Abstract
Viene esaminata la disciplina del contratto di mandato, di cui agli artt. 1703-1730 c.c., seguendo la scansione del codice civile, con particolare attenzione ai caratteri fondamentali del negozio, alle obbligazioni del mandatario e all’estinzione del contratto.
Il contratto di mandato, nell’impianto codicistico, trova la propria disciplina in un capo ad esso intitolato (il capo IX del titolo dedicato ai singoli contratti), che, peraltro, contiene anche la normativa in tema di commissione (sez. II, artt. 1731-1736 c.c.) e spedizione (sez. III, artt. 1737-1741 c.c.). Il corpus normativo in cui si è soliti rinvenire la disciplina del mandato vero e proprio (artt. 1703-1730 c.c.), dunque, corrisponde in realtà alla sola sez. I, dedicata alle disposizioni generali. Tale sezione, infatti, racchiude una disciplina organica del mandato in generale (la quale riunisce una normativa prima divisa fra gli artt. 1737-1763 del c.c. del 1865 e gli artt. 349-366 del c. comm. del 1882), mentre le figure della commissione e della spedizione sono tradizionalmente identificate alla stregua di sotto-tipi, ossia declinazioni particolari della figura generale, fornite di una parziale disciplina autonoma in ragione della loro peculiarità.
La disciplina generale del mandato si articola in quattro comparti: il primo, costituito dagli artt. 1703-1709 c.c., dedicato ai fondamentali lineamenti del tipo ed ai caratteri preminenti del contratto; il secondo (§ 1, artt. 1710-1718 c.c.), alle obbligazioni del mandatario; il terzo (§ 2, 1719-1721 c.c.), a quelle del mandante; il quarto ed ultimo (§ 3, artt. 1722-1730 c.c.), all’estinzione del contratto.
Il mandato è definito dall’art. 1703 c.c. (il quale ne fornisce la «nozione», secondo una tecnica normativa assai frequente nel titolo III del libro IV del codice) come «il contratto col quale una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra».
È posta, così, in primo piano l’efficacia obbligatoria del contratto dal lato del mandatario (ma si vedrà che è discusso se, in talune ipotesi, il mandato dispieghi anche effetti reali), mentre la norma nulla dice circa la prestazione del mandante, alle cui obbligazioni sono invece dedicati gli artt. 1719-1721 c.c. Anche le obbligazioni del mandatario, peraltro, sono diverse ed assai variegate, non limitandosi a quella fondamentale delineata nel citato art. 1703 c.c., ma trovando compiuta disciplina negli artt. 1710-1718 c.c. In ordine alle prestazioni delle parti, poi, grande importanza assumono gli artt. 1708 e 1709 c.c.
È generalmente condiviso l’inquadramento del mandato oneroso fra i contratti a prestazioni corrispettive, individuandosi il sinallagma nel nesso tra l’obbligo principale del mandatario e quello, gravante sul mandante, di pagare il compenso convenuto. Non manca, tuttavia, una diversa impostazione, che vede nel mandato oneroso un contratto sì con obbligazioni di ambo le parti, ma non sinallagmatico, in quanto fondato sulla fiducia e non sulla logica dello scambio, con conseguente inapplicabilità della disciplina in tema di rescissione e risoluzione. Sul punto ci si può limitare ad osservare che la prima qualificazione non appare in contrasto con la seconda, solo dovendosi precisare che, mentre la fiducia caratterizza sia il mandato oneroso sia quello gratuito, un sinallagma è ravvisabile solo nel primo.
Il mandato non è un contratto formale: la legge non ne richiede la forma scritta né ai fini della validità, né a quelli della prova. Ciò vale anche nel caso in cui esso obblighi il mandatario all’acquisto di beni immobili o mobili registrati (e, quindi, al compimento di attività giuridica formale), non potendo trovare applicazione né l’art. 1392 c.c., dettato in tema di procura, né l’art. 1351 c.c., il quale attiene al contratto con cui le parti si obbligano a concludere fra loro (e non già con terzi) un futuro contratto (contra Cass., 2.7.1990, n. 6764, in Giur. it., 1990, I, 1694 ss.). Per la medesima ragione deve escludersi la trascrivibilità di un mandato siffatto ai sensi dell’art. 2645 bis c.c. Una scrittura con data certa è peraltro richiesta, come si vedrà, ai fini dell’opponibilità del contratto ai creditori del mandatario (art. 1707 c.c.).
La nozione di mandato pone, altresì, in luce la particolare natura dell’attività del mandatario, consistente nel compimento di atti giuridici (anche non negoziali). Si pone, così, il problema di distinguere il mandato da altri contratti, con cui una parte si obblighi a compiere attività materiali o intellettuali per conto dell’altra, e sembra che il discrimine vada ricercato nella circostanza che l’attività in parola venga in rilievo come atto giuridico (cosicché si avrà mandato) ovvero come fatto in senso stretto (è il caso, ad esempio, dei contratti d’opera o di intermediazione); fermo restando che, ove sia ravvisabile una subordinazione del gerente al gerito, tale elemento sarà sufficiente a fondare la qualificazione del contratto ai sensi dell’art. 2094 c.c.
Dalla circostanza che oggetto del mandato sia il compimento di un’attività giuridica, risulta confermata la necessità che il mandatario, a differenza del mero rappresentante (art. 1389, co. 1, c.c.) abbia la capacità di agire, a prescindere che si tratti di mandato con o senza rappresentanza. Questo risulta anche dalla disciplina dell’estinzione del contratto in esame, fra le cui cause si annovera anche la sopravvenuta incapacità delle parti (artt. 1722, n. 4, e 1728 c.c.).
È appena il caso di sottolineare, inoltre, come il mandato non possa avere ad oggetto il compimento di atti giuridici che debbano essere personalmente compiuti dal mandante. Sono pertanto esclusi gli atti personalissimi, con riferimento ai quali non è neppure ammessa la procura, i quali possono tutt’al più tollerare una sostituzione meramente materiale per mezzo di un nuncius (si pensi al caso emblematico del matrimonio per procura: art. 111 c.c.), ovvero una discrezionalità assai limitata del sostituto (in tal senso è la disciplina del mandato a donare: art. 778 c.c.).
La definizione dell’art. 1703 c.c., infine, pone in luce il dato dell’agire per conto altrui, ossia – secondo la consueta interpretazione di tale locuzione normativa – dell’agire nell’interesse del mandante (come esplicitamente si esprime l’art. 1388 c.c.). Anche con riferimento a tale aspetto, l’obbligazione del mandatario non muta di contenuto a seconda che il mandato sia con rappresentanza o senza, dovendo costui agire in ogni caso al fine di realizzare l’interesse dell’altra parte. Non è escluso, peraltro, che nell’assetto degli interessi dei contraenti possa ricorrere anche un interesse proprio del mandatario e/o di terzi soggetti, ed anzi tale ipotesi è espressamente contemplata dalla legge con conseguenze in ordine alla disciplina dell’estinzione del contratto (art. 1723, co. 2, c.c.).
Il mandato, come già accennato, può essere con o senza rappresentanza: entrambe le ipotesi sono prese in considerazione nelle disposizioni generali sul contratto in esame, rispettivamente dagli artt. 1704 e 1705 c.c.
Ove al mandatario sia stato conferito il potere di agire non solo per conto, ma anche in nome del mandante, «si applicano» – a mente della prima delle due disposizioni da ultimo citate – anche le norme di cui agli artt. 1387 ss. c.c., in tema di rappresentanza.
Si è di fronte, in tal caso, ad un esempio di collegamento negoziale funzionale tra procura e mandato, senza pregiudizio della diversità strutturale ed effettuale dei due negozi. Detto collegamento sarà normalmente unilaterale, nel senso che, mentre le vicende del contratto – e segnatamente la sua estinzione – spiegheranno i loro effetti anche sulla procura, la revoca anche parziale di quest’ultima o la sua invalidità non importerà, di regola, estinzione del mandato.
Sul piano degli effetti, mandato e procura debbono tenersi ben distinti: non potrà dirsi, ad esempio, che quest’ultima, ove conferita in collegamento con il mandato, sia eccezionalmente fonte di obblighi per il mandatario, le cui obbligazioni hanno pur sempre fonte nel contratto e non già nella procura.
Laddove, al contrario, al mandatario non sia stato attribuito il potere di agire in nome del mandante – e non possa operare, pertanto, il caratteristico meccanismo di imputazione diretta a quest’ultimo dell’attività compiuta dal mandatario –, trova applicazione la disposizione dell’art. 1705 c.c. Il mandatario, pertanto, agendo necessariamente in proprio, «acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi» (così la prima parte del comma 1 dell’articolo): si parla in proposito di rappresentanza indiretta, ad indicare l’agire nell’interesse altrui senza spendere il nome del gerito.
La legge, mediante l’inciso finale del comma 1 della disposizione in esame, si preoccupa altresì di chiarire che, in caso di mandato senza rappresentanza, i diritti acquistati e gli obblighi assunti in esecuzione del contratto fanno capo al mandatario, a prescindere dalla conoscenza che i terzi abbiano del contratto stesso («anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato»).
In questo modo, da un lato, si sottolinea che l’imputazione diretta al mandante dell’attività giuridica compiuta dal mandatario non può prescindere dalla specifica attribuzione a quest’ultimo, da parte del primo, del potere di rappresentanza. Dall’altro lato, la norma chiarisce che la semplice conoscenza del mandato da parte dei terzi non può mai tenere luogo della vera e propria spendita del nome del mandante da parte del mandatario, la quale soltanto può rendere operante il detto meccanismo di imputazione diretta. L’inciso in esame, peraltro, non esclude il rilievo, nella figura in esame, della cd. rappresentanza apparente.
Costituisce un corollario della norma di cui all’art. 1705, co. 1, c.c. la regola che apre il co. 2 della disposizione, secondo cui «[i] terzi non hanno alcun rapporto col mandante». «Tuttavia», precisa subito la norma, «il mandante, sostituendosi al mandatario, può esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato, salvo che ciò possa pregiudicare i diritti attribuiti al mandatario dalle disposizioni degli articoli che seguono». Mentre, da un lato, non vi è dubbio che l’inciso finale si riferisca alla previsione dell’art. 1721 c.c. (che attribuisce al mandatario un diritto di prelazione «sui crediti pecuniari sorti dagli affari che ha conclusi»), si discute, dall’altro lato, se la disposizione rappresenti un’applicazione della generale figura di cui all’art. 2900 c.c., e, dunque, racchiuda un’ipotesi di mera sostituzione processuale (art. 81 c.p.c.), ovvero affermi – usando il concetto di sostituzione in modo atecnico e a fini puramente descrittivi – l’acquisto diretto dei crediti in capo al mandante, o quantomeno fondi una legittimazione (non già meramente sostitutiva ed indiretta, ma) diretta e concorrente di costui all’esercizio dei crediti stessi. Questa seconda impostazione pare da preferire in quanto, ferma restando la prelazione del mandatario ex art. 1721 c.c., sembra doversi riconoscere un autonomo significato precettivo alla disposizione in esame rispetto all’art. 2900 c.c.: il mandante, pertanto, esercitando i diritti di credito acquistati dal mandatario, non determina un incremento del patrimonio di quest’ultimo, ma trattiene come cosa propria quanto ricevuto dai terzi debitori, evitando il concorso con i creditori del mandatario.
Questa ricostruzione appare altresì coerente con il disposto dell’art. 1706, co. 1, c.c., a mente del quale «[i]l mandante può rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario che ha agito in nome proprio [si tratta sempre di mandato senza rappresentanza], salvi i diritti acquistati dai terzi per effetto del possesso di buona fede». In tal caso, tuttavia, la legge è assai più esplicita nell’affermare l’acquisto automatico, da parte del mandante, della proprietà dei beni mobili acquistati dal mandatario per suo conto. Al mandante è infatti attribuita l’azione di rivendicazione, la quale non spetta che al proprietario (cfr. art. 948 c.c.): egli è dunque tale, salvi gli acquisti dei terzi a titolo originario, ivi compresi quelli in base alla regola «possesso vale titolo», cui la norma fa espresso riferimento.
Discusso è il meccanismo in forza del quale la proprietà dei beni mobili si acquista al mandante senza la mediazione di un autonomo atto di (ri)trasferimento da parte del mandatario (atto positivamente richiesto, come subito si dirà, per i beni immobili e mobili registrati). Secondo un’impostazione, il mandato avrebbe in tal caso efficacia (anche) traslativa, determinando esso stesso l’acquisto dei mobili da parte del mandante, esattamente come se il mandatario avesse speso il nome di lui, senza alcun transito di detti beni nel patrimonio dello stesso mandatario. Secondo una diversa ricostruzione, si avrebbe invece un doppio trasferimento: il primo, negoziale, dal terzo al mandatario; il secondo, legale e automatico, da quest’ultimo al mandante (Cass., S.U., 26.1.1994, n. 728, in Giust. civ., 1994, I, 1528 ss.).
Analoga regola non vale, come accennato, per i beni immobili e mobili registrati, che il mandante non può direttamente rivendicare. Afferma, infatti, l’art. 1706, co. 2, c.c. che il mandatario «è obbligato» a ritrasferire detti beni al mandante, applicandosi, in caso d’inadempimento, «le norme relative all’esecuzione dell’obbligo di contrarre».
Il ritrasferimento dal mandatario al mandante, pertanto, avrebbe natura di atto solutorio, ossia di vero e proprio adempimento, con riferimento al quale si è parlato di «pagamento traslativo», ad indicare, da un lato, l’unilateralità e la non negozialità dell’attribuzione (la quale prescinderebbe dal consenso dell’accipiens, prescritto dall’art. 1376 c.c. per i soli atti negoziali) e, dall’altro lato, la sua efficacia reale. Si ritiene applicabile ad esso, peraltro, la disciplina sulla forma dei contratti, con la conseguenza che detto ritrasferimento dovrà rivestire la forma scritta ex art. 1350 c.c. e, onde sottrarsi ad ogni sospetto di astrattezza materiale e quindi alla sanzione della nullità, dovrà contenere una formale expressio causae, consistente nel riferimento all’obbligo di dare nascente dalla legge. L’atto in parola è soggetto a trascrizione ex art. 2645 c.c., come risulta anche dall’art. 1707, ultima parte, c.c.
Ai nostri fini, mette conto di sottolineare soltanto alcuni aspetti. In primo luogo, l’applicabilità dell’art. 2932 c.c., cui la disposizione in commento fa implicitamente riferimento (ed il richiamo può ritenersi essenziale, poiché, in mancanza, l’art. 2932 c.c. potrebbe ritenersi inapplicabile alla fattispecie, stante la natura non negoziale del ritrasferimento), con la conseguente possibilità per il mandante di ottenere una sentenza che gli trasferisca la proprietà del bene acquistato dal mandatario (Cass., 9.3.1994, n. 2301, in Giust. civ., 1994, I, 1887 ss.). La domanda giudiziale è soggetta a trascrizione ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2652, co. 1, n. 2, c.c., come risulta anche dall’art. 1707, ultima parte, c.c. In secondo luogo, sembra doversi ritenere che l’obbligo di cui all’art. 1706, co. 2, c.c. non abbia fonte nel mandato, bensì nella legge, dovendosi altrimenti riconoscere – ciò che, però, appare illogico – che l’estinzione del contratto nelle more del ritrasferimento comporti la stabilità dell’acquisto in capo al mandatario. Deve ricordarsi, infine, che trova applicazione alla fattispecie la regola dell’art. 1259 c.c., per cui l’impossibilità, anche parziale, del ritrasferimento (si pensi al caso di interitus rei) determina il subentro del mandante nei diritti spettanti al mandatario in dipendenza del fatto che ha causato detta impossibilità, potendo il primo esigere dal secondo la prestazione di quanto eventualmente conseguito a titolo risarcitorio. La diversa disciplina prevista per i comuni beni mobili da un lato, e per gli immobili e i mobili registrati dall’altro, si giustifica con riferimento al maggior valore economico che normalmente contraddistingue questi ultimi rispetto ai primi: la stessa ragione, su un piano più generale, è posta a fondamento della disciplina della forma scritta dei contratti (art. 1350 c.c.) e della trascrizione (artt. 2643 e 2684 c.c.).
Sempre con riferimento al mandato senza rappresentanza, l’art. 1707 c.c. dispone che «[i] creditori del mandatario non possono far valere le loro ragioni sui beni che, in esecuzione del mandato, il mandatario ha acquistati in nome proprio». Si determina pertanto, in forza di legge, una limitata separazione patrimoniale all’interno dell’universum ius del mandatario con riferimento ai beni e ai crediti acquistati in dipendenza dell’esecuzione del contratto.
La limitatezza di tale separazione discende dalla seconda parte della norma, in base alla quale essa opera «purché, trattandosi di beni mobili o di crediti, il mandato risulti da scrittura avente data certa anteriore al pignoramento, ovvero, trattandosi di beni immobili e di beni mobili iscritti in pubblici registri, sia anteriore al pignoramento la trascrizione dell’atto di ritrasferimento o della domanda giudiziale diretta a conseguirlo».
Per quanto riguarda i beni mobili, la norma – che ricalca la regola generale dell’art. 2915, co. 1, c.c., non rilevando in alcun modo la trasmissione del possesso, determinante, invece, ex art. 2914, n. 4, c.c. – potrebbe apparire in contrasto con l’art. 1706, co. 1, c.c., il quale – come si è visto – sembra attribuire la proprietà di tali beni al mandante, legittimandolo all’azione di rivendicazione. Può, peraltro, affermarsi che altro è la titolarità dei beni da parte del mandante (sicuramente desumibile dalla norma da ultimo citata), altro la sua opponibilità ai creditori del mandatario, regolata dall’art. 1707 c.c. – per fini di certezza giuridica – secondo il criterio della data certa del mandato. Con specifico riferimento ai crediti, inoltre, dovrà ritenersi in ogni caso prevalente la regola dell’art. 1705, co. 2, c.c., con la conseguenza che essi saranno pur sempre azionabili dal mandante in via «sostitutiva», ancorché il contratto non risulti da scrittura avente data certa anteriore al pignoramento. Quanto, invece, agli immobili e ai mobili registrati, il conflitto fra il mandante e i creditori del mandatario è risolto in base alla data della trascrizione, secondo la regola dell’art. 2924, n. 1, c.c.
Già si è detto della fondamentale obbligazione del mandatario, caratteristica del contratto e delineata dall’art. 1703 c.c. Di essa contribuisce a determinare la portata l’art. 1708, co. 1, c.c., anch’esso dettato fra le disposizioni generali sul mandato, a mente del quale «[i]l mandato comprende non solo gli atti per i quali è stato conferito, ma anche quelli che sono necessari al loro compimento». Se ne desume che nell’oggetto del contratto debbono ritenersi inclusi, in via interpretativa, tutti gli atti (se del caso, anche non negoziali) prodromici e/o funzionali al compimento di quelli in esso esplicitamente previsti, beninteso in quanto necessari. Peraltro, non può ritenersi che il mandatario non sia ugualmente tenuto al compimento di quegli atti che, benché non strettamente necessari, siano comunque utili all’esecuzione: essi, infatti, debbono intendersi già ricompresi nel generale obbligo di diligenza di cui all’art. 1710 c.c., così spiegandosi il riferimento dell’art. 1708, co. 1, c.c. ai soli atti necessari. Gli artt. 1703, 1708, co. 1, e 1710, co. 1, c.c. debbono pertanto leggersi in modo coordinato, al fine di individuare l’oggetto concreto del mandato: la prima norma fa riferimento al contenuto espresso del contratto, individuandone il tipo, mentre le altre due operano alla stregua di norme interpretative. Sempre con riferimento all’oggetto del contratto, l’art. 1708, co. 2, c.c. dà rilievo positivo alla figura del mandato generale, ossia il mandato avente ad oggetto il compimento di ogni atto giuridico per conto del mandante. Di tale contratto la norma disciplina il contenuto, stabilendo che esso «non comprende gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione, se non sono indicati espressamente», con la conseguenza che un mandato generale potrà essere genericamente convenuto solo per l’ordinaria amministrazione del patrimonio del mandante, mentre gli atti straordinari dovranno essere oggetto di specifico incarico. La regola, evidentemente, è posta a tutela del gerito, cui essa impone di indicare espressamente, in modo da ponderarne l’opportunità, gli atti di straordinaria amministrazione che il mandatario dovrà compiere per suo conto.
La diligenza richiesta al mandatario dall’art. 1710, co. 1, c.c. è quella del buon padre di famiglia, di cui all’art. 1176, co. 1, c.c. (Cass., 15.1.2000, n. 426, in Contratti, 2000, 911 ss.). La norma, peraltro, precisa – secondo una regola identica a quella dettata, in tema di deposito, dall’art. 1768, co. 2, c.c. – che «se il mandato è gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore». È appena il caso di sottolineare che tale regola riguarda esclusivamente la valutazione della responsabilità per colpa (in ordine all’an e non al quantum debeatur: Cass., 3.4.1980, n. 2200, in Rep. Foro it., 1980, Mandato, n. 12), senza incidere sulla misura della diligenza dovuta dal mandatario, che è pur sempre quella media e non varia a seconda dell’onerosità o gratuità del mandato. L’art. 1710, co. 2, c.c., poi, specifica il suddetto dovere di diligenza con riferimento alle «circostanze sopravvenute che possono determinare la revoca o la modificazione del mandato», circostanze che «[i]l mandatario è tenuto a rendere note al mandante» in ragione della loro importanza con riferimento allo svolgimento del rapporto. Tale norma deve leggersi in combinato con quella di cui all’art. 1711, co. 2, c.c., di cui appresso si dirà. Sempre sul piano generale, l’art. 1711, co. 1, c.c. stabilisce che «[i]l mandatario non può eccedere i limiti fissati nel mandato. L’atto che esorbita … resta a carico del mandatario, se il mandante non lo ratifica». Per «limiti fissati nel mandato» debbono intendersi tanto l’oggetto del contratto come determinato in base agli artt. 1703, 1708, co. 1, e 1710, co. 1, c.c., quanto le istruzioni del mandante in ordine alle modalità di esecuzione del contratto stesso.
La norma si riferisce tanto al mandato con rappresentanza, quanto al mandato non rappresentativo, e disciplina la responsabilità del mandatario. In questo senso deve intendersi la dizione che l’atto esorbitante «resta a carico» di costui, il quale ne risponderà come obbligato in proprio nel caso di mandato senza rappresentanza (salvo «ratifica» del mandante, sostanzialmente consistente in una manleva a forma libera, e non già in una ratifica ex art. 1399 c.c.; Cass., 13.1.1990, n. 92, in Giust. civ., 1990, I, 1252 ss.), ovvero nei limiti dell’art. 1398 c.c., in caso di mandato con rappresentanza: in quest’ultimo caso, infatti, il mandatario non potrà rispondere in proprio dell’atto, in quanto, avendo speso il nome del mandante, i terzi hanno inteso contrarre con quest’ultimo e non già con il gerente. Deve segnalarsi che la «ratifica» discende direttamente dalla legge quante volte il mandante, ricevuta la comunicazione dell’esecuzione del mandato ex art. 1712, co. 1, c.c., tardi a rispondere al mandatario (così il comma 2 della stessa disposizione, laddove si parla non già di ratifica, ma, più propriamente, di «approvazione»; Cass., 29.5.1980, n. 3534, in Giur. it., 1981, I, 1, 100 ss.; Cass., 18.12.1990, n. 11975, in Arch. civ., 1991, 415 ss.).
Dispone, poi, l’art. 1711, co. 2, c.c., che «[i]l mandatario può discostarsi dalle istruzioni ricevute qualora circostanze ignote al mandante, e tali che non possono essergli comunicate in tempo, facciano ragionevolmente ritenere che lo stesso mandante avrebbe dato la sua approvazione». Tale norma rappresenta una eccezione al divieto dei cui al comma 1 della disposizione, riconoscendo al mandatario una limitata autonomia in presenza di circostanze sia sopravvenute (che, a norma dell’art. 1710, co. 2, c.c., egli sarebbe tenuto a comunicare al mandante) sia coeve o anteriori alla conclusione del contratto, ma ignote al mandante. Lo ius variandi del mandatario è ancorato ad un giudizio prognostico da condursi ad una stregua rigorosamente oggettiva, secondo un criterio di ragionevolezza.
Per il resto, la disciplina delle obbligazioni del mandatario è assai analitica, articolandosi in una serie di disposizioni (artt. 1712-1718 c.c.), alcune delle quali relative alle modalità esecutive del mandato anche in caso di contratto plurisoggettivo dal lato del mandatario (artt. 1716-1718 c.c.), altre disciplinanti la fase successiva all’esecuzione (artt. 1712-1715 c.c.).
Quanto al primo gruppo, merita segnalare le due disposizioni in tema di pluralità di mandatari (art. 1716 c.c.) e di sostituto del mandatario (art. 1717 c.c.).
In base alla prima, «[s]alvo patto contrario, il mandato conferito a più persone designate a operare congiuntamente non ha effetto, se non è accettato da tutte» (art. 1716, co. 1, c.c.): l’accettazione, quindi, può qualificarsi come dichiarazione collettiva unitaria, a meno che la proposta non preveda l’efficacia progressiva di ogni singola dichiarazione personale. Inoltre, il mandato conferito a più mandatari può essere sia congiuntivo (nel qual caso troverà applicazione, quanto all’estinzione, l’art. 1730 c.c.) sia disgiuntivo: è, peraltro, proprio quest’ultima la configurazione del contratto in mancanza di una espressa previsione contrattuale di segno opposto, con la conseguenza che ciascun mandatario potrà concludere l’affare in autonomia. In tal caso, il mandante, non appena avvertito della conclusione ex art. 1712 c.c., dovrà darne a sua volta notizia agli altri mandatari, nei cui confronti risponderebbe sia per l’omissione della comunicazione sia per il ritardo (co. 2).
In base alla seconda disposizione, il mandatario che si avvalga di un sostituto senza che ve ne sia la necessità (da valutarsi in base alla «natura dell’incarico») o che consti l’autorizzazione del mandante, risponde dell’operato del sostituto medesimo secondo la regola generale dell’art. 1228 c.c. (art. 1717, co. 1, c.c.; Cass., 25.2.1999, n. 1642, in Giust. civ., 1999, I, 2028 ss.). In presenza di autorizzazione, invece, il mandatario risponde soltanto per culpa in eligendo (co. 2; Cass., 17.9.1993, n. 9584, in Giust. civ., 1994, I, 76 ss.). In ogni caso, peraltro, il mandatario risponde delle istruzioni impartite al sostituto nei confronti del mandante (co. 3), il quale ha altresì azione diretta verso lo stesso sostituto (co. 4; Cass., 16.7.1999, n. 7515, in Giur. it., 2000, I, 1, 255 ss.). La disposizione in esame può ritenersi applicabile tanto al vero e proprio submandato, quanto, per analogia – e quindi ad eccezione dell’azione diretta (figura di carattere sicuramente eccezionale) –, al caso in cui il mandatario si avvalga di ausiliari ai fini del compimento di attività materiali funzionali all’esecuzione del contratto.
Quanto al secondo gruppo di disposizioni, relative alla fase successiva all’esecuzione del mandato, si è già fatto cenno all’obbligo del mandatario di comunicare al mandante «senza ritardo» l’avvenuta esecuzione del contratto (art. 1712 c.c.). Può ricordarsi, altresì, l’obbligo del mandatario di rendere il conto del proprio operato (senza necessariamente osservare l’art. 263 c.p.c.; Cass., 26.10.1995, n. 11139, in Rep. Foro it., 1995, Mandato, n. 20), rimettendo al mandante quanto ricevuto a causa del mandato; obbligo che, per quanto preventivamente dispensato, permane in capo al mandatario ove questi versi in colpa grave o abbia agito con dolo (art. 1713 c.c.; Cass., 30.8.1994, n. 7592, in Giust. civ., 1994, I, 1469 ss.), in conformità della regola generale di cui all’art. 1229, comma 1, c.c. Al mandato senza rappresentanza è dedicato, infine, l’art. 1715 c.c., a mente del quale, salvo patto contrario, «il mandatario … non risponde … dell’adempimento delle obbligazioni assunte dalle persone con le quali ha contrattato» (cd. star del credere), a meno che «l’insolvenza di queste gli fosse o dovesse essergli nota all’atto della conclusione del contratto», nel qual caso la responsabilità del gerente si atteggia a vera e propria sanzione (sub specie di garanzia) per la sua negligenza.
Ultima delle disposizioni generali sul mandato, l’art. 1709 c.c. pone una presunzione iuris tantum di onerosità del contratto, superabile anche in via interpretativa (ad esempio, in base al comportamento delle parti successivo alla sua conclusione: art. 1362, co. 2, c.c.). La mancata fissazione della misura del compenso, anche in assenza di criteri convenzionali per la sua determinazione, non comporta l’invalidità del contratto, soccorrendo la previsione del citato art. 1709, secondo cui dovrà farsi riferimento «alle tariffe professionali o agli usi»; in mancanza di questi, il corrispettivo sarà determinato giudizialmente.
La doverosità del compenso, in caso di mandato oneroso, è ribadita dall’art. 1720 c.c., il quale sancisce espressamente – onde conferirle natura contrattuale, al di là di ogni dubbio – la responsabilità del mandante per i danni subiti dal mandatario (senza sua colpa) a causa dell’incarico. La medesima disposizione stabilisce, inoltre, che il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni da questi effettuate per l’esecuzione del contratto, con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte (Cass., S.U., 14.12.1994, n. 10680, in Foro it., 1995, I, 1486 ss.). Quest’ultima norma, peraltro, troverà applicazione solo nel caso in cui le parti abbiano inteso derogare – come è pure possibile – alla disciplina dell’art. 1719 c.c., in base alla quale «[i]l mandante … è tenuto a somministrare al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni che a tal fine il mandatario ha contratte in proprio nome». Sulle cose che formano tale provvista, ai sensi dell’art. 2761, co. 2, c.c., hanno privilegio i crediti derivanti dall’esecuzione del mandato.
L’art. 1722 c.c. fornisce un’elencazione analitica della cause di estinzione tipiche del mandato, le quali possono essere suddivise in due categorie, a seconda che consistano in fatti sopravvenuti alla conclusione del contratto o che dipendano dalla volontà delle parti. Ad esse deve aggiungersi il fallimento del mandatario, mentre il curatore del fallimento del mandante può subentrare nel contratto a norma dell’art. 72 r.d. 16.3.1942, n. 267 (così dispone l’art. 78, co. 2 e 3, di tale provvedimento). Nella prima categoria rientrano le cause di cui ai nn. 1 e 4 della citata disposizione, ossia la scadenza del termine, il compimento dell’affare e la morte o l’incapacità legale di una delle parti. Alla seconda categoria debbono ricondursi, invece, le cause di cui ai nn. 2 e 3 della disposizione, consistenti nella revoca dell’incarico e nella rinunzia al medesimo. Sono oggetto di specifica disciplina le cause sub nn. 2, 3 e 4 dell’art. 1722 c.c., mentre quelle sub 1 sono soltanto menzionate dalla legge. In ordine a quest’ultime, ci si può limitare a ricordare, quanto al compimento dell’affare, che esso rende attuale l’obbligo di comunicazione posto dall’art. 1712 c.c. Quanto, invece, alla scadenza del termine, è appena il caso di osservare che la norma fa riferimento al termine di efficacia e non già a quello di esecuzione, la cui scadenza determina un mero inadempimento.
Quanto alla morte e all’incapacità delle parti (cui può equipararsi la sottoposizione ad amministrazione di sostegno, ove il decreto ex art. 405 c.c. indichi il mandato fra gli atti che il beneficiario può compiere solo con la rappresentanza dell’amministratore, ovvero con la sua assistenza), deve segnalarsi, anzitutto, che tali eventi – sia che si riferiscano al mandante, sia che riguardino il mandatario – non costituiscono causa di estinzione del mandato ove questo abbia ad oggetto il compimento di atti relativi all’esercizio di un’impresa del defunto o dell’incapace, e tale esercizio sia continuato dopo la morte o la sopravvenuta incapacità; all’altra parte ed agli eredi – ma, si badi, non anche al legale rappresentante o all’assistente dell’incapace autorizzato alla continuazione dell’impresa – spetta, tuttavia, il diritto di recesso (art. 1722, n. 4, c.c.).
Altre due eccezioni all’efficacia estintiva di detti eventi, ove riferiti alla persona del mandante, si rinvengono negli artt. 1723, co. 2 e nell’art. 1728, co. 1, c.c. La prima disposizione riguarda il «mandato conferito anche nell’interesse del mandatario [cd. mandato in rem propriam] o di terzi», il quale, oltre ad essere di norma irrevocabile, non si estingue per la morte o la sopravvenuta incapacità del mandante. La seconda disposizione citata stabilisce, invece, che pur in presenza di detti eventi, se l’esecuzione del contratto sia già stata intrapresa e vi sia pericolo nel ritardo, il mandatario è obbligato a continuarla (Cass., 30.8.1994, n. 7592, cit.). Il «pericolo nel ritardo» sembra non dover essere inteso nel significato letterale dell’espressione (ossia con riferimento all’interesse del mandante, ormai non più attuale), bensì con riguardo alla persona del mandatario o del terzo, i quali – essendosi già impegnati giuridicamente o economicamente in attività strumentali al compimento dell’affare – potrebbero essere danneggiati dalla repentina interruzione dell’esecuzione o, comunque, dal suo abbandono. Inoltre, con implicito riferimento al caso di morte o incapacità del mandante (ma la regola, come si dirà, sembra applicabile anche al caso di rinunzia), l’art. 1729 c.c. stabilisce che «[g]li atti che il mandatario ha compiuti prima di conoscere l’estinzione del mandato sono validi nei confronti del mandante o dei suoi eredi». Si sancisce, così, non già un’eccezionale ultrattività del contratto, ormai definitivamente estinto, ma soltanto la stabilità dei relativi atti esecutivi, a tutela della buona fede del mandatario.
L’estinzione del mandato per morte o incapacità del mandatario, invece, obbliga gli eredi ovvero il legale rappresentante o assistente del medesimo, i quali siano a conoscenza del mandato, ad «avvertire prontamente il mandante e prendere intanto nell’interesse di questo i provvedimenti richiesti dalle circostanze» (art. 1728, co. 2, c.c.; Cass., 4.9.1998, n. 8801, in Rep. Foro it., 1998, Mandato, n. 19). Benché, estinto il contratto, gli eredi, il tutore o il curatore del mandatario non siano affatto obbligati a continuarne l’esecuzione, non è escluso che detti provvedimenti possano essere volti a portare a termine l’affare, o che, ove ciò sia richiesto dalle circostanze, addirittura debbano essere in tal senso. Di norma, peraltro, si tratterà di misure aventi natura conservativa, volte a preservare il risultato dell’attività già svolta dal mandatario al tempo dell’estinzione, risultato di cui il mandante potrà comunque giovarsi, anche incaricando un nuovo mandatario di portarlo a termine. Infine, deve segnalarsi che la causa di estinzione in esame è generalmente ritenuta derogabile dalla volontà delle parti: così si fonda l’ammissibilità del c.d. mandato post mortem nei limitati casi in cui esso non integri un patto successorio, nullo ex art. 458 c.c. (Cass., 29.4.2006, n. 10035, in Giur. it., 2007, I, 1, 334 ss.).
Alla revoca, che è atto unilaterale del mandante, negoziale e recettizio, avente natura di recesso, sono dedicati gli artt. 1723-1726 c.c.: il primo dispone, in generale, in ordine alla revocabilità del mandato, mentre gli altri si occupano delle modalità e degli effetti della revoca. L’art. 1723, co. 1, c.c. sancisce la generale revocabilità del mandato da parte del mandante, ricorra o meno una giusta causa, anche per il caso in cui fosse stata pattuita l’irrevocabilità: tale previsione, infatti, non comporta altro che la responsabilità del mandante verso il mandatario per i danni causatigli dalla revoca, ove quest’ultima non sia fondata su una giusta causa (Cass., 11.2.1998, n. 1388, in Giur. it., 1999, I, 1, 24 ss.). Il comma 2 della disposizione si occupa, in particolare, del «mandato conferito anche nell’interesse del mandatario [cd. mandato in rem propriam] o di terzi» (Cass., 30.1.2003, n. 1391, in Giust. civ., 2003, I, 2761 ss.). Con riferimento ad esso, la regola della revocabilità incontra una parziale eccezione: tale mandato, infatti, è per legge irrevocabile (con la conseguenza che la eventuale revoca sarà priva di effetto), salvo che le parti ne abbiano previsto la revocabilità, ovvero che ricorra una giusta causa. La revoca del mandato, ove ammessa, non è atto formale, potendo anche desumersi da un comportamento concludente del mandante (Cass., 28.4.1994, n. 4044, in Resp. civ. prev., 1994, 635 ss.), compiuto con la volontà di determinare l’estinzione del contratto. Potrà parlarsi in proposito di revoca tacita, in consonanza con la rubrica dell’art. 1724 c.c., il quale peraltro sembra prevedere non già un’ipotesi di factum concludens, bensì un comportamento legalmente tipizzato, la cui ricorrenza implica di per sé l’estinzione del mandato, a prescindere da ogni indagine circa la volontà del mandante. In tal senso appare, infatti, la lettera della disposizione, secondo cui «[l]a nomina di un nuovo mandatario per lo stesso affare o il compimento di questo da parte del mandante importano revoca del mandato, e producono effetto dal giorno in cui sono stati comunicati al mandatario» (non rilevando la conoscenza che questi ne abbia avuto aliunde). Deve sottolinearsi, peraltro, che è pur sempre dalla volontà di revoca del mandante (la quale, come detto, non assume alcun rilievo con riferimento al comportamento tipizzato) che in ultima analisi dipende l’effetto estintivo, non direttamente discendente dalla condotta del mandante, bensì dalla relativa comunicazione al mandatario.
Gli artt. 1725 e 1726 c.c. si occupano poi, rispettivamente, delle figure del mandato oneroso e del mandato collettivo ex latere mandantis. Quanto al primo, ove «conferito per un tempo determinato o per un determinato affare», la sua revoca «obbliga il mandante a risarcire i danni, se è fatta prima della scadenza del termine o del compimento dell’affare [eventi, quest’ultimi, di per sé estintivi ex art. 1722, n. 1, c.c.], salvo che ricorra una giusta causa» (art. 1725, co. 1, c.c.; Cass., 15.10.1992, n. 11283, in Rep. Foro it., 1992, Mandato, n. 22); in pratica, le conseguenze della revoca sono le stesse del caso in cui sia stata convenuta l’irrevocabilità del mandato ex art. 1723, co. 1, c.c. Qualora, invece, il mandato oneroso fosse a tempo indeterminato, «la revoca obbliga il mandante al risarcimento, qualora non sia dato un congruo preavviso, salvo che ricorra una giusta causa» (co. 2). Quanto, invece, al mandato con pluralità di mandanti, «conferito … con unico atto [in senso sostanziale e non meramente documentale] e per un affare d’interesse comune», dispone l’art. 1726 c.c. che «la revoca non ha effetto qualora non sia fatta da tutti i mandanti, salvo che ricorra una giusta causa» (Cass., 26.11.2002, n. 16678, in Giust. civ., 2003, I, 1019 ss.).
La causa estintiva rappresentata dalla rinunzia del mandatario è atto unilaterale, negoziale, recettizio e non formale, avente natura di recesso, disciplinato dall’art. 1728 c.c. Essa è sempre libera, non conoscendo limiti di ammissibilità (neppure nei casi di irrevocabilità del contratto), ma le sue conseguenze sono diverse a seconda che il mandato sia a termine ovvero a tempo indeterminato.
Nel primo caso, la rinunzia, ove non fondata su una giusta causa, obbliga il mandatario a risarcire i danni al mandante, mentre, nel secondo, la responsabilità del mandatario per i danni diviene attuale nella sola ipotesi in cui, oltre a non sussistere una giusta causa, egli «non abbia dato un congruo preavviso».
Resta fermo che, «[i]n ogni caso la rinunzia deve essere fatta in modo e in tempo tali che il mandante possa provvedere altrimenti, salvo il caso d’inadempimento grave da parte del mandatario» (co. 2) ove potrebbe ritenersi superflua.
Anche per la rinunzia sembra applicabile, come accennato, la regola dell’art. 1729 c.c., qualora il mandatario non sappia se essa sia pervenuta al mandante.
Da ultimo, l’art. 1730 c.c., cui si è già accennato, disciplina l’estinzione del mandato conferito a più mandatari designati ad operare congiuntamente – designazione che deve essere «dichiarata» nel contratto secondo la previsione dell’art. 1716, co. 2, c.c. In tal caso, il mandato, «[s]alvo patto contrario, … si estingue anche se la causa di estinzione concerne uno solo dei mandatari»: se ne trae, a contrario, che, nell’ipotesi (normale) di mandato disgiuntivo, la causa estintiva riguardante uno solo dei mandatari è idonea a sciogliere il vincolo solo nei confronti di questo.
Artt. 458, 778, 1259, 1398-1399, 1703-1730, 2645, 2652, 2671, 2932 c.c.; art. 78 r.d. 16.3.1942, n. 267.
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