità per il ricevente dovuta all’agevolazione rispetto ai tassi e/o alle condizioni di mercato previste (Romano, M., I delitti, cit., 62). Pur non essendoci corrispondenza fra le due norme, si può concludere che il presupposto della condotta del reato di cui all’art. 316 bis c.p. coincide con l’oggetto materiale del reato di cui all’art. 640 bis c.p., la quale prevede la clausola di chiusura «altre erogazioni dello stesso tipo comunque denominate».
Il secondo presupposto della condotta riguarda la finalità delle erogazioni che devono essere destinate a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività di pubblico interesse. È evidente dal tenore letterale che deve trattarsi di opere ancora da eseguire o attività ancora da intraprendere, oppure, di opere iniziate ma non ancora ultimate (Romano, M., I delitti, cit., 62-63). La nozione di pubblico interesse crea alcuni problemi di carattere esegetico, dovendosi scegliere tra una valutazione in astratto o in concreto della finalità pubblica cui le opere sono destinate. In concreto, la valutazione dell’interesse pubblico è ancorata alla «natura dell’opera o dell’attività in sé per sé considerata e quindi in rapporto al significato ed all’importanza sociale dell’iniziativa» (Padovani, T., La riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., in Corr. giur., 1990, 542). La provenienza pubblica della sovvenzione, pertanto, non sarebbe sufficiente a connotare l’opera come di pubblico interesse, ma occorrerebbe valutare la rispondenza dell’opera a quelle che sono le finalità sociali, collettive e di pubblico interesse (Seminara, S., Art. 316 bis, in Stella, F. –Crespi, A. -Zuccalà, G., Commentario breve al codice penale, Padova, 2003, 899). Tale indirizzo risulta sensibilmente restrittivo rispetto alle finalità operative cui la norma era destinata, in quanto, non andrebbe a reprimere le ipotesi in cui il finanziamento pubblico sia destinato per finalità privatistiche che, solo in via indiretta, soddisfano l’interesse pubblico.
In astratto, si sostiene che «la finalità di pubblica utilità delle opere o attività per le quali è stato concesso il finanziamento pubblico è da ritenere insita nel fatto stesso dell'avvenuta concessione, atteso che solo il soddisfacimento di un interesse pubblico può giustificare il trasferimento a titolo gratuito o a condizioni particolarmente agevolate di danaro pubblico ad un privato» (Pelissero, M., Osservazioni, cit., 189; Benussi, C., Art. 316 bis, cit., 2163).
Tale soluzione sembra quella preferibile sia perché rende la norma più tassativa, evitando l’accertamento in concreto del perseguimento dell’interesse pubblico; sia perché più in sintonia con la lettera della legge. La norma riferisce la destinazione delle erogazioni pubbliche (contributi, sovvenzioni e finanziamenti) «non direttamente o indirettamente ad opere o attività di pubblico interesse, bensì ancor prima ad iniziative orientate a tal fine. Ora già i termini congiunti opere ed attività sembrano indicare senza distinzioni particolari beni o servizi in genere; ma soprattutto il favorire iniziative in detta direzione (cioè iniziative per la produzione o gestione di beni o servizi in genere) assume un eloquente significato di (anche larga) anticipazione della rilevanza dello scopo perseguito dalla concessione del finanziamento; l’interesse pubblico viene così a coincidere già solo con la provenienza pubblica dei fondi e con lo scopo dichiarato o implicito nel provvedimento dell’ente erogante» (Romano, M., I delitti, cit., 64).
4. La condotta tipica
Secondo una prima ricostruzione la “non destinazione” sarebbe integrata da una condotta attiva volta a conferire una destinazione diversa da quella che legittimava l’ottenimento dei fondi pubblici (Massi, S., voce Peculato, in Cassese, A., a cura di, Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 4188). Al contrario, altra parte della dottrina ritiene che la conformità al tipo passi attraverso una condotta omissiva, ovvero, nell’inerzia del soggetto agente che non destina i fondi ottenuti per quelle finalità che risultano dalla causale dell’erogazione (Mezzetti, E., voce Frodi Comunitarie, in Dig. pen., Aggiornamento, V, Torino, 2010, 320 ss.).
Il problema di quest’ultima interpretazione consiste nella difficoltà di individuare un termine entro cui destinare i fondi, dato che spesso si deve ricorrere ai bandi di gara quando prevedono un termine o alla discrezionalità del giudice, violando però il principio della riserva assoluta di legge (Mezzetti, E., Frodi, cit., 321). Ad ogni buon conto, la disputa tra natura omissiva od attiva della condotta si stempera laddove si pone mente al fatto che in realtà il legislatore ha descritto una condotta distrattiva. L’evento giuridico della fattispecie è, infatti, costituito dalla divergenza di utilizzo dei fondi rispetto alle finalità che costituiscono la causale del finanziamento, perciò si sostiene che la “non destinazione” è il travestimento verbale del concetto di distrazione (Salcuni, G., op. cit., 89). Non ci sembra corretto replicare che la distrazione equivale ad un’attività volta a destinare un bene per finalità diverse da quelle a cui è deputato, mentre la non destinazione, presentando un elemento di negazione, si risolverebbe nel contrario della distrazione (Mezzetti, E., La tutela penale degli interessi finanziari dell’Unione europea, Padova, 1994, 63). Tale critica non coglie, a nostro avviso, nel segno dal momento che la “non destinazione”, proprio perché termine volutamente più generico rispetto a quello di distrazione, si presta a ricomprendere anche quelle forme controverse di c.d. distrazione omissiva. In breve: chi omette di utilizzare il contributo non lo destina, così come chi lo utilizza per finalità diverse (cfr., sui dubbi di legittimità costituzionale per violazione del principio di determinatezza, Mezzetti, E., Frodi, cit., 320).
5. L’elemento soggettivo
Il reato è punito a titolo di dolo generico. Sono pertanto irrilevanti le finalità di qualsiasi natura che l'agente abbia inteso perseguire (Gambardella, M., Sub art. 316 bis, in AA.VV., Codice penale, Vol. III, I delitti contro la personalità dello Stato, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2005, 288). Il soggetto si deve, dunque, rappresentare di essere estraneo alla P.A., di aver ottenuto legittimamente l’erogazione pubblica, che l’erogazione pubblica è finalizzata al raggiungimento di un dato obiettivo di interesse collettivo, che deve realizzare quella finalità di pubblico interesse cui l’opera è destinata, che non ha realizzato l’opera o l’ha realizzata con modalità ed in termini contrastanti con quelli previsti nell’atto di erogazione. Il reato è escluso, per difetto di dolo, quando l’agente, per errore su legge extrapenale, erri sulle finalità per cui era stata concessa l’erogazione pubblica, oppure, erri sulla legalità della nuova e diversa destinazione (art. 47, co. 3, c.p.) (Salcuni, G., op. cit., 93).
6. Consumazione e tentativo
Il reato si consuma quando viene integrata la condotta di distrazione, ovvero, quando il soggetto non destina le somme perché le ritiene per sé o per altri, oppure, quando le destina ma per finalità diverse dalla causale del finanziamento.
Il reato è istantaneo. La condotta può però essere frazionata nel tempo, pertanto, se con una sola azione od omissione si distraggono le somme ottenute quello costituirà il momento consumativo del reato, se invece sono più azioni a portare a compimento la distrazione delle erogazioni, l’ultima azione consumerà il reato (Salcuni, G., op. cit., 94).
Se è previsto un termine essenziale per la realizzazione dell’opera, la consumazione avverrà spirato il decorso del termine stesso. Se invece il termine indicato nell’atto di erogazione del finanziamento è un termine ordinatorio bisognerà individuare un termine a partire dal quale il ritardo della realizzazione dell’opera frustri le finalità di pubblico interesse sottese al finanziamento. Così pure in assenza di un termine bisognerà valutare se le circostanze di tempo di luogo e di azione non abbiano leso l’interesse protetto dalla fattispecie incriminatrice (Pelissero, M., Osservazioni, cit., 198). Quanto al tentativo, si ripropone la problematica circa la configurabilità del tentativo nei reati di pura condotta. La risposta deve essere positiva, trattandosi di reato a condotta frazionabile è possibile che si manifesti in forma tentata. Maggiori perplessità può presentare la configurabilità del tentativo nell’ipotesi omissiva della fattispecie, specie laddove, sia indicato un termine perentorio per adempiere (Salcuni, G., op. cit., 95).
7. Concorso di persone
Un delicato problema sul concorso di persone nel reato riguarda la configurabilità del concorso nel reato di malversazione da parte dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio che partecipano al procedimento di erogazione e, in particolare, di chi opera come organo dell’ente pubblico che delibera o autorizza l’erogazione del credito.
I soggetti che rivestono la qualifica pubblicistica di cui agli artt. 357 e 358 c.p., secondo l’impostazione seguita nel testo, non possono concorrere nel reato di cui all’art. 316 bis c.p., risponderanno, pertanto, dei reati di peculato o di abuso d’ufficio. Se vi è un accordo fra il “privato” ed i pubblici agenti che gli consentono, omettendo il controllo, di sviare i fondi ottenuti, invece, il primo dovrà rispondere dei più gravi reati commessi dai pubblici ufficiali (Romano, M., I delitti, cit., 71).
La tesi contraria (Benussi, C., Art. 316 bis, cit., 307) argomenta l’impossibilità di ritenere assorbito il reato di cui all’art. 316 bis nei delitti commessi dal pubblico ufficiale (quali l’abuso d’ufficio o il peculato) in quanto i beni giuridici delle rispettive fattispecie sono diversi. Pertanto, nell’esempio sopra prospettato, il privato e i pubblici agenti dovrebbero concorrere nei reati di abuso d’ufficio (o peculato) e malversazione ai danni dello Stato. La tesi non appare accoglibile perché l’art. 316 bis c.p., con l’espressione “estraneo alla P.A.” ha previsto una clausola di sussidiarietà del tipo «salvo che il fatto non costituisca un reato contro la P.A.» (Salcuni, G., op. cit., 98).
8. I rapporti con le altre fattispecie delittuose
Sono da analizzare i rapporti tra malversazione ai danni dello Stato e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, ex art. 640 bis c.p. (Salcuni, G., La tutela penale delle finanze comunitarie. Controllo penale vs cogestione delle risorse pubbliche, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, 758 ss.; Picotti, L., L’attuazione in Italia degli strumenti dell’Unione europea per la protezione penale degli interessi finanziari comunitari, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, 615 ss.). Comunemente si sostiene che mentre quest’ultima fattispecie reprime il fenomeno dell’indebito ottenimento di erogazioni pubbliche nella fase antecedente all’erogazione, l’art. 316 bis c.p. tuteli le finanze pubbliche nella fase successiva all’erogazione stessa (Salcuni, G., Rapsodiche indicazioni sulla tutela penale delle finanze pubbliche, in Manna, A., a cura di, La tutela dei beni collettivi: i delitti dei P.U. contro la P.A., Padova, 2007, 251).
Non si dovrebbe dunque porre un problema di concorso di reati fra le due norme citate, dato che i presupposti applicativi sono diversi. Nell’art. 640 bis c.p. il finanziamento costituisce la finalità cui la condotta è diretta e si pone come ingiusto profitto, mentre, nell’art. 316 bis c.p. è un presupposto della condotta che non è mai ingiusto, ma la cui ingiustizia deriva ex post non essendo destinato per il soddisfacimento di finalità pubbliche. Il che significa che se il soggetto ottiene il finanziamento avvalendosi di artifici e raggiri e, successivamente, li destina per finalità diverse dalla causale del finanziamento, risponderà soltanto del reato di cui all’art. 640 bis c.p., in quanto, la successiva condotta, non approfondendo l’offesa tipica, costituirà un post factum non punibile (Pelissero, M., Osservazioni, cit., 201). Soluzione, quest’ultima, patrocinata anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità la quale ritiene che «il reato di malversazione in danno dello Stato ha natura sussidiaria e residuale rispetto alla fattispecie dell'art. 640 bis che sanziona la truffa aggravata per il conseguimento delle erogazioni pubbliche» (Cass., pen., 9.7.2004, n. 39644, in Riv. pen., 2006, 1, 124).
Fonti normative
Art. 316 bis c.p.
Bibliografia essenziale
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