Management e Beni culturali
Il sistema italiano dei Beni culturali si è caratterizzato storicamente come sistema molto accentrato. Se la dizione stessa ‘accentramento’ appare oggi come termine desueto, poco accattivante, questa centralizzazione è stata elemento di grande importanza nei processi di conservazione del patrimonio. D’altra parte, anche in Italia dagli anni Ottanta si è sentita l’esigenza di una modernizzazione dell’amministrazione pubblica, processo che ha interessato quindi di riflesso non pochi degli enti e delle organizzazioni di natura pubblica che si occupano di Beni culturali.
Il presente contributo si focalizza su alcune delle principali dinamiche che hanno caratterizzato in questi decenni il sistema dei Beni culturali, con una chiave di lettura di tipo manageriale, cercando di analizzare l’impatto complessivo del processo di riforma al di là dell’aspetto meramente giuridico. In particolare, si focalizzerà l’attenzione sui processi di trasformazione istituzionale che hanno caratterizzato alcune organizzazioni in modo più o meno lineare e di successo (diversamente da quanto accaduto nella tormentata vicenda di Pompei, che in questo quadro sarà comunque oggetto di un’accurata disamina come esempio emblematico di worst practice). I problemi di innovazione amministrativa e di decentramento organizzativo verranno criticamente messi a confronto con i processi di decentramento geografico (politiche di devolution).
Il politico maggiormente ricordato dai futuri storici economici sarà probabilmente Margaret H. Thatcher (1925-2013). Più ancora della contemporanea reaganomics, la politica economica thatcheriana segna la fine di un’era, l’inizio del mondo postkeynesiano, dove si impone il new public management, con l’imperativo delle ‘tre E’ (efficienza, efficacia, economizzazione) e i connessi slogan in tema di ‘value for money’: nella nuova ottica degli investimenti pubblici va cioè ricercata la combinazione ottima tra costi del capitale e di gestione e qualità dei beni e servizi offerti.
Le politiche culturali in buona parte del mondo occidentale sono anch’esse travolte da questo cambiamento radicale, e strutturale. Se la crisi internazionale del 2008 ha causato problemi drammatici in molte situazioni, il suo impatto non deve tuttavia far perdere di vista le problematiche – e le discontinuità – di più lungo periodo. In molti Paesi si pone la questione della riduzione del deficit pubblico, o comunque della diminuzione della spesa, e parallelamente emerge una difficile questione di allocazione delle risorse a vari possibili servizi sociali e di welfare, che diventano immediatamente concorrenti fra loro, in una situazione di risorse calanti (Offerta privata di beni pubblici, 1991). O più precisamente, anche in quei periodi in cui le risorse sono disponibili (ancora), diventava cruciale la verifica della convenienza collettiva relativamente a ogni possibile allocazione (Lindqvist, 2012).
In tale quadro si sovrappongono complessi processi di varia natura, con rilevanza diversa secondo i contesti nazionali, con soluzioni articolate che spesso, con troppo facile sintesi, si tendono a omologare in un unico termine, altamente controverso: privatizzazione (Di Maggio 1986; De Jong 1993; Privatization/désétatisation and culture, 1997: introducono il concetto più articolato di désétatisation).
Prima ancora che la crisi finanziaria esplodesse, e al di là di alcune specificità riguardanti Paesi come l’Italia, due fenomeni di lungo periodo già si erano profondamente manifestati a livello generale: un problema di attenzione all’utente e uno di attenzione alle risorse e alla ‘rendicontabilità’ nel loro uso (fig. 1). Questi due processi sembrano interessare in modo diffuso, nello spazio e nel tempo, non poche delle organizzazioni culturali, alle quali si vengono a porre nuove domande, di attitudine e capacità manageriali, al di là delle competenze tecniche e professionali con cui queste sono state gestite talvolta anche per diversi secoli. Anzi, è interessante notare come non poche di queste organizzazioni (il Teatro alla Scala, Pompei, il British musuem solo per fare alcuni nomi tra i più prestigiosi) siano state gestite per più di due secoli e mezzo secondo logiche non manageriali.
Il processo non è indolore, e non solo per le nostre incapacità di trasformare la pubblica amministrazione: il caso del British museum intorno alla fine degli anni Novanta è uno degli esempi migliori per indicare le difficoltà di dialogo tra logica professionale e manageriale, di episodi di radicale incomprensione che hanno portato enormi conflitti e grosse minacce alla stessa identità di questa storica istituzione.
L’‘orientamento all’utente’ è una rivoluzione in non poche organizzazioni professionali, spesso contraddistinte da una struttura estremamente complessa, dove si lavora in gran parte in modo implicito, sulla base delle ambizioni reputazionali dei singoli e delle istituzioni, largamente basate sui valori (value driven), in un contesto di autovalutazione tra pari. Da questo punto di vista le organizzazioni professionali hanno la tendenza intrinseca a essere autoreferenziali: ma non in accezione negativa, come solitamente questo termine viene usato. Il giudizio circa l’importanza di una particolare analisi o di una tecnica di conservazione, per es. sulla mummia del Similaun (Museo archeologico dell’Alto Adige), non è scelta democratica tra cittadini, quanto piuttosto questione riservata agli esperti, che indirizzano la propria azione e poi valutano in base a standard professionali più o meno chiari ed espliciti, a seconda dei casi, ma comunque definiti dalla stessa comunità di esperti.
Orbene, i processi di sviluppo della partecipazione democratica, dei diritti del cittadino e simili, portano a una nuova voce per l’utente stesso, spesso evocata dal termine ‘cliente’, che ha il diritto di avere voce in capitolo, diventa stakeholder, cioè coinvolto e quindi titolare di un interesse (Gruening 2001). Si tratta di un processo che riguarda forse tutte le organizzazioni professionali: lo studente è cliente, ha voce in capitolo, la sua prospettiva è parte del discorso globale e genera, a volte, implicazioni piuttosto drammatiche, come nel caso in cui il cliente/studente, pagando 40.000 dollari l’anno, pensa di avere comprato l’apprendimento ‒ piuttosto che le condizioni per apprendere ‒, che resta invece sempre processo individuale, non comperabile. Si afferma una logica di servizio, che, al di là della funzione principale erogata, prevede una valutazione più complessiva dell’interazione tra l’organizzazione e l’utente. Il malato, oltre alle cure, ha diritto al rispetto delle proprie esigenze, e rientra in tale ottica fare in modo che gli siano evitati sprechi di tempo, code o umiliazioni nel trattamento. Se il rischio di eccessi (e di eccessi retorici) rispetto alla soddisfazione del cliente è veramente elevato, d’altra parte il diritto dell’utente e la necessità di tenere in grande considerazione questa dimensione s’impongono come elementi nuovi, almeno in Occidente. Il che, già per questo, implica che un direttore di museo o sito archeologico, per es., si trova a svolgere un lavoro particolarmente difficile, dovendo contemperare la dimensione professionale con l’attenzione ai fruitori in una logica di ‘servizio’.
C’è tuttavia un’altra dimensione, se possibile ancora più ostica e più estranea alle logiche proprie di un’organizzazione professionale: il nodo delle risorse. I valori professionali tendono a porsi in modo universale e trasversale: un malato è un malato, e la questione di ‘budgettizzare’ la cura diventa elemento di tensione con la deontologia professionale; allo stesso modo, se una mostra deve essere importante, l’individuazione delle opere tende a seguire la logica del discorso storico-artistico, senza scendere a compromessi per questioni di risparmio. Ma la nuova attenzione alle risorse finanziarie e umane va a complicare il lavoro dell’umanista. Ancora pochi anni fa si poteva leggere in un libro con un certo fastidio a proposito del mestiere di soprintendente: «Dovrebbe esserlo [soprintendente] solo per i beni archeologici, oppure artistici e storici (e adesso anche demoetnoantropologici), o ancora ambientali e architettonici. E invece gli tocca anche motivare i dipendenti, soprattutto quelli frustratissimi che lavorano negli uffici, o cercare di introdurre regole minime di comportamento “aziendale”» (Dell’Orso 2002, p. 79). Ebbene, la questione è proprio questa: se le risorse umane non le gestisce il soprintendente, le gestirà qualcun altro, in modo più o meno competente e in modo più o meno distorto da una particolare consuetudine amministrativa; in ogni caso, il raggiungimento degli obiettivi professionali sarà a rischio se le persone che gestiscono direttamente questa leva non hanno l’adeguata professionalità. Per anticipare una questione relativa a Pompei, il fatto che nel 1998, su 711 posti di lavoro, solo 16 fossero coperti da archeologi, storici dell’arte e architetti, dà la misura di questo processo di generale deresponsabilizzazione: certamente sono principalmente i sistemi clientelari e di negoziazione politica (una volta si usava l’espressione ‘sottogoverno’) più o meno locale a dover essere chiamati in causa, con la partecipazione di sindacati pubblici; ma gli stessi professionisti del settore (professionals: ovvero archeologici, storici, architetti) sono stati corresponsabili nel rendere tutto questo possibile, non fosse altro che per la loro radicale e un po’ snobistica disattenzione rispetto al fastidioso problema di gestire le risorse umane, che sarà poi una delle cause principali del fallimento dell’organizzazione dal punto di vista dei valori professionali (il degrado di Pompei).
La difficoltà legata all’acquisizione delle risorse finanziarie è forse ancora maggiore (Carnagie, Wolnizer 1996), per una questione di tecnicalità e di ‘calcolabilità’, spesso percepita come antitetica rispetto ad aspetti culturali e umanistici (per quanto sia Michelangelo sia Ariosto tenessero direttamente la loro contabilità in partita doppia). Ma, anche qui, i valori professionali sono profondamente legati alla stessa evoluzione storica delle discipline, e alla marginalità, in senso storico, della questione del costo. Oggi, a metà del secondo decennio degli anni Duemila, si pone il problema di come mantenere l’opera lirica e la sua intrinseca non economicità: ma oggi, appunto, non potrebbe neanche nascere un genere così ‘costoso’, e l’archeologia stessa oggi non potrebbe svilupparsi in un contesto di costi (e costi del lavoro in particolare) tanto diverso dalla fase eroica dello sviluppo della disciplina. Lo stesso sviluppo di Ercolano da parte di Amedeo Maiuri (1886-1963), relativamente recente (1927-61; per una ricostruzione si veda Monteix 2009), oggi non sarebbe possibile, e nessuno si porrebbe un obiettivo simile. E, infatti, in un raro esempio di condivisione dei valori da diversi punti di vista, non si pone più il problema di scavare: un terzo di Pompei rimane inesplorato, con soddisfazione per i professionisti del settore che così non vedono peggiorate le condizioni di conservazione, e con risparmio di risorse umane e finanziarie.
Dunque un po’ ovunque – almeno nel mondo occidentale – i decenni recenti hanno visto il complessificarsi del problema della gestione delle organizzazioni culturali, con parallelo accrescersi della difficoltà del mestiere di direttore, con ricadute, dunque, su due diversi piani:
a) sul piano soggettivo, perché queste professionalità, soprattutto in Italia, arrivano a ricoprire postazioni di vertice senza alcuna formazione per quanto riguarda le competenze amministrativo-manageriali, di costi, di budget, di gestione delle risorse umane, di gestione di progetto. Per una stranezza tutta nostrana, nelle facoltà di archeologia non sono affatto diffusi corsi di economia e gestione dei progetti archeologici; e peraltro l’Italia è forse uno dei pochi Paesi in cui gli stessi direttori amministrativi sono laureati in legge piuttosto che provenire da studi economici e con robusta formazione in amministrazione, contabilità e gestione;
b) sul piano oggettivo, perché effettivamente si pone un problema di mediazione e trade-off tra le diverse componenti della gestione (tra aspetti professionali, di orientamento al visitatore, e di orientamento alle risorse). Si tratta cioè di individuare equilibri di compromesso, che consentano la viabilità e sostenibilità dell’organizzazione, perché le tre dimensioni sono tendenzialmente divergenti: aumentare il servizio all’utente solitamente chiede più risorse finanziarie e spesso pone tensioni all’aspetto professionale, per es. di rischio e deterioramento nel caso di un sito o monumento, o di abbassamento dei livelli di qualità in una logica di facile ‘cassetta’ nel caso di spettacolo dal vivo.
Questa discussione sul trade-off , sul compromesso, e su come strumenti di analisi e di scelta possano aiutare i decisori a fronte di problemi di tale portata è forse uno dei grandi temi di cui si avverte la mancanza nel dibattito sugli stakeholders: si tratta non tanto di un coinvolgimento generico degli ‘aventi diritto’, quanto piuttosto di definire percorsi sostenibili di compromesso tra dimensioni confliggenti.
A rendere ancora più complessa la situazione è la fragilità propria degli studi di management. In realtà, se in termini generali la gestione può essere investigata sia sotto gli aspetti sostantivi (per es. la natura e composizione delle risorse disponibili), sia in termini procedurali (l’adeguatezza dei sistemi e procedure di controllo dei costi), un rischio elevato risiede nel fatto che l’esperto di management, a fronte di innegabili difficoltà a capire l’essenza e gli elementi distintivi di organizzazioni guidate da valori professionali che non conosce o che coglie solo in superficie, si limiti alla parte più facile dell’analisi, cioè a un commento sulle procedure. Ciò con una perdita di rilevanza complessiva, un’inflazione di mera retorica manageriale e creando confusione su importanti differenze tra merito e metodo, che non facilitano il dialogo con i professionisti del settore. Si veda, per tutti, la posizione radicalmente critica di Cannon-Brookes (1998, p. 255): «I sistemi manageriali orientati esclusiavamente al mercato, se applicati ai musei, costituiscono grave minaccia alla loro integrità fisica e intellettuale poiché costringono tali istituzioni, incentrate sugli oggetti, a cercare di incrementare il loro flusso di denaro, e quindi i loro profitti commerciali, inseguendo un pubblico di massa, totalmente disinteressato rispetto alla funzione intinseca dei musei».
In vario grado e misura, queste tensioni sono comuni alle organizzazioni culturali di buona parte del mondo (Caves 2001), senza distinzioni significative tra una tipologia e un’altra (museo d’arte contemporanea o sito archeologico, o istituzione sinfonica). Se non si coglie questa dimensione essenziale, intrinseca, è difficile poi capire le specificità e gli elementi aggiuntivi che caratterizzano questo o quel Paese, e perché una particolare organizzazione artistica è inserita all’interno di una tradizione amministrativa.
Più che la ricchezza in sé del patrimonio, ciò che caratterizza dal punto di vista istituzionale e manageriale le organizzazioni culturali nel nostro Paese è il ruolo cruciale dello Stato, seppure in forme diverse: in termini di dipendenza dal finanziamento pubblico (si pensi alle fondazioni liriche e al loro peso sul FUS, il Fondo unico per lo spettacolo), o ancora più specificatamente, in termini di intervento diretto dello Stato nella loro stessa conduzione.
E da questo punto di vista le organizzazioni culturali manifestano una forte sensibilità a qualsiasi cambiamento che interessi la pubblica amministrazione in quanto tale: che si tratti di blocco di turnover, di regolamentazione degli appalti pubblici e così via, chi si occupa di gestione delle organizzazioni culturali in Italia si trova di fronte a capitoli assolutamente nuovi, aggiuntivi, rispetto al dibattito internazionale di cui sopra.
Molte delle questioni che intasano il tavolo di un direttore di una organizzazione artistica italiana hanno poco a che fare con quanto sopra menzionato in termini di conflitto e compromesso tra discorso professionale, orientamento al visitatore e all’uso delle risorse. In realtà buona parte del lavoro di un direttore nostrano è legato alle caratteristiche locali, assolutamente forgiato dalle particolari esigenze di dialogo con le logiche della pubblica amministrazione. Curiosamente, operatori e anche studiosi spesso dimenticano questo fatto: comprendere in via comparata i cambiamenti che hanno visto la luce nell’arco di un ventennio, a partire dai primi anni Novanta, a Pompei, Machu Picchu e al Museo della terracotta vuol dire non solo analizzare le dinamiche professionali rispetto all’utente e alle risorse, ma capire in via comparata i processi di trasformazione delle rispettive pubbliche amministrazioni.
Molte di queste problematiche accomunano il direttore di un’organizzazione artistica italiana a non pochi dei suoi colleghi europei: il New public management (NPM) è infatti un movimento più o meno controverso di trasformazione del settore pubblico, che ha come caratteristica quella di coinvolgere tutti i Paesi, almeno europei, pur con modalità differenti (si veda per tutti: Gruening 2001). Gli studenti di Arts management della Carnegie Mellon university, in Pennsylvania, probabilmente non hanno mai sentito il termine NPM, ma d’altra parte, essendo gli Stati Uniti un Paese in cui il ruolo dello Stato è marginale, non c’è un Ministero della Cultura e non ci sono interventi diretti del governo centrale, con la sola eccezione dello Smithsonian Institution, il problema della privatizzazione, o della destatizzazione, lì non si pone.
Ma forse, più di altre tradizioni amministrative, la nostra soffre (e con essa soffrono i direttori delle organizzazioni culturali) di un elevato grado di formalismo, di una impostazione law driven in un sistema che fatica più di altri a digerire una delle caratteristiche principali del management di derivazione anglosassone, vale a dire un approccio ‘situazionista’, dove non esistono e non sono concepibili soluzioni ottimali (la cosiddetta one best way), ma vengono studiate soluzioni ad hoc, che ben si adattano a questa o quella situazione, mentre altre si presenterebbero migliori in contesti diversi. È questa logica ‘adhocratica’, come è stata definita (Mintzberg, McHugh 1985), ovverosia capace di differenziare le soluzioni rispetto alla varietà delle situazioni, è questa capacità di integrazione dalla differenziazione che trova difficoltà a farsi strada in un Paese come l’Italia, dominato dalla legge (anche il controllo di gestione è stato inserito nella pubblica amministrazione per legge), che per sua natura è «uguale per tutti». E in effetti, in via teorica, ci si trova in una situazione critica in quei Paesi dove i processi di ‘managerializzazione’ non sostituiscono la tradizione della ‘giuridificazione’, ma danno luogo a uno sviluppo contradditorio in parallelo tra queste due tradizioni (per un approfondimento si veda Bonini Baraldi 2007). In questo senso, per es., come tutti coloro che abitano un’amministrazione pubblica ben sanno, il fatto che secondo una logica di responsabilizzazione si abbia un budget da gestire sui cui risultati poi si debba rispondere, non esime dall’obbligo di chiedere tre preventivi per fare un acquisto, o dare luogo a un bando pubblico per verificare la correttezza della lingua inglese di un lavoro, pur avendo impiegato anni a selezionare un traduttore efficace, dal cui operato i nostri risultati dipendono criticamente.
Per quanto riguarda il dibattito sulle organizzazioni artistiche italiane, allora, queste andrebbero forse scisse in due tipologie: quelle private (e qui poco si aggiunge rispetto alla letteratura internazionale) e quelle pubbliche. Su queste e sui relativi problemi specifici occorre riflettere, con riferimento ad alcuni casi, per evitare argomentazioni troppo astratte e decontestualizzate, e per capire, venendo al punto, il senso e la portata dei processi di decentramento a livello locale. L’approccio, in queste pagine, vuole essere quello degli studi di organizzazione e di management, cercando di evitare, anche nella forma, lo stile tipico del dibattito nel nostro Paese, dominato dalla logica e dal linguaggio del diritto amministrativo.
Il grado di centralizzazione è il risultato di complessi processi nazionali, politici e amministrativi: è un prodotto della storia amministrativa, che differisce da Paese a Paese. Da questo punto di vista è impossibile comprendere la tradizione del Ministero italiano per i Beni culturali senza considerare la storia dello Stato unitario dal 1861. Si tratta di un modello difficilmente esportabile (ma spesso neanche solo concepibile) in altri Paesi attualmente caratterizzati da marcati processi di decentramento (come gli Stati Uniti o la Cina, pur con le enormi differenze). Il coinvolgimento dello Stato nel sostegno e nella promozione della cultura e del patrimonio artistico è segnato da forti tensioni tra passato, presente e futuro (Girard 1996). Nonostante il contesto generale, le sue diverse origini e gli ‘accidenti’ storici, l’accentramento dell’amministrazione del patrimonio culturale italiano ha le proprie ragioni e una propria logica anche in senso organizzativo/gestionale: segnatamente il modo specifico in cui tratta due degli aspetti più controversi, vale a dire il controllo professionale e le esternalità economiche. Aspetti sui quali vale la pena soffermarsi se pur velocemente (Zan, Bonini Baraldi, Gordon 2007).
La straordinaria ricchezza del patrimonio culturale italiano (Paolucci 1998; Settis 2002) è spiegabile a un primo livello come fenomeno puramente storico, di ‘produzione’ artistica e monumentale legata al ruolo del nostro Paese nella storia della civilizzazione in Occidente. Ma esiste anche una spiegazione più interessante, come sottolinea efficacemente Salvatore Settis, per la quale la ragione della grandezza del patrimonio italiano «deve moltissimo alla cultura della conservazione sviluppatasi negli antichi Stati preunitari e poi nell’Italia unita» (2002, p.5). Ancora: «[Nel] nostro paese si è elaborata negli ultimi secoli una cultura della conservazione molto attenta e molto sofisticata, che ha valorizzato i singoli monumenti, grandi e piccoli, come parte di un insieme incardinato nel territorio, di una rete ricca di significati identitari, nella quale il valore di ogni singolo monumento od oggetto d’arte risulta non dal suo isolamento, ma dal suo innestarsi in un vitale contesto. È questa cultura che ha in primo luogo garantito in Italia la conservazione dei monumenti in misura maggiore che altrove» (2002, p.15). L’affermazione regge certamente in relazione ad altri Paesi (ad altre even worse practices, verrebbe da dire), anche se il saccheggio sistematico del Paese a partire dagli anni Cinquanta è elemento che non va taciuto. Del resto, è stata sottolineata l’incapacità a graduare pragmaticamente le priorità, in un atteggiamento complessivo che alla luce dei fatti potrebbe risultare velleitario (Gordon 1995).
Come sostiene Settis (2002, p.5), «la nostra cultura della conservazione è stata, e in certa misura è ancora, la più ricca e avanzata del mondo, e [...] implica una forte, marcata, prioritaria attenzione dello Stato verso il patrimonio culturale, inteso come proprietà di tutti i cittadini». L’Italia è di certo uno dei pochi Paesi al mondo in cui la conservazione del patrimonio culturale compare tra i principi fondamentali della Costituzione come un dovere dello Stato. Inoltre, la nozione di ‘Beni culturali’ è un costrutto legale, i Beni culturali sono definiti ex lege. È in questo contesto che si deve inquadrare l’odierno sistema di amministrazione dei Beni culturali, basato sul forte ruolo dell’amministrazione centrale (il Ministero) e del suo complesso apparato locale (le soprintendenze).
Gli osservatori stranieri tendono a sottovalutare la realtà cruciale che i soprintendenti rispondano al Ministero centrale, elemento caratterizzante la tradizione della soprintendenza, con connotazioni sia negative (come regole superate per gestire il personale e i dipendenti di alto livello) sia positive (come indipendenza dai rapporti con il potere e con le clientele locali). Per es. alcuni colleghi cinesi tendono a usare il termine italiano ‘soprintendenza’ per fare riferimento alle loro strutture periferiche di tutela e conservazione. Sfortunatamente, in Cina il responsabile locale della tutela (a livello di municipalità o provincia) dipende dalla stessa amministrazione locale (dal sindaco o dal direttore della Provincia), per cui viene meno la funzione di filtro professionale indipendente nelle e dalle dinamiche locali: se un sindaco avesse velleità speculative, opporsi potrebbe costare il posto di lavoro o la carriera.
Emerge da questo quadro che mentre la gestione dei siti archeologici e dei musei nazionali potrebbe ben essere trasferita a livelli amministrativi decentrati (con la dovuta cautela) con qualche vantaggio operativo, un certo tipo di centralizzazione (il controllo professionale attraverso un insieme complesso di regole amministrative) costituisce ancora un aspetto positivo nella tutela, elemento di forza per la conservazione del variegato patrimonio culturale italiano nei secoli. Ciò vale per la soprintendenza intesa come meccanismo istituzionale, pur essendo ben noto che nella realtà le soprintendenze versino in una sorta di degrado amministrativo, ingabbiate in un sistema di ossessivo controllo di forma, sottofinanziate e senza una moderna politica del personale, con impatto negativo sulla loro stessa efficacia.
Un altro importante ordine di ragioni in favore di un alto grado di centralizzazione del sistema è la mancanza di profittabilità nella grande maggioranza dei musei e delle istituzioni culturali presi individualmente. Nonostante possano esserci eccezioni (soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, con costi locali ma ricavi in linea con il potere d’acquisto occidentale: Zan, Bonini Baraldi 2012), un’istituzione in grado di autofinanziarsi non può che essere considerata un’estrema rarità.
In tale situazione l’accentramento può giocare un duplice ruolo:
a) fungendo da stanza di compensazione (clearinghouse) per redistribuire le risorse dalle istituzioni più ricche a quelle più povere, aiutando così situazioni in via di sviluppo (il mercato non riconosce ancora il valore di siti minori rispetto ad attrazioni più famose) o di riconoscimento del valore non economico (per es. l’identità di una piccola comunità);
b) mitigando il fenomeno di ‘fallimento di mercato’ associato all’esistenza diffusa di esternalità positive (ovvero effetti economici positivi dove il patrimonio culturale ha un effetto benefico su altri parti dell’economia). Ciò avviene spesso con il turismo culturale: per es., i turisti che visitano Pompei spendono in maniera consistente all’interno dell’economia locale (per trasporto, alloggio, ristoro, shopping, ecc.), rispetto al valore relativamente basso del biglietto d’entrata che va a diretto beneficio del sito archeologico. Senza dubbio il patrimonio culturale (monumenti, chiese, musei, ma anche le strade di città come Firenze, Roma, Venezia, ecc.) è una delle ragioni principali per cui i turisti visitano l’Italia. E d’altra parte, anche in termini puramente economici, il turismo costituisce un business molto importante per il Paese nel suo insieme.
Si è dunque evidenziato che esistono livelli elevati di centralizzazione nel sistema dei Beni culturali, e alcune (buone) ragioni storiche che giustificano questo stato di cose. Il problema si ripropone in realtà anche a livello di amministrazioni locali, dove la tradizione amministrativa è in direzione di un accentramento (se pure geograficamente decentrato). Nell’articolazione di servizi pubblici di un comune nostrano, il concetto stesso di autonomia di un singolo ente (un museo, per es.) è in genere (e storicamente) fuori dalla tradizione. Si tratta di ‘un pezzo’ dell’amministrazione cittadina, non di enti autonomi, che non hanno personalità giuridica, i cui eventuali introiti – storicamente – vanno all’amministrazione ‘centrale’ (il comune), che poi distribuisce le risorse alle varie articolazioni dell’amministrazione (la cultura, l’anagrafe e così via) in logiche proprie e altre rispetto a questioni di accountability e di incentivi. Pur mancando in questo caso il collante forte della protezione, possono esserci ragioni non banali di questa tradizione di accentramento (ancora stanza di compensazione, effetti redistributivi su servizi che in gran parte non hanno economicità propria e richiedono sovvenzioni).
Ma se fallisce il mercato, ciò non vuol dire che uguale sorte non possa toccare anche all’organizzazione, cioè che l’organizzazione statale, in questo caso, abbia sorte migliore.
«La questione del fallimento dell’organizzazione è in effetti un tema generale della riforma del settore pubblico in tutto il mondo, con profonde esigenze di modernizzazione che ha poco senso liquidare come questione marginale […] Il tema interessa i servizi pubblici a livello planetario (World Bank 2005) e il nostro paese in generale, coinvolgendo in questo senso anche il tema dei Beni Culturali […] Certo restano alcune peculiarità per quanto riguarda i Beni Culturali, e la varietà di interventi – dall’outsourcing alla privatizzazione – hanno qui significati assolutamente particolari che è indispensabile comprendere. Su questo però a mio avviso interviene un altro elemento, vale a dire l’enorme pervasività nel nostro paese del concetto di valenza ‘pubblica’, per cui una università statale, per es., è pubblica in molteplici sensi: non solo non esistono finalità di lucro, ma tutto il personale è dipendente pubblico, selezionato, assunto, gestito negli sviluppi professionali di carriera secondo le logiche del pubblico impiego; le risorse finanziarie seguono la logica della finanza pubblica, con effetti a volte semplicemente stupidi, non solo sulla questione della riduzione delle risorse finanziarie, ma sulle modalità che l’amministrazione pubblica impone (solo per fare un esempio, quando non si rimborsano spese di missioni a funzionari il cui compito è preservare il territorio); i test di ammissione degli studenti a corsi con numero programmato sono a tutti gli effetti concorsi pubblici» (Zan 2003, p. 7). Si tratta di una serie di vincoli – di lacci e lacciuoli, come si diceva una volta – che non interessano l’università privata, che comunque viene generosamente finanziata dalla Stato.
Il fallimento della riforma dell’autonomia di Pompei, da questo punto di vista, è forse l’esempio tra i più problematici, una sorta di ‘lutto amministrativo’ che sarebbe il caso di elaborare, per capire cosa non ha funzionato, dove si blocca il nostro sistema amministrativo, anche quando non si abbia alcun interesse a una vera e propria ‘privatizzazione’. Sbandierata come sperimentazione rivoluzionaria nel 1997, i tratti salienti, per quanto qui interessa, sono così sintetizzabili (Guzzo 2003): a) l’istituzione di un Consiglio di amministrazione, formato da tre persone invece che dalla figura monarchica del soprintendente; b) l’istituzione della figura del city manager, una sorta di direttore amministrativo con elevato potere, mandato a termine e possibilità di assunzione dall’esterno; c) l’autonomia amministrativa, e dunque una forma di accountability prima sconosciuta; d) l’autonomia finanziaria, attraverso un sistema di ritenzione a livello locale dei proventi derivanti dalla vendita dei biglietti, con l’idea che tali risorse potessero supportare il recupero di Pompei, secondo quanto delineato dal Piano del 1997, dove si stimava che fossero necessari 500 miliardi di lire e un decennio per porre rimedio al degrado.
Qualche serio problema poteva evidenziarsi sulla carta (Zan, Paciello 1998) già a pochi mesi dall’istituzione della l. 8 ott. 1997 nr. 352, prima che la sua attivazione facesse emergere ulteriori problemi e carenze.
Era, per es., intuibile che il Consiglio composto da persone scelte secondo criteri organizzativi poco chiari (il soprintendente secondo un principio di autorità, il city manager secondo un principio di prestazione, il terzo ‘funzionario anziano’ in base a un principio di appartenenza) probabilmente non sarebbe stata la soluzione ideale per fornire competenze articolate e di varia natura per i processi di decisione.
Effettivamente, l’unico cambiamento in termini di risorse umane era costituito dal city manager, nel senso che la riforma in atto non lo autorizzava a portare con sé alcun collaboratore né ad assumere altro personale direttivo. La pianta organica rimaneva quella definita a suo tempo, per legge e con logica centralizzata, per tutto il ministero.
L’apparato centrale si oppose radicalmente alla possibilità che la nuova entità adottasse una contabilità economica, con una scelta che non avrebbe permesso fino in fondo l’‘emancipazione’ della gestione da quella forma obsoleta che è la contabilità finanziaria – in fase di discussione, spesso con progetti di un suo superamento, in tutte le pubbliche amministrazioni del mondo, almeno in Occidente.
Anche l’autonomia gestionale – nel senso che uno studioso di management normalmente intende – e quella finanziaria si dimostravano assolutamente parziali. L’amministrazione del personale rimaneva accentrata al ministero, e, di conseguenza, gli stessi costi del personale non venivano imputati al rendiconto, al bilancio di Pompei. Di fatto, la sbandierata autonomia riguardava solo 1/3 delle risorse spese in Pompei. Mancavano dati analitici sui costi del personale, fatto in sé piuttosto emblematico; ma a fronte dei 711 dipendenti di allora si può stimare una spesa complessiva pari a circa 35-40 milioni di euro. A questa si aggiungevano spese coperte con i biglietti, equivalenti a circa 20 milioni di euro in fase di inizio autonomia.
In tale situazione, oltretutto, non esisteva un meccanismo di incentivi nè un sistema di ricompensa, premi e sanzioni nella riorganizzazione del lavoro (legato a competenze, professionalità, gestione del personal ecc.), elemento, questo, centrale in tutte le amministrazioni del mondo, soprattutto quelle più antiche, in via di trasformazione. L’outsourcing e la stessa possibilità di verificare in modo pragmatico e non ideologico le cosiddette scelte di make or buy (conviene fare una certa operazione all’interno o comprarla sul mercato), nell’ambito delle svariate attività e dei compiti che si svolgono in un’organizzazione così complessa, erano semplicemente considerate ‘non razionali’. Al di là della tensione sociale che scelte di outsourcing avrebbero portato, queste non si ponevano nemmeno sul piano logico: avrebbero fatto risparmiare, eventualmente, costi del personale al ministero, gravando di costi di servizi la soprintendenza. Nella paradossale stranezza del meccanismo di funzionamento economico finanziario (business model) disegnato dalla legge (dove buona parte dei costi correnti è altrove, nel bilancio del ministero; e dove le entrate correnti, i biglietti, coprono costi per larga parte straordinari di restauro e recupero) ciò avrebbe comportato, anche sotto il profilo professionale, una scelta di sostituzione di ‘voci’ legate alle spese correnti con altre riferite ai compiti di recupero del degrado.
Il grande assente della riforma, il problema delle risorse umane, si evidenziava drammatico già allora, sulla carta. Nessun ridisegno di un sistema squilibrato, nella composizione e nelle professionalità, veniva ad aprirsi. I 16 professionisti del settore rimanevano tali (e pochi), vero e proprio collo di bottiglia anche in fase di gestione dei cantieri e di direzione dei lavori, e questa mancanza di ridefinizione delle risorse umane portava alla facile previsione che Pompei si avviasse a una sindrome di incapacità di spesa. «Paradossalmente, dopo aver chiamato a raccolta nuovi finanziamenti, il rischio più grosso è quello dell’incapacità di spesa; il problema prioritario quello dell’organizzazione, del disegno delle condizioni e dei meccanismi organizzativi che consentano di spendere garantendo e controllando la qualità del restauro in tutte le fasi necessarie» (Zan, Paciello 1998, pag. 73).
Certamente errare è umano, anche nel fare le leggi, e può accadere di ‘sbagliare’ alcuni dettagli della norma, non esendo possibile prevedere le ‘conseguenze inattese’, specie nella complessità del nostro sistema amministrativo. Tuttavia, forse, non sarebbe male porre fine a una tradizione di riforme amministrative del ministero (che dura da decenni) fatte da giuristi, con la presenza di qualche economista, ma senza mai coinvolgere né i professionisti di settore né esperti di organizzazione e di management, come invece accade in più parti del mondo. L’effetto perverso della riforma di Pompei si sarebbe potuto risolvere con pochi correttivi, che però nessun governo o ministro ha mai voluto apportare, nemmeno in occasione dell’istituzione dei poli museali, ai quali anzi si estende in forme ancora più riduttive l’iniziale schema dell’autonomia (Bonini Baraldi 2007).
E del resto, l’attivazione della legge e la sua effettiva gestione hanno poi dato ragione alle previsioni più pessimiste. «La situazione di Pompei nel 2008 può essere sintetizzata con una strana equazione politica: Pompei 2008 = legge 352/1997 + Napoli – City Manager + Commissario – 70 milioni di euro, dove ognuno dei cambiamenti introdotti dopo la riforma ha indebolito la logica iniziale dell’autonomia, minandone le potenzialità e le aspettative» (Ferri, Zan, 2012). A partire da un già debole impianto della riforma, eventi e processi successivi hanno provocato ulteriori danni, fino alla chiusura dell’esperienza dell’autonomia della Soprintendenza di Pompei, che tanto valore simbolico aveva avuto alle origini.
In primo luogo, la fusione della Soprintendenza di Pompei con Napoli nel 2008 ha effetti (non previsti, ancora una volta probabilmente) negativi sulla riforma originaria. La Soprintendenza di Napoli si trovava in una situazione di profonda crisi, con elevati gradi di arretratezza e ritardi anche nella manutenzione. Con la fusione, Napoli ha potuto usufruire dei flussi finanziari raccolti a Pompei per fare fronte a proprie spese correnti. Al di là dei seri problemi organizzativi, in questa fusione di fatto si viene ad annacquare il processo di responsabilizzazione che caratterizzava la riforma, secondo la quale bisognava destinare le risorse di Pompei al recupero del suo degrado.
In secondo luogo, lo stesso percorso della figura del city manager racchiude elementi inquietanti e riassume in un certo senso tutta l’involuta storia della riforma. Ostentata all’inizio come elemento centrale del processo di modernizzazione (il city manager avrebbe dovuto essere garanzia di riforma in senso manageriale), questa figura sarà eliminata nel 2007 dal ministro dei Beni e delle Attività culturali Francesco Rutelli, dopo alcune controverse questioni sul possibile candidato alla quarta carica. Nell’impianto originario il city manager, da una posizione centrale, avrebbe dovuto gestire l’autonomia di Pompei, almeno in tema di contabilità e risorse finanziarie: la lottizzazione politica prima e l’eliminazione della figura stessa poi riflettono, ancora una volta, l’assoluta incomprensione da parte di apparato e ministero della logica manageriale che era implicita – ancorché in modo parziale e contradditorio – nella riforma.
In terzo luogo, il commissariamento ha dato un ulteriore contributo al complessivo smantellamento della riforma: «L’introduzione temporanea di un commissario delegato nel 2008 ha ridotto di gran lunga i poteri del soprintendente, a posizione di city manager già abolita. Con l’emergenza e la nomina del commissario si realizza quindi la definitiva distorsione dei ruoli e delle responsabilità organizzative inizialmente delineate dalla riforma. Tutto questo è avvenuto in assenza di una valutazione approfondita delle performance pregresse o delle cause dell’emergenza, che in definitiva rende il ‘chi ha fatto cosa’ (o meglio il ‘chi non ha fatto cosa’) molto più complesso da determinare» (Ferri, Zan 2012).
Ma al di là degli aspetti di metodo (pur cruciali in questo caso), nel merito, gli interventi sono ancora più dirompenti, con la sottrazione in due diversi momenti di circa 70 milioni di euro (30 da parte del ministro Rocco Buttiglione nel 2006 e 40 da parte del commissario Marcello Fiori nel 2008), che compromettono la logica stessa del recupero di Pompei e la responsabilizzazione economica che la riforma perseguiva. Se in termini sostantivi tale depauperamento rende più rischiosa la situazione di Pompei e non aiuta a invertirne il degrado, da un punto di vista procedurale si tratta ancora una volta di atto deresponsabilizzante: certamente chi fosse responsabile del Piano per Pompei potrebbe argomentare che parte consistente delle risorse sono state sottratte all’idea stessa.
«L’equazione appena presentata testimonia un processo di progressivo smantellamento dell’idea iniziale di autonomia per Pompei. In questo senso, la recente storia amministrativa di Pompei riflette l’incapacità o l’assenza di volontà da parte dell’apparato centrale nel supportare il processo di decentralizzazione in modo coerente e continuo negli anni, un fallimento per il quale sia ministri di centro-destra che di centro-sinistra possono essere ritenuti responsabili» (Ferri, Zan 2012). Difficile aggiungere ulteriori commenti, rispetto al radicale fallimento di questa riforma e alla perdurante lontananza da ogni logica manageriale del legislatore. Per non dire poi dell’incapacità della politica di porre il problema dell’organizzazione del lavoro e delle risorse umane al centro del dibattito su Pompei in particolare, e sui Beni culturali (e non solo).
A livello di amministrazioni locali la situazione è forse meno drammatica, ma certamente ben lontana da una chiara definizione di compiti e ruoli e di una complessiva responsabilizzazione economica. All’interno dell’amministrazione pubblica, il museo tende a restare organizzazione circoscritta, incompiuta, con una rendicontabilità parziale per sua natura. La retorica del management porta a chiedere comportamenti di tipo proattivo, ma non si forniscono ai direttori – quando ci sono e quando vengono sostituiti nel caso di pensionamento – strumenti e anche solo informazioni adeguate per la gestione (per es., una logica di benchmarking è virtualmente impossibile per i musei civici italiani, che non dispongono di forme adeguate di rendicontazione, tantomeno pubblica e omogenea). Si tratta di un «gioco non equo» del discorso sulla managerializzazione (Zan 2003, cap. 4).
Dalla pervasività della nozione di pubblico, e dalla sua resistenza a ogni significativa riforma che ne rimetta in discussione le logiche di fondo all’interno dell’amministrazione pubblica, tanto nazionale quanto locale, deriva la pressione (altrettanto debordante) ad abbandonare tale condizione, a ‘uscire dal pubblico’, con una varietà di forme di ‘privatizzazione’ che molto facilmente risultano ambigue e confuse nel loro potenziale significato (di depubblicizzazione o destatizzazione per quanto riguarda questo o quest’altro aspetto in particolare).
Si ripete in Italia quello che accade in molte parti del mondo, con diffusi processi di trasformazione istituzionale che hanno in comune un obiettivo abbastanza chiaro (tralasciando le forme selvagge di vera e propria privatizzazione): la costruzione di entità che siano pubbliche ma di diritto privato (publicly owned and privately run).
L’esempio più elegante, quello cioè più compiuto e internamente consistente, salvo gli eccessi di management alla fine degli anni Novanta, è il British museum. Il museo londinese sperimenta una nuova autonomia che porta a una inedita situazione di responsabilizzazione, con la definizione di un finanziamento ‘in unica soluzione’ (il cosiddetto one-block grant) che i gestori hanno totale autonomia a spendere, pur dovendo poi rendere conto degli effettivi risultati di gestione anche per gli aspetti professionali. Un’invenzione rivoluzionaria, che supera quella caratteristica di fondo che rende difficile la vita di molte amministrazioni pubbliche nel mondo, vera e propria istituzione storica (già in vigore a Venezia nel Quattrocento): l’allocazione di risorse per capitoli di spesa. Il finanziamento in unica soluzione elimina semplicemente questo concetto. Un esempio molto chiaro per capire a fondo la differenza con la tradizione amministrativa italiana è costituito dalla circolare nr. 2 della Ragioneria generale dello Stato avente a oggetto ‘Enti ed organismi pubblici - bilancio di previsione per l’esercizio 2013’, in base alla quale viene imposto che per l’esercizio 2013 le spese di missione devono essere ridotte del 50% rispetto all’anno precedente. Ancora una volta una logica incredibile di accentramento, in cui addirittura si fissano – in corso d’anno, nonostante siano già stati presi impegni – limiti non al complessivo ammontare di risorse, ma su singoli capitoli di spesa, senza tenere minimamente conto delle esigenze di differenziazione di singoli istituti e progetti.
Sulla base di un’approfondita ricerca comparata a livello internazionale relativamente alla gestione dei Beni cultuali (Lusiani, Zan 2010; Zan, Lusiani 2011; Zan, Bonini Baraldi 2012) emerge che, nel paragonare forme di trasformazione istituzionale nei vari Paesi, queste prendono piede, in misure e in forme assai diverse, ridefinendo ‒ o ignorando per sempre, come nel caso della Turchia (Shoup, Bonini Baraldi, Zan 2012) ‒ i problemi della reale autonomia delle entità individuali.
La via italiana al one-block grant è quella delle fondazioni, con specificità locali (ne fanno un uso diffuso le fondazioni in partecipazione) che però si possono facilmente ricondurre alla discussione, se non alle soluzioni, circa i processi di decentramento gestionale in buona parte del mondo occidentale. Gli esempi sono veramente numerosi, nel corso di tutto il primo decennio degli anni Duemila, e non solo nei Beni culturali. Ci sono decisioni non prese, non pochi casi di cambiamenti non realizzati: la mai implementata fondazione dei musei civici milanesi, né secondo la forma ipotizzata all’inizio degli anni Duemila, né secondo quella più limitata di fondazione dei musei civici scientifici (2009 circa); la mancata trasformazione dei musei civici di Bologna, non solo nella forma auspicata da una commissione di ‘tre saggi’ (composta da Marco Cammelli, Luciano Vandelli e Luca Zan), istituita nel 2006 dal sindaco di allora Sergio Cofferati, ma nemmeno nella versione ‘ridotta’ di trasformazione in istituzione, salvo utilizzare questa opzione nella situazione di crisi finanziaria odierna, accorpando gli altri musei civici al già esistente Museo d’arte moderna di Bologna (MAMbo), in una logica ben diversa da quanto allora suggerito. Nel caso dei musei civici di Venezia, invece, qualcuna di queste trasformazioni è avvenuta, anche senza troppe polemiche e in modo lineare.
Ancor più controversa – soprattutto sugli aspetti professionali – è stata la trasformazione in fondazione del Museo egizio di Torino. Sotto l’aspetto manageriale interessa sottolineare quanto si sia reso necessario modificare l’atteggiamento iniziale, risalente ai tempi ormai lontani in cui i vari sponsor facevano a gara per finanziare ristrutturazioni di questa o quella galleria e promuovere interventi straordinari di riallestimento del museo (Dal Pozzolo, Zan 2003). Nella nuova ottica, invece, definendo il business plan, la questione centrale sarebbe stata la perpetua situazione di non pareggio, di non autofinanziamento del museo, per quanto riallestito e rilanciato. Il che portava l’attenzione su un risultato negativo in termini di earned income (entrate da biglietti e altri incassi da vendite dirette al visitatore), parola curiosamente assente dal linguaggio amministrativo italiano: gli introiti da vendite di biglietti e vendite ai visitatori coprivano infatti solo parte dei costi di funzionamento, cosa comune a tutti i musei occidentali, anche a quelli americani. Conseguentemente, l’attenzione cominciò a focalizzarsi sul nuovo concetto di income gap (termine, anche questo, assente nei dibattiti italiani: un reddito negativo con un significato assai puntuale di differenza negativa, ottenuta sottraendo agli introiti dai visitatori i costi operativi del museo), che si doveva coprire, in assenza di filantropi (presenti invece nel mondo americano), con un impegno di lungo periodo tra i partecipanti in conto esercizio.
Infine, fra tutti i processi di trasformazione istituzionale, quello che ha suscitato maggiori polemiche riguarda gli ex enti lirici trasformati in fondazioni liriche. Se la logica di fondo era quella di coinvolgere almeno in parte i privati in termini di finanziamenti (mantenendo comunque la natura di proprietà pubblica), e di consentire forme di gestione più semplici e prevedibili (secondo la logica di gestione privatistica), i risultati anche qui non sono incoraggianti. Il ricorso continuo al commissariamento (6 dei 14 enti sono stai commissariati dal 2005 al 2011; Ferri 2012) dimostra il fallimento di questa riforma. A ciò si deve aggiungere solo un dato, verificato con precisione nel caso del Teatro comunale di Bologna (Sicca, Zan 2004): il fenomeno, cui si è accennato nell’introduzione di questo saggio, con un po’ di ironia, come di tatcherismo all’italiana, per cui nel corso degli anni Novanta si riduce il finanziamento statale del 25%, senza ridurre il personale. Il problema dell’organizzazione del lavoro (a partire da quello della dimensione delle masse orchestrali; Mariani 2008) ancora una volta esula dalle attenzioni delle riforme.
Tutte queste riflessioni trovano poco riscontro nel dibattito politico italiano sulla devolution (il processo di decentralizzazione di funzioni regolative e anche di ruoli diretti nella gestione, dallo Stato agli enti locali). Il che mette in luce l’estrema lontananza da qualsiasi interesse specificamente manageriale di quella discussione, e viceversa. Si tratta di una sorta di decentramento geografico, piuttosto che organizzativo, in linea con questioni più generali e comuni nel dibattito politico italiano (riforma dell’amministrazione centrale, federalismo, ecc.). Si potrebbe osservare che in chiave economico-organizzativa il decentramento territoriale – che può avere significati nettamente distinti in Paesi di diversa dimensione e tradizione – è forse molto meno cruciale nel caso dell’Italia (oltre al timore che tutto il processo finisca per essere più costoso e meno efficiente; Santagata 1998).
Ma in tema di Beni culturali qualche ulteriore osservazione è possibile.
In primo luogo, rispetto ai problemi già discussi di Pompei, sicuramente, nell’opinione di alcuni, la devolution potrebbe essere una soluzione. Secondo l’analisi riportata in questo saggio, tuttavia, essa aumenterebbe solo il rischio dal punto di vista professionale senza il controbilanciamento di alcun beneficio sostanziale. Il trasferimento di autorità da ‘un ’ centro, che perlomeno ha una tradizione di professionalismo, a ‘numerose’ periferie (le regioni), dove non esistono simili meccanismi di sviluppo del controllo professionale, appare azzardato. Un risultato non desiderato potrebbe essere una diminuzione del livello di efficacia dal punto di vista professionale, senza per questo ottenere aumenti di efficienza. Per es., regole consolidate per la conservazione e la cura potrebbero facilmente essere aggirate, o per equivoche dimostrazioni di sciovinismo locale, o per inappropriato sfruttamento economico. Decentralizzare la protezione (e la sua specifica tradizione centralizzata) porterebbe pericolosamente vicini al modello cinese, con i responsabili dei Beni culturali ostaggio delle coalizioni politico-amministrative locali. Peraltro, qualora il disegno istituzionale di Pompei fosse ben delineato in senso manageriale (sull’esempio del British museum), che un consiglio di amministrazione gestito in una logica di diritto privato renda conto a Napoli città, alla Campania, al Ministero a Roma (o magari, con una provocazione fantapolitica, all’UNESCO a Parigi) non aggiungerebbe nulla, se non i rischi di lottizzazione aggiuntiva.
In secondo luogo, ciò che è pericolosamente assente dal dibattito sul trasferimento agli enti locali è una seria discussione su che cosa succederebbe quando i musei nazionali fossero trasferiti agli enti locali. Manca una valutazione sistematica di questa esperienza, che nel complesso non sembra aver portato a risultati significativi. Infatti, la mancata devolution, come evidenziato da Luca Dal Pozzolo (a suo tempo coinvolto in questo processo), nasce anche dal fatto che regioni e comuni si costituiscono come ‘centrini’ più piccoli: la logica territoriale, di gestione in rete, di modelli di gestione diffusa è sostanzialmente assente (la Regione Piemonte è tra le poche dotate di standard di rete in corso di adozione). Regioni ed enti locali vorrebbero anche loro gli Uffizi e il Colosseo, mentre per mancanza di efficienza scappano davanti alla gestione di musei di provincia e di aree archeologiche. Le stesse contraddizioni al centro si ritrovano in periferia perché di fatto latita la sussidiarietà orizzontale: il bene viene considerato come un’emergenza singola fuori da un progetto e da un’economia di territorio, esattamente come avviene per lo Stato. L’intero dibattito sembra non tenere conto dei limiti emersi dalla (quantitativamente scarsa) ricerca sui musei civici italiani, i quali sono generalmente meno costretti nelle maglie della burocrazia statale, mostrando però di avere ancora serie pecche in termini di mancanza di autonomia e di accountability. Se questo è vero, la devolution come soluzione possibile aggiunge poco o nulla al miglioramento delle condizioni manageriali, spostando marginalmente verso il basso il grado di decentramento organizzativo (anche i comuni rimangono organizzazioni tendenzialmente centralistiche).
In terzo luogo, per completezza della discussione, anche se esula dal problema strettamente legato ai Beni culturali, il caso delle fondazioni liriche pone anch’esso qualche perplessità. Al di là di pratiche amministrative che hanno consentito a questi enti di presentare perdite di esercizio troppo elevate rispetto al volume di attività per una perdurante impostazione patrimonialista, ancora una volta la questione del deficit tendenziale ineliminabile (income gap) non è al centro dell’attenzione: né nella ridefinizione dei costi (e dei volumi di costi ammissibili, in relazione a una ridefinizione degli organici innanzitutto), né in quella degli interventi strutturali di copertura di questo gap. La stratificazione di sovvenzioni a vari livelli dell’amministrazione, statale, regionale, provinciale, comunale, senza mai rimettere in discussione il valore complessivo delle attività e delle risorse necessarie è l’elemento centrale che emerge dalla ricerca sul finanziamento pubblico allo spettacolo (Le risorse per lo spettacolo, 2009).
In fondo, in questa incapacità storica di indirizzare le logiche di riforma della pubblica amministrazione, ormai tristemente sperimentata in molte forme e situazioni, risiedono i veri costi della politica nel nostro Paese.
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