Mandragola
Con la Mandragola siamo dinanzi alla più bella commedia italiana di tutti i tempi. Della sua eccezionalità si rese già conto Voltaire nell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (1756): «la sola Mandragola di Machiavelli vale forse più di tutte le commedie d’Aristofane». Che l’autore sia anche il fondatore del pensiero politico moderno è una circostanza spiegabile con il suo genio. La commedia nasce dalla stessa intelligenza degli uomini e delle cose che è nelle opere politiche e storiche, ma rivela insieme la capacità di cogliere quanto di divertente e paradossale c’è nella vita quotidiana e un temperamento beffardo disposto a dissacrare qualsiasi valore. Il miracolo non sarebbe tuttavia riuscito se non si fossero incontrate in M. le due anime della grande cultura quattrocentesca fiorentina: quella umanistica di Marsilio Ficino e Poliziano – rinverdita nelle riunioni degli Orti Oricellari (→, dove peraltro il teatro costituiva un interesse primario) – e quella volgare che da Giovanni Boccaccio si allungava fino a lui.
Nell’assenza di qualsiasi informazione circa i tempi e i modi della composizione della Mandragola, i termini oggettivi entro cui collocarne la stesura sono compresi tra il 1504, anno di ambientazione della vicenda, e il 1519, data apposta sul Laurenziano Redi 129 della Biblioteca medicea laurenziana di Firenze, unico manoscritto che oggi la trasmette; tenuto conto del computo fiorentino degli anni ab incarnatione, l’anno 1519 potrebbe coprire anche l’arco di tempo che va dal 1° gennaio al 24 marzo del 1520. Trascurando altre ipotesi di datazione esterne a questo periodo, prive di qualsiasi fondamento, punto di partenza obbligato per la considerazione della cronologia di composizione è l’opinione di Roberto Ridolfi, che nella seconda edizione rivista della Vita di Niccolò Machiavelli (ottobre 1954) assegnava la commedia al gennaio-febbraio del 1518. Ridolfi fondava la sua valutazione sulla battuta III 32 della vedova al frate («Credete voi che ’l Turco passi questo anno in Italia?»), battuta che, a giudizio dello studioso, non avrebbe potuto essere d’attualità in nessun altro anno che non fosse il 1518, quando il pericolo di un’invasione turca in Italia sarebbe stato concretamente presente. Stante poi l’ambientazione invernale della commedia, la consuetudine di organizzare gli spettacoli nel corso del carnevale e i supposti festeggiamenti fiorentini di quell’anno per la promessa di matrimonio stipulata fra Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino e la principessa francese Madeleine de la Tour d’Auvergne, Ridolfi indicava addirittura un giorno preciso per la prima rappresentazione, il 16 febbraio del 1518, in quell’anno ultimo di carnevale. Sulla scia di Ridolfi si sarebbe messo Alessandro Parronchi, spostando la prima messa in scena della Mandragola al settembre del 1518, nel corso dei festeggiamenti fiorentini per le nozze di Lorenzo con la principessa francese, festeggiamenti che effettivamente videro la rappresentazione a Firenze di una commedia, come apprendiamo da una lettera di Alfonsina Orsini, madre di Lorenzo, e da una testimonianza di Bartolomeo Cerretani, che dicono la prima di una commedia dallo strano titolo Falargo, messa in scena l’8 settembre, il secondo di una rappresentazione del 9 successivo (ma potrebbe trattarsi dello stesso evento registrato da uno dei due con un leggero errore di data). Febbraio o settembre 1518, secondo queste ipotesi la Mandragola sarebbe stata comunque scritta e rappresentata per una festa medicea, circostanza che Ridolfi avvalorava con considerazioni sul frontespizio dell’edizione oggi ritenuta la princeps del testo, sulla quale più avanti si ritornerà.
Senonché non abbiamo notizia di festeggiamenti per promesse matrimoniali durante il carnevale del 1518, né risulta che la commedia rappresentata in settembre fosse la Mandragola. Ma soprattutto non ha fondamento che nel 1518 si avvertisse in modo particolare l’imminenza del pericolo turco più di quanto non sarebbe stato per almeno quattro decenni dopo la presa d’Otranto (1480). Per es., in due lettere consecutive del 1513 Francesco Vettori richiama a M. la possibilità di un’invasione turca. A lungo andare il pericolo turco era addirittura divenuto un argomento «da pancaccie», ossia ragionamenti da perdigiorno, come proprio M. scriverà in una lettera a Francesco Guicciardini del maggio 1521. Ragionevolmente dunque Giorgio Inglese, stando alla data segnata sul Rediano (Inglese 1992, pp. 1010-11 e Inglese 2006, pp. 157-59), avrebbe suggerito uno slittamento della composizione tra la fine del 1519 e i primi mesi del 1520. Malgrado ciò, si continua a ripetere che la commedia fu scritta nel 1518 e rappresentata in quello stesso anno a Firenze, circostanze entrambe prive di qualsiasi riscontro.
Nella discussione sulla datazione della Mandragola è stata comunque prevalente l’opinione che composizione, pubblicazione e prima rappresentazione dovessero essere concentrate nel giro di qualche mese. Ma dopo le acquisizioni filologiche degli ultimi decenni sappiamo che M. non lavorava così. Neppure del testo del Principe crediamo più che sia una scrittura di getto, i Discorsi hanno una cronologia dilatata, il volgarizzamento dell’Andria passa attraverso due se non tre redazioni. A leggere con attenzione un testo così curato come quello della Mandragola, attento alla verità dei dettagli più minuti, è difficile immaginare che non sia frutto di un processo compositivo fatto di scritture e riscritture, tagli e aggiunte, forse anche di interruzioni e riprese a distanza. Intanto i dati. Esiste, come già detto, un manoscritto datato 1519 (data estensibile fino a marzo 1520). Il 26 aprile 1520 Giovanni Battista Della Palla scrive da Roma a M. informandolo di aver parlato al cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena della commedia. Se, dunque, gli anni 1519-20 restano oggettivamente terminus ad quem, abbiamo tuttavia elementi sufficienti, di tipo sia testuale sia critico, per abbassare il limite post quem del 1504; comunque non fino al 1517, come sarebbe necessario se il volgarizzamento dell’Andria fosse stato realizzato da M. a quest’altezza cronologica e non fosse invece, come oggi si è propensi a credere, un impegno giovanile. Il nostro autore infatti impara l’arte della commedia volgarizzando l’Andria, lavoro imprescindibile per la Mandragola, che peraltro trasferisce al suo interno non poche battute del testo di Terenzio da lui volgarizzato.
Sul piano critico è da dire che la Mandragola che noi conosciamo neppure può esistere senza i precedenti delle commedie di Ludovico Ariosto (Cassaria 1508, Suppositi 1509) e soprattutto della Calandra del Bibbiena (febbraio 1513). La commedia nuova rinascimentale nasce nelle corti di Ferrara, Mantova e Urbino. Per la perdurante vitalità delle forme teatrali quattrocentesche, Firenze ai primi del Cinquecento non era in questo ambito una città d’avanguardia e, a parte ogni altra considerazione, non si può dar credito a M. di aver colmato da solo l’intera distanza che separava il teatro fiorentino delle sacre rappresentazioni e delle commedie in versi dalla commedia regolare in prosa costruita sui modelli latini. Ma c’è anche un riscontro oggettivo: la scena seconda del quarto atto della Mandragola ha stretta affinità con l’ottava del secondo atto della Calandra, ed essendo inconcepibile sia una coincidenza poligenetica sia una ripresa della Calandra dalla Mandragola, non resta che riconoscere per questa scena una dipendenza di M. dal Bibbiena. Il termine del 1513 rende anche attuale la battuta sull’interruzione degli atti (Mandragola IV ii 158), che di fatto allude scherzosamente a un’altra battuta di I due felici rivali di Iacopo Nardi, commedia rappresentata a Firenze appunto nel febbraio del 1513, dunque contemporaneamente alla messa in scena della Calandra a Urbino. Se l’idea di scrivere una commedia sia stata concepita da M. solo dopo questa data o se esistesse già prima di allora una qualche stesura del testo, in base ai dati disponibili non si può affermare né negare. Quello che si può dire con certezza è che alcune parti della commedia che noi conosciamo sono state scritte dopo il febbraio del 1513.
Il 1513 è un anno cruciale nella biografia machiavelliana. Il nostro autore è confinato a Sant’Andrea in Percussina dopo la caduta della Repubblica, il ritorno dei Medici in Firenze e la sua estromissione dalla cancelleria; per di più M. era stato accusato ingiustamente di aver cospirato contro i Medici nella congiura ordita nel febbraio di quell’anno da Agostino Capponi e Pietro Paolo Boscoli, subendo per questo l’umiliazione del carcere e della tortura, a cui solo il provvedimento di clemenza concesso dalla Signoria per l’elezione a papa il 9 marzo di Leone X (il fiorentino Giovanni de’ Medici) lo sottrasse. Ritornato privato cittadino, senza riconoscimenti né emolumenti, con una famiglia da mantenere, M. ha come unico suo punto di contatto con l’ormai trionfante potere mediceo l’amicizia di Vettori, allora ambasciatore fiorentino a Roma. Nell’epistolario machiavelliano il carteggio degli anni 1513 e 1514 con Vettori costituisce la sezione di maggiore interesse culturale e umano. I due discutono i fatti recenti della politica italiana ed europea, fanno previsioni sugli accadimenti futuri, ma anche raccontano l’uno all’altro del modo di passare le giornate, delle letture, degli svaghi amorosi. Ebbene, queste lettere interessano la Mandragola per le numerose coincidenze testuali che stabiliscono con il suo testo. Il primo a notarlo è stato Ezio Raimondi (1972):
A un esame sinottico tutt’altro che rigoroso ma egualmente indicativo, risulta che mentre per la prosa dell’Andria le lettere machiavelliane del ciclo Vettori non danno quasi nulla [...], di fronte alla Mandragola la reattività dei testi epistolari è assai più alta e anche più ampia, sostanziosa (pp. 182-83).
Se tuttavia ritornassero nella Mandragola solo passaggi delle lettere di M. non ci sarebbe nulla di particolarmente significativo. Ma quando esiste riscontro fra passaggi di lettere di Vettori del 1514 e la Mandragola, allora è difficile non pensare a una contiguità cronologica. Tra i numerosi passi paralleli (Stoppelli 2005, pp. 82-87) si citerà qui solo il più rilevante. In una lettera del 18 gennaio 1514 Vettori racconta da Roma di essersi innamorato di una giovane sua vicina di casa, argomento su cui ritorna in un’altra del 9 febbraio successivo, questa volta dopo averne conosciuto e apprezzato le grazie con il favore della madre ruffiana:
Ma, Nicolò mio, voi non vedesti mai colli ochi la più bella cosa: grande, ben proporzionata, più presto grassa che magra, bianca, con un colore vivo, un viso non so se è affilato o tondo, basta che mi piace; galante, piacevole, motteggievole, sempre ride, poco accurata di sua persona, sanza acque o lisci in sul viso; dell’altre parte non voglio dire nulla, perché non l’ho provate quanto desiderrei (Lettere, p. 312).
Questo passaggio coincide sorprendentemente con la battuta V ii 18 della Mandragola, nella quale Nicia descrive le formosità di Callimaco nudo: «Ma tu non vedesti mai le più belle carne: bianco, morbido, pastoso [...] e de l’altre cose non ne domandare». Non è dunque inverosimile che M. ricevesse quelle lettere proprio mentre stava lavorando alla commedia e che ne adattasse il fraseggio alla composizione in corso. Che in queste lettere non vi sia alcun cenno a una commedia in fieri non è un argomento valido. Nell’epistolario non si fa mai cenno, per es., ai Discorsi, che in quegli stessi anni erano certamente in elaborazione. Siamo comunque nei primi mesi del 1514. Come già detto, a quando risalga la prima idea, su quanto tempo l’autore vi sia stato su, attraverso quante redazioni il testo sia passato, allo stato delle conoscenze è impossibile fare congetture. La prima notizia della commedia è comunque del 1519-20. Ma riconoscere un respiro compositivo lungo alla Mandragola risulta certamente più consono alla sua qualità; avvicinarla al Principe piuttosto che all’Arte della guerra è un recupero significativo sul piano critico. Non bisogna neppure dimenticare che dal 1519-20 in poi la scrittura di M. prende progressivamente sempre di più la forma della riscrittura, dalla Vita di Castruccio Castracani alle Istorie fiorentine, non esclusi Clizia e Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. Questo non inficia la qualità dei risultati, ma rileva una diversa modalità di lavorare. L’originalità di Mandragola, Principe e Discorsi è anche formale, non solo sostanziale.
Infine il prologo. Si presenta sotto la forma di una canzone di otto stanze il cui schema rimico è ricorrente nella poesia minore toscana del Quattrocento. Nelle prime quattro stanze l’autore espone l’argomento (dunque, secondo la classificazione di Elio Donato, prologus argumentativus) ed elogia la commedia (prologus commendativus); nelle seconde quattro difende sé stesso e attacca i suoi detrattori (prologus relativus). Dunque un prologus mixtus, stando ancora a Donato. Ma ai fini della composizione c’è da osservare che l’autore, dopo aver fatto l’inventario dei personaggi nella seconda e terza stanza, li elenca nuovamente nella quarta, aggiungendo Ligurio ed escludendo Lucrezia. Tale ridondanza ha fatto ipotizzare che il prologo che noi conosciamo possa risultare da un assemblaggio di stanze scritte in tempi diversi, cosa che deporrebbe ancora per una composizione lunga della commedia. Ma non bisogna dimenticare che i prologhi venivano in genere composti per una specifica rappresentazione e che costituivano dunque una parte variabile del testo delle commedie. Nel caso nostro è concepito per una rappresentazione fiorentina o comunque destinata a un pubblico fiorentino («quest’è Firenze vostra»). Da un verso del prologo si desume il titolo Mandragola («la favola ‘Mandragola’ si chiama»), che tuttavia solo da un certo momento in poi fu realmente in uso; in tutte le citazioni vivente l’autore la commedia è indicata come il Nicia, mentre nelle prime edizioni a stampa il titolo risulta essere Comedia di Callimaco et di Lucretia.
La vicenda della Mandragola è notissima. A Firenze una coppia di coniugi molto ricchi non riesce ad avere figliuoli pur morendone dal desiderio. La moglie, giovane e bella, si chiama Lucrezia; il marito, sciocco e pretenzioso, Nicia Calfucci. A Parigi vive intanto un fiorentino, Callimaco Guadagni, che venuto lì a conoscenza delle straordinarie bellezze di Lucrezia – come era già avvenuto a Sesto Tarquinio nel sentir decantare i pregi di Lucrezia romana (Livio I lvii-lviii) o al Ludovico della novella VII 7 del Decameron nel sentir lodare l’avvenenza della bolognese madonna Beatrice – se ne innamora per fama e decide di far ritorno a Firenze insieme al servo Siro per conquistarla. Ma la donna è onestissima e l’impresa si rivela pressoché impossibile. Callimaco ricorre a un sensale, Ligurio, che dopo aver considerato altre possibilità rivelatesi poco praticabili inventa il seguente stratagemma. Callimaco fingerà di essere un grande medico a conoscenza di un metodo infallibile per fare ingravidare le donne sterili: dare loro a bere una pozione fatta con succo di mandragola. Ma la mandragola è una pianta velenosa e il primo uomo che si congiungerà con la donna dopo che questa avrà bevuto la pozione morirà. Il marito presta fede alle parole di Callimaco, e naturalmente non è disposto a prendere su di sé il ‘veleno’ letale della mandragola. Il finto medico suggerisce il rimedio: catturare un giovane sfaccendato per strada e costringerlo con la forza a dormire una notte con la donna, in modo da congiungersi con lei e subirne le conseguenze (quel giovane sarà naturalmente lo stesso Callimaco mascherato). Nicia si dice d’accordo, ma dubita che Lucrezia possa accettare una cura per lei così compromettente. A convincerla sarà il suo confessore, fra Timoteo, ricompensato lautamente da Callimaco, con il sostegno della madre di lei, Sostrata. L’inganno va in porto e l’amante, contraffattosi, sarà messo dallo stesso Nicia nel letto della moglie. L’incontro inizialmente si configura come una violenza, ma a metà della notte Callimaco si rivela alla donna dichiarandole il suo amore. Vinta dai fatti, Lucrezia si dà anima e corpo all’amante, non solo per quella notte ma per sempre. Apprenderemo più tardi dalla Clizia, l’altra commedia di M., che effettivamente un bambino era nato e che fra Timoteo era entrato in fama di santità per aver operato con le sue preghiere il miracolo di far ingravidare una donna sterile.
Questa della Mandragola è una storia anomala per una commedia regolare di primo Cinquecento. Una vicenda simile sarebbe stata più facilmente raccontata in una novella. Se tuttavia ne riducessimo in termini essenziali la trama, la potremmo descrivere in maniera compatibile con quella di una commedia di tipo plautino o terenziano: un giovane innamorato (Callimaco) contende a un vecchio (Nicia) una donna giovane e bella (Lucrezia) e, grazie ai maneggi di un servo astuto (Ligurio), riesce a comprarla da chi l’ha in suo potere (fra Timoteo). La riduzione della vicenda in questi termini la renderebbe però irriconoscibile. E tuttavia resta vero che si tratta di una storia nello stesso tempo novellistica e teatrale, ovvero realistica in ogni suo particolare e insieme rispettosa delle convenzioni proprie del teatro comico classico. Ossimoro che risulta già dall’onomastica dei personaggi.
I nomi dei due personaggi minori della Mandragola, Siro e Sostrata, sono un evidente omaggio di M. a Terenzio: Sostrata è il nome della madre di famiglia nell’Heautontimorùmenos, nell’Hecyra e negli Adelphoe; Siro è il nome del servo nell’Heautontimorùmenos e negli Adelphoe. Con Callimaco Guadagni e Nicia Calfucci ci troviamo dinanzi a sequenze onomastiche nella prima parte grecizzanti (i nomi), nella seconda autenticamente fiorentine (i cognomi). Callimaco è, con facile scomposizione greca, il «guerriero dalle belle battaglie», il combattente valoroso e vittorioso, e di fatto il personaggio che lo porta è tale, anche se solo nel letto di Lucrezia; anche il nome Nicia racchiude in sé la nike, la «vittoria», e sarà infatti anche Nicia un vincitore, avendo guadagnato con la certezza di un erede il premio che maggiormente ambiva. Dunque, entrambi nomi parlanti, alla maniera di Plauto piuttosto che di Terenzio. Così come Timoteo, con etimologia greca «colui che onora Dio»; e di fatto non c’è nessuno più sollecito del frate alle pratiche del culto, anche se quel culto è del tutto esteriore e la moralità del personaggio non proprio rigidissima. E così per il nome di Ligurio, che deriva dal verbo latino ligurrire «spiluccare», «smangiucchiare» e, seppure di invenzione machiavelliana, è quanto mai pertinente a un parassita di commedia, come appunto il personaggio è dichiarato più che rappresentato. Infine, che la Lucrezia della Mandragola, che peraltro porta un nome comunissimo a Firenze, sia la parodia di Lucrezia romana, di cui racconta Tito Livio nelle sue storie al luogo già indicato, è del tutto evidente: nel primo caso una donna che riscatta con il suicidio l’onore violato; nel secondo una che trae proprio dalla violenza subita occasione di una vita erotica finalmente soddisfacente. Il tributo pagato da M. alla commedia antica è tuttavia ben più consistente della ripresa di elementi onomastici. Riguarda l’adozione di un modello strutturale che coinvolge l’intera orchestrazione della Mandragola, dalla disposizione della materia negli atti in quattro parti (protasi, prologo, epitasi e catastrofe), alla dialettica ostacolo-superamento, fino allo scioglimento finale.
Nei primi decenni del 16° sec., essendo ancora da venire la precettistica aristotelica che avrà solo nel 1543 con Giovanni Battista Giraldi Cinzio la sua formalizzazione, le regole della commedia potevano essere desunte da alcuni trattati tardoantichi come il De fabula attribuito a Evanzio, qua e là dal commento di Donato a Terenzio, dall’attività esegetica sulle commedie latine prodotta da almeno due generazioni di umanisti, oltre che direttamente dagli stessi testi dei due commediografi latini. Il De fabula veniva di solito riportato unitamente al De comoedia, attribuito a Donato. Questi due testi, peraltro piuttosto brevi, andavano a costituire, subito dopo la Vita Terentii e insieme a essa, già in alcuni manoscritti e poi da qui negli incunaboli e nelle stampe cinquecentine, una sorta di ricco apparato a corredo delle edizioni terenziane pubblicate con il commento di Donato. Il De fabula, in particolare, tocca, pur nella sua brevità, alcuni punti essenziali delle regole del comporre commedie. I modelli di riferimento sono quelli della ‘commedia nuova’, Menandro in lingua greca, Plauto e Terenzio in latino. Di fatto nel De fabula l’autore di riferimento è soprattutto Terenzio, dal quale si desumono le tipologie del prologo; la congruenza dei comportamenti dei personaggi con l’età, l’abito, la funzione; la mancanza di qualsiasi astruseria o particolare che per essere compreso ha bisogno di informazioni extratestuali; l’assenza di scambi di parti fra gli attori, cioè personaggi doppi che confondevano gli spettatori; la preferenza per non più di quattro personaggi per scena; la tecnica dell’azione continua, per cui i personaggi si richiamano sempre nel passaggio da una scena all’altra. Si apprezza in particolare nel De fabula l’impianto naturalistico delle commedie di Terenzio, in contrapposizione implicita con la grande libertà del teatro plautino. M., il quale conosceva certamente il trattato di Evanzio, che poteva leggere agevolmente nelle numerose edizioni terenziane commentate, si fa nella Mandragola discepolo di Terenzio più che di Plauto. Si potrebbe anzi dire che nel quadro abbastanza articolato della commedia italiana del Rinascimento la commedia di M. è la prima e resterà forse anche l’unica davvero terenziana, tale cioè sia nello spirito sia nelle forme. E sarebbe da aggiungere anche nella lettera, considerato il numero elevato di citazioni soprattutto dall’Andria, ma anche dalle altre commedie di Terenzio (ma qualcosa arriva anche da Plauto), che costituiscono una filigrana ininterrotta lungo tutto il testo della Mandragola.
Rispetto a Terenzio, il realismo di M. va tuttavia ancora oltre. Nella Mandragola non c’è particolare, anche minimo, che risulti poco meno che verosimile. L’attribuzione puntuale ai limiti della pignoleria delle fasi dell’azione alle varie ore del giorno volge una vicenda tramata di elementi convenzionali (il contrasto amoroso fra il giovane e il vecchio, le macchinazioni astute del parassita, la suocera, il servo ecc.) in una rappresentazione di eventi realistici. Nella Mandragola non ci sono i pezzi di bravura che saranno cari ai comici di mestiere (tranne forse le poche battute della palla d’aloe nella bocca di Nicia: IV ix 124-32) e che nel teatro plautino qua e là si rinvengono; non entra mai in gioco il caso o la fortuna; tutto avviene per la capacità di iniziativa – si direbbe machiavellianamente la ‘virtù’ – dei personaggi. Né ci sono arrivi improvvisi a sciogliere con agnizioni imprevedibili i nodi dell’intreccio, né coppie di gemelli a generare improbabili scambi di persona e altri equivoci, come anche nella Calandra. La topografia fiorentina dell’ambientazione è tutt’altro che convenzionale (come invece per la Ferrara dei Suppositi o la Roma della Calandra, per non dire di Metellino o di Atene di altre commedie del primo Rinascimento): qui ci sono Mercato nuovo, Mercato vecchio, il Pancone degli Spini, la loggia dei Tornaquinci, la panca del Proconsolo, la «via dello Amore». Finanche quest’ultima strada, che a stare alla citazione del prologo è «fitta» in un canto della scena e che sembra rispondere a una toponomastica immaginaria, trova effettivamente riscontro nella mappa della Firenze cinquecentesca, mettendo capo sulla piazza vecchia di S. Maria Novella: dunque proprio questa sarebbe la chiesa («el tempio che all’incontro è posto») in cui officia il frate della Mandragola. Una puntura velenosa nei confronti dell’affarismo dei domenicani del convento di S. Maria Novella, seppure accuratamente nascosta. Del resto sono propri di una biblioteca domenicana i testi della Scolastica sui quali il frate studia il caso di coscienza di Lucrezia, come è un testo di circolazione domenicana anche quella Vita dei santi Padri che Timoteo legge per ingannare il tempo nella notte in cui si consumerebbe lo svelenimento della donna. Inoltre, il finto medico Callimaco parla come un medico vero, sciorinando allo sbalordito Nicia pezzi dei trattati di medicina di Michele Savonarola (→). Le argomentazioni spese da fra Timoteo per convincere Lucrezia non sono teologicamente infondate. Ma anche particolari più minuti, come i quattro mesi del feto della fanciulla che si dovrebbe far abortire, nella proposta civetta di Ligurio a fra Timoteo, sono definiti con calcolo maliziosamente realistico. Così l’idea della necessità di depurare Lucrezia sembra una trovata partorita da un ingegno fantasioso, e invece fonda sulla credenza che colui che cavava la radice della pianta ne venisse irrimediabilmente avvelenato, tanto è vero che i cercatori addestravano a questo compito i cani. Il vagabondo che dovrà accoppiarsi con Lucrezia per svelenirla svolge dunque apparentemente l’incombenza di un cane, ma avrà la ventura di unirsi alla più bella donna di Firenze. Sconfinando infine nel folclore, dietro la vicenda mandragolesca si legge in controluce il motivo del congiungimento con la fanciulla avvelenata e avvelenatrice, presente già nelle narrazioni popolari medievali e riusato da M. come efficace spunto comico. E si potrebbe continuare con la caratterizzazione linguistica dei personaggi e altri aspetti ancora, benché minimi, che danno alla commedia il sapore dell’autenticità, del fatto accaduto.
Altro versante del realismo della Mandragola è nella circostanza che M. ancori cronologicamente i fatti della commedia al 1494, anno della discesa in Italia di Carlo VIII. Callimaco è nato nel 1474; a dieci anni (1484), morti entrambi i genitori, è mandato a Parigi; a venti, nal 1494, avrebbe dovuto far ritorno a Firenze, ma la discesa di re Carlo e le guerre d’Italia gliel’hanno impedito; nel 1504, a trent’anni, fa finalmente ritorno a Firenze, spinto dall’innamoramento a distanza per Lucrezia. La scansione degli anni per decadi è anch’essa significativa di un’ottica storica, ma è ancora più significativo notare che il 1494 è anche l’anno da cui prende avvio il primo Decennale e quello a cui alludono le ultime parole delle Istorie fiorentine, per non dire dei Discorsi, che fanno più volte rimando al 1494 come a una data cruciale. Non pare dubitabile, alla luce di queste evidenze, che M. intenda attribuire alla commedia un valore esemplare rispetto ai nuovi tempi che proprio i fatti del 1494 avevano tristemente inaugurato. Lo stesso avverrà nella Clizia, anch’essa ancorata al 1494.
C’è poi la gestione del tempo, che in commedia è elemento non trascurabile al fine di determinare il realismo della rappresentazione. La sua compressione o la sua dilatazione provocano per difetto o per eccesso una sfasatura nel rapporto fra tempo della fabula e tempo della rappresentazione, accrescendo la sensazione dell’inverosimiglianza. Svolgendosi in epoca classica l’azione teatrale nell’arco di una sola giornata (siano le sole ore di luce o l’arco delle 24 ore), poteva accadere che pur di non contravvenire a questa regola, si condensassero nello spazio ristretto di un sol giorno azioni che nella realtà avrebbero invece richiesto anche settimane. Pure in Terenzio, commediografo incomparabilmente più sensibile di Plauto alla verosimiglianza dell’azione, si colgono talora delle condensazioni, seppure tanto contenute da passare per lo più inavvertite. Ma Plauto e Terenzio forniscono anche casi opposti di tempi della scena dilatati. M. nella Mandragola anche da questo punto di vista è più terenziano che plautino: si direbbe anzi molto più attento di Terenzio a coordinare i tempi di svolgimento dell’azione. All’interno degli atti i tempi della rappresentazione sono calibrati con buona approssimazione realistica. L’assolo di Siro della scena quarta del secondo atto, per es., copre abbastanza verosimilmente il tempo impiegato da Nicia fuori scena per raccogliere «il segno», cioè le urine, di Lucrezia; del resto, Nicia aveva avvertito Siro del suo far presto («Aspettami qui: io tornerò ora»: II iii 50), quasi a far partecipi gli spettatori dell’isocronia degli avvenimenti sulla scena e fuori scena. Il monologo di Nicia della scena settima dell’atto terzo serve a dar tempo a Ligurio di far partecipe il frate della macchinazione, e ha un’estensione tutto sommato convenzionalmente compatibile con la durata del colloquio fuori scena: peraltro anche qui Ligurio prima di ritirarsi con Timoteo avverte Nicia: «Aspettate qui: noi torniamo ora» (III vii 84). Il successivo assolo di Timoteo (III vii 94), più lungo dei due precedenti, copre il tempo necessario perché Ligurio chiami le donne, le stesse escano di casa e raggiungano il sagrato della chiesa dove sono attese dal frate. Ancora nell’assolo della scena sesta dell’atto quarto Timoteo resta sulla ribalta per consentire a Ligurio e Siro di travestirsi; e anche qui, ad assicurare della rapidità del loro ritorno, Ligurio aveva dichiarato: «El frate ci aspetterà qui: noi torneren subito» (IV vi 102). Un’identica sensibilità nel portare a far coincidere il più possibile, anche con il sostegno di dichiarazioni ad hoc, tempo della fabula e tempo della rappresentazione (che è poi il tempo reale di chi assiste alla rappresentazione) M. la dimostra nella gestione del tempo degli intervalli fra gli atti. Nella Mandragola anche questo tempo è trattato in maniera tendenzialmente isocronica. Prima che ciascun atto si concluda gli spettatori sono avvertiti di quello che accadrà durante la pausa della rappresentazione. Tra un atto e l’altro c’è sempre soluzione di continuità, analogamente al tempo degli spettatori nella sala, che può essere occupato dall’esecuzione degli intermezzi o da altro. Tra primo e secondo atto Ligurio rintraccerà Nicia e lo condurrà a casa di Callimaco. L’intervallo tra secondo e terzo è utilizzato da Ligurio e Nicia per mettere al corrente Sostrata della necessità di affidare Lucrezia alle cure del finto medico Callimaco. La pausa fra terzo e quarto copre il tempo necessario a Ligurio per aggirarsi in Firenze alla ricerca di Callimaco. Qualcosa fuori dal comune avviene invece nel passaggio dal quarto al quinto atto. Nella battuta conclusiva del quarto il frate infatti esce dalla convenzione della rappresentazione (cosa che nessun personaggio terenziano mai fa) e chiede agli spettatori che non critichino i personaggi (e per loro l’autore) per il fatto che in quell’intervallo trascorrerà l’intera notte: «E voi spettatori non ci appuntate, perché questa notte non ci dormirà persona, sì che gli atti non sono interrotti dal tempo» (IV x 158). Gli atti non saranno interrotti perché, pur essendo il quinto ambientato nelle prime ore della mattina successiva, in quella notte nessuno dei personaggi dormirà. La continuità dell’azione è insomma garantita dalla veglia fuori scena, anche se il tempo della fabula e quello della rappresentazione risulteranno per questo sensibilmente divaricati. Del resto anche Terenzio nel passaggio dal secondo al terzo atto dell’Heautontimorùmenos aveva fatto correre un’intera notte. La Mandragola insomma legittima anche un’apparente infrazione con un precedente terenziano.
Ma anche quando l’esigenza di una rappresentazione moderna potrebbe confliggere con gli usi e i costumi di un’epoca storicamente lontana, la capacità di M. di adattarne al presente le regole, le convenzioni, i personaggi è una delle peculiarità più sorprendenti della commedia. L’esempio più eloquente di ciò si può forse cogliere nella scena terza dell’attoterzo, quella del frate e della vedova. È una scena insolita perché il personaggio della vedova è estraneo all’intreccio: non ha nome, pronuncia solo poche battute, dopo di che scompare nel nulla da cui era affiorato. Il dialogo tra la vedova e il frate è di fatto la parte finale di un colloquio iniziato fuori scena, che sembra aver toccato argomenti che avrebbero potuto anche concludersi in una confessione. Ma la donna non ha tempo e le basta per intanto «essersi sfogata un poco così, ritta ritta». Dà quindi al frate l’obolo di un fiorino, una quantità non trascurabile di denaro, perché dica delle messe per l’anima del marito, «un omaccio» che anche da morto, e malgrado mancasse di discrezione nel sollecitarla con pratiche non proprio lecite, continua ancora nel ricordo a stuzzicarne gli appetiti («pure le carni tirono»). E al ricordo del fare indiscreto del marito la donna associa, ingigantendo le proporzioni, la consuetudine dell’impalare dei turchi, la cui venuta in Italia lei teme proprio per la paura di subire da loro quel trattamento. Tra sospiri, reticenze e finte preoccupazioni la vedova porta così il discorso su un terreno scivoloso, ma Timoteo non abbocca. Un frate decameroniano ne avrebbe immediatamente approfittato. Ma Timoteo per apparentamenti letterari somiglia più ai frati del Novellino di Masuccio Salernitano che non a quelli decameroniani: la sua unica mira è il fiorino. I protagonisti di questa scena sono quanto di più estraneo si possa concepire rispetto alla commedia antica. Il personaggio del religioso, assente ovviamente nel teatro latino, era tuttavia presente nel teatro umanistico. Ma anche in riferimento al teatro antico l’innovazione forse non è così radicale. Infatti l’antagonista del giovane innamorato delle commedie plautine e terenziane non è sempre il padre vecchio che lesina al figlio i denari necessari a riscattare dal ruffiano mercante di schiave la fanciulla amata. Talora è il ruffiano stesso, che amministra a suo piacimento la vita delle donne di sua proprietà e si attribuisce la facoltà di concederle o negarle ai loro spasimanti. La sua attività conosce comunque un unico inderogabile principio: il guadagno. Mai il ruffiano mostra debolezza nei confronti della sua delicata mercanzia. Ci si chiede allora se fra Timoteo non possa anche essere visto come una sorta di moderno lenone: non ha il possesso materiale delle donne, ma ne controlla la coscienza in modi che producono risultati non dissimili dall’antica schiavitù. La scena della vedova serve proprio a rappresentare la dipendenza, la sottomissione della donna al frate ed è anticipazione dell’altra scena, quella decisiva, del convincimento di Lucrezia. In realtà Callimaco non ottiene Lucrezia dal marito sciocco, la compra dal frate. Avere individuato nei frati i moderni ruffiani, padroni delle coscienze femminili e di conseguenza anche dei loro corpi, è per M. un colpo di genio insieme sociologico e teatrale. Ma sarebbe anche una prova, e delle più imprevedibili, che nella Mandragola non c’è nulla di estraneo al teatro antico. Del resto, anche il personaggio della vedova nel suo comparire in un’unica scena trova una qualche legittimazione nelle regole della commedia classica: strutturalmente è un personaggio protatico, anche se in maniera sui generis. Definito come tale nei trattati, il personaggio protatico è detto così perché compare nella protasis della commedia, di fatto il primo atto, e fa in genere da spalla all’interlocutore principale per permettergli di esporre gli antefatti dell’azione. Caratteristica del personaggio protatico è che, dopo aver assolto questo compito, scompare dalla commedia. Nella Mandragola il servo Siro svolge funzioni protatiche nella prima scena dell’atto primo, trasformando in dialogo quello che nella sostanza è un monologo di Callimaco. La donna senza nome, dunque, è come se introducesse la seconda parte della vicenda, che da quel momento si inscrive tutta nel segno del frate. La terza scena dell’atto terzo è brevissima, ma dopo il colloquio con la vedova fra Timoteo esce raffigurato a tutto tondo per vie che sono esclusivamente teatrali. Poche battute e gli spettatori sanno tutto di lui. La novella, anche per il più novellistico dei personaggi della commedia, avrebbe quindi un’incidenza solo parziale. Insomma la componente novellistica della Mandragola altro non sarebbe che la sua impronta realistica, il suo essere verosimile anche nei particolari più secondari, la sua capacità di adattare al presente le regole, le convenzioni, i personaggi di un genere innervato originariamente negli usi e nei costumi di un’epoca storicamente lontana.
All’inizio della Mandragola, dopo le prime due battute rifatte sull’attacco dell’Andria, la successiva è costruita sintatticamente sul parallelismo «Io credo che tu ti maravigliassi... e ora ti maraviglierai...». La stessa struttura poliptotica, realizzata con il corrispondente verbo latino miror, si riscontra, anche qui in posizione incipitaria, nel proemio dei Caratteri di Teofrasto tradotti dal greco in latino da Lapo da Castiglionchio il Giovane nel 1430, versione che conobbe una discreta circolazione manoscritta fino a quando non fu messa a stampa per la prima volta a Basilea nel 1531: «Cum antea saepe mecum animo et cogitatione reputans mirari soleo, tum fortasse numquam desinam mirari cur etc.». Forse è una coincidenza, ma potrebbe anche essere il dettaglio che getta uno spiraglio di luce sulle ragioni profonde che sono all’origine della Mandragola. Scorrendo il proemio dei Caratteri (che non è di Teofrasto, ma circolava a suo nome) si legge che l’autore, avendo osservato a lungo la natura degli uomini sia virtuosi sia malvagi, giunto all’età di novantanove anni ha ritenuto opportuno descrivere i comportamenti degli uni e degli altri. Sia o no pertinente l’accostamento suggerito dalla coincidenza degli incipit, non si può non riconoscere che M., seppure all’interno di un genere che metteva in gioco tipi convenzionali, miri a descrivere i comportamenti umani con un’attenzione che nessun altro autore di commedia rinascimentale riuscirà a eguagliare. Di ciò si accorse Carlo Goldoni (→) nei Mémoires (1787), ammirando nella Mandragola la prima commedia di carattere.
A spiegare questo bisogna considerare che la Mandragola non nasce, com’è per Ariosto e per il Bibbiena, dall’esigenza di soddisfare il bisogno di spettacoli di una corte rinascimentale, né è l’esercizio retorico di chi prova a ridare forme nuove a unamateria antica. È prima di tutto ed essenzialmente l’opera di chi impiega la letteratura come strumento conoscitivo. La sua genesi non è dunque lontana dall’esigenza di capire e di spiegare il presente attraverso i modelli del passato che è all’origine dei Discorsi, del Principe e di tutti gli altri scritti politici e storici del nostro autore. Del resto, è troppo complessa e profonda la struttura concettuale del pensiero di M. per ritenere che, anche quando l’autore si cimenti in un genere leggero come la commedia, lo faccia (almeno a questa altezza cronologica) per svago, mettendo in qualche modo tra parentesi il sé stesso più profondo. Quello che la critica ha posto in evidenza come mescolanza di comico e tragico nella Mandragola, spiegandola con il disincanto e la disillusione dell’autore, altro non è che la ‘verità’ della commedia, il suo essere ‘politica’ nel senso che rappresenta l’agire sociale degli individui. Che è altra cosa dalla cosiddetta interpretazione politica prospettata per primo da Theodore A. Sumberg, secondo cui la commedia trasporrebbe in allegoria i fatti fiorentini del 1512: il principe dei Medici (Callimaco) che conquista Firenze (Lucrezia) con l’aiuto della Chiesa (Timoteo) dopo aver fatto cadere la Repubblicaavendone spossessato Piero Soderini (Nicia). È riduttivo spiegare in questo modo un’opera così ricca di piani. M., negli anni in cui indagava in forme e con risultati così originali l’antropologia del potere, sarebbe attratto da una parallela curiosità nei confronti della vita quotidiana, e lo farebbe da umanista, in modi non dissimili da come si avvicinava alla materia ‘maggiore’. La lezione degli antichi non era valida soltanto per capire le logiche degli Stati, lo era altrettanto per capire le forze che agivano nei rapporti privati, che erano le stesse nel presente come nel passato. Il genere che nell’antichità classica aveva rappresentato la quotidianità era stato soprattutto la commedia. La commedia latina, come già la commedia nuova greca, lo aveva fatto in modi convenzionali, stereotipati. Ma quelle forme contenevano comunque di per sé un modello da cui per un umanista era impossibile prescindere. La commedia antica, e in particolare quella terenziana, era per M. l’unico possibile paradigma per capire quali fossero le forze che regolano l’agire di ogni giorno, ossia le regole di un microcosmo sociale e dei tanti suoi analoghi che perdendo la loro individualità vanno a comporre l’entità superiore dello Stato. Del resto scriverà più tardi M. nel Discorso intorno alla nostra lingua: «il fine d’una Commedia è proporre uno specchio d’unavita privata». È per questa ragione che lo schema terenziano andava applicato con coerenza, tutt’al più discretamente ammodernato negli aspetti o nei personaggi che lo avrebbero reso altrimenti impraticabile. Nella letteratura in volgare la vita privata ormai da due secoli si rispecchiava nella novella, ma nell’età dell’Umanesimo una letteratura che si ponesse delle finalità conoscitive non poteva prescindere dalle forme attraverso cui gli antichi comunicavano ai moderni. Bisogna sottolineare ancora che gli anni della Mandragola, se ne riconosciamo la stesura già all’altezza del 1514-15, sono per M. quelli della fase più sperimentalmente umanistica della sua attività, quelli dei Discorsi e del Principe, e anche quelli della sua maggiore felicità creativa.
Ma la dipendenza da Terenzio si arresta qui. Malgrado in seguito, ancora nel Discorso intorno alla nostra lingua, M. scriva che peculiare della commedia è saper suscitare il riso, «acciò che gl’huomini, correndo a quella delettatione, gustino poi l’exemplo utile che vi è sotto» (§ 65), accettando convenzionalmente quanto era scritto nel De comoedia di Donato e ribadito dal Poliziano nel suo commento all’Andria, secondo il quale la commedia è un’opera d’invenzione che tratta di vicende private per insegnare cosa nella vita sia utile perseguire e cosa evitare, di fatto quello che M. scopre nella commedia circa l’agire umano è tutto suo. La Mandragola non mira a insegnare nulla, la morale che se ne estrae non risponde ad alcuna finalità pedagogica, a nessun modo di miscere utile dulci, ovvero di iuvare e delectare, come in Terenzio è invece evidente. Descrive solo la vita com’è, come i Discorsi e il Principe descrivono la storia e la politica come sono. E i princìpi che regolano i rapporti nella vita privata non sono diversi da quelli che li regolano nella vita pubblica: l’utile e il piacere. Il che non è né bene né male: è solo la realtà. Ma essere riuscito a piegare un genere dal gusto ancora archeologico a esprimere una verità così sconvolgente nella sua semplicità è letterariamente un fatto di portata enorme. Il resto del teatro rinascimentale non arriverà neppure alla lontana a qualcosa che possa stare al paragone, tranne forse Giordano Bruno con il Candelaio: ma non è un caso che sia M. sia Bruno prima che essere commediografi o letterati siano grandissimi uomini di pensiero.
Se l’agire pubblico e l’agire privato rispondono dunque a una medesima logica, è pur vero che gli effetti che possono conseguire dall’uno e dall’altro hanno una portata tutt’affatto diversa. Com’è noto, per M. l’arte di simulare e dissimulare è virtù imprescindibile del principe. Nella concezione machiavelliana della politica il perseguimento dell’utile da parte dei reggitori degli Stati ha in sé una ragionepratica e nello stesso tempo etica. È adattamento alla natura contraddittoria della realtà. Nasce anche da quel realismo che è componente antropologicamente costitutiva dello spirito fiorentino. Quando però le stesse logiche vengono trasferite nella sfera privata e l’affermazione di sé non ha più relazione con la sicurezza e la prosperità dello Stato, ma con la voglia incontenibile di conquistare sessualmente una donna, o con il desiderio di un padre di generare a tutti i costi un figlio per avere a chi lasciare la roba, o con l’attitudine di un frate a far bottega del proprio ufficio, ecco che il simulare e il dissimulare danno luogo a situazioni equivoche che M. gioca sempre sul filo del paradosso. E quando la realtà quotidiana appare doppia o tripla, è di per sé comica. L’arte di M. sta nel rappresentare situazioni paradossali che alla luce del senso comune restano sempre verosimili: è questo un aspetto di fascino oltre che di modernità della Mandragola. Consiste in questo fondamentalmente il divertimento della commedia.
Callimaco, che vestendo i panni del gran medico analizza le urine di Lucrezia attribuendone il chiarore al fatto di essere di notte la donna malcoperta, dice contemporaneamente una cosa vera e falsa; Timoteo, che per convincere Lucrezia all’adulterio imbastisce un discorso teologicamente fondato e concluso addirittura con una citazione biblica, asserve la teologia e le Scritture ai propri fini facendone salva tutta l’aura sapienziale; Nicia, che in vista dell’accoppiamento della moglie con uno sconosciuto entra in uno stato di eccitazione che lo porta a riferirsi a quell’atto con battute che terminano nella sconcezza, ed è addirittura percorso da un brivido di sensualità quando vede le carni nude di Callimaco, sconfina nel grottesco. Ma tutto ciò appare assolutamente normale; come risulta normale la flessibilità di Lucrezia nell’adattarsi alle nuove circostanze, dopo che la notte d’amore prima subita poi intensamente vissuta le ha dischiuso mondi che il marito non le aveva lasciato neppure intuire. Il culmine si raggiunge tuttavia nella scena finale con il rito dell’entrare in santo.
Il cerimoniere è fra Timoteo: lui apre la scena e lui la chiude. Di sua pertinenza l’area in cui si svolge: il sagrato della chiesa. All’interno della chiesa, cioè nell’ambiente suo naturale, si trasferiranno tutti i personaggi per il doposcena della commedia. Ma intanto per dare compiutezza strategica alla complessa e artificiosa architettura teologico-morale concepita dal frate, per concludere la vicenda in armonia con il disegno imbastito si rende necessario un rito di purificazione, e l’entrare in santo, ossia la purificatio post partum, è da questo punto di vista quello che a chi sa di liturgia risulta il più pertinente. Ma il significato che il rito era venuto assumendo nel corso dei secoli era sempre meno un atto di espiazione e sempre più di ringraziamento per la buona riuscita del parto. E se è vero che Lucrezia non aveva partorito (poteva avere tutt’al più concepito), un bambino comunque in ballo c’era. Quella notte santa era stata promessa di bene per tutti (Sostrata metterà «un tallo in sul vecchio», Nicia avrà finalmente fra le braccia un «naccherino», Lucrezia e Callimaco potranno liberamente dare sfogo ai loro amori, il frate raccoglierà i frutti della sua mediazione) ed era il caso di renderne pubblicamente grazie a Dio. Per i personaggi sulla scena e per gli spettatori in sala è tutto contemporaneamente vero e falso. Ma in questo modo l’happy end della tradizione plautina e terenziana veniva in apparenza stravolto. Le regole della commedia richiedevano infatti che un matrimonio mettesse fine lietamente agli amori prima contrastati dei giovani innamorati. Qui invece si ha una cerimonia che è insieme di purificazione e di ringraziamento. Neppure questo finale tuttavia infrange fino in fondo le regole. Quando i personaggi centrali della vicenda, cioè Nicia, Lucrezia e Callimaco, si dispongono nell’ultima scena di fronte agli spettatori (Nicia al centro, Lucrezia e Callimaco ai lati) e Nicia invita Callimaco a toccare la mano della donna, quel gesto leggerissimo delle mani degli amanti che si sfiorano suggerisce iconograficamente (l’intuizione brillantissima è di Daria Perocco) le rappresentazioni pittoriche dello sposalizio della Vergine. Insomma, una donna bellissima, già sposata, dopo aver trascorso una notte d’amore con il suo amante, lo ‘sposa’ sotto lo sguardo benedicente del marito e in presenza di un vero sacerdote, sottoponendosi successivamente a un rito di purificazione. Lo potremmo anche raccontare così il finale della Mandragola. È un finale che ha una sua logica: il profano della relazione adulterina viene prima sacralizzato con un matrimonio velatamente celebrato e poi mondato degli elementi impuri originari. Questa non è certo una logica laica, e se autore dell’invenzione è uno scrittore laicissimo come M., quel finale ha il sapore dello sberleffo.
Tutto insomma, dall’inizio alla fine della Mandragola, rivela l’abilità dell’autore di integrare l’antico con il moderno. Ma se il modello della commedia latina riesce a contenere una materia così viva, lo si deve anche alla particolare circostanza che M., come si diceva in apertura, riesce a far coesistere la grande tradizione filologico-umanistica di Ficino e Poliziano (l’arte e le regole della commedia, i modelli classici) con quella tutta incentrata sulla fiorentinità linguistica, che aveva le sue radici in Boccaccio, era proseguita con il Franco Sacchetti del Trecentonovelle e aveva trovato prima nel Burchiello poi in Luigi Pulci e in Lorenzo de’ Medici i suoi campioni quattrocenteschi. Nessun altro autore e nessun’altra opera avevano realizzato o realizzeranno qualcosa di simile. Nelle battute della commedia le riprese da Plauto e da Terenzio si intrecciano infatti con i modi che gli autori della grande cultura municipale fiorentina avevano trasferito nelle loro opere attingendo alla vivacità del parlato. Alla luce di tutto ciò risulta forse più ricco di implicazioni quello che M. intendeva quando nel Discorso intorno alla nostra lingua rimproverava alle commedie di Ariosto di essere prive di quell’espressività (i «sali») che un commediografo non toscano aveva difficoltà ad attingere. Non si trattava solo della difficoltà di padroneggiare una lingua non propria in un genere che mimava il parlato, ma di avere parte in una cultura che aveva radici vive nella quotidianità che la commedia aspirava a rappresentare. Il personaggio della Mandragola che più di tutti incarna l’espressività fiorentina è Nicia, al quale Ligurio fa talora da spalla. L’espressività di Nicia, il suo gusto ribobolesco della lingua, il suo sputare frasi proverbiali a raffica diventano però segno di provincialismo, sono emblematici di un attaccamento ottuso a una municipalità priva di prospettive, in un’epoca in cui, stando al M. politico, la crisi politica e morale che stringe Firenze e l’Italia avrebbe richiesto uomini nuovi, lungimiranti, tutt’altro che intenti a tenere lo sguardo fisso all’ombra del proprio campanile.
Del testo della Mandragola non sopravvive alcun autografo. I due testimoni utili a ricostruire criticamente il testo sono il già ricordato ms. Redi 129 (= R), datato come già detto 1519, e una stampa adespota senza indicazione di anno, di luogo e di tipografo, identificabile dalla xilografia del frontespizio che rappresenta un centauro che suona una lira da braccio all’interno di un fregio di stile fiorentino. Da questa edizione, cosiddetta del Centauro (= C), discende tutta la tradizione a stampa, fino al 1965, quando Ridolfi pubblicò criticamente il testo tenendo conto anche del manoscritto, sul quale lo stesso studioso richiamava per la prima volta in quell’occasione l’attenzione. All’interno di R, che presenta una scrittura corrente con numerose cancellature e aggiunte interlineari, la Mandragola occupa le carte da 110r a 131r; le restanti registrano prevalentemente testi di Lorenzo il Magnifico. Il suo estensore, fiorentino, mostra un certo scrupolo nell’attenersi all’esemplare di copia, ma si lascia anche cogliere non poche volte distratto. C, a quello che risulta princeps della commedia, si presenta a sua volta come un prodotto di bassa qualità per la carta scadente, assenza di titoli correnti e caratteri logori. Un libro di formato in ottavo di fattura dozzinale che per caratteristiche materiali è più prossimo alle fattezze di un incunabolo che non agli standard tipografici correnti negli anni intorno al 1520. Per giunta uno dei cinque esemplari sopravvissuti fa registrare un grossolano errore di imposizione riguardante tre pagine nei fascicoli A e B, errore corretto in corso di tiratura. Dall’osservazione del frontespizio, e in particolare dalla presenza di sei segni puntiformi all’interno di un tondo al centro in alto della cornice, Ridolfi ha desunto la dedica della Mandragola alla famiglia dei Medici, interpretando quei segni come le sei palle dell’emblema mediceo. Ma quel motivo ornamentale è presente anche in altre edizioni fiorentine, dove i segni puntiformi sono in numero diverso da sei. La stessa immagine xilografica del centauro musicante è quasi certo che sia materiale di riuso, dunque senza alcuna relazione con il testo della commedia. L’idea che esso rimandi al Chirone del cap. xviii del Principe è infatti un’ipotesi avanzata da taluni, ma ardua da sostenere, anche perché sarebbe difficile spiegare il motivo per cui l’anonimo tipografo avrebbe preferito alludere all’autore così sottilmente (il Principe circolava ancora manoscritto) invece di riportarne a chiare lettere il nome sul frontespizio. Del resto la successiva edizione della Mandragola, attribuita al tipografo veneziano Alessandro Bindoni, anche questa senza indicazione di autore, luogo e data, reca nel frontespizio la xilografia di un suonatore di viella, che è presente addirittura in tre altre edizioni che nulla hanno a che vedere con la Mandragola. Unico elemento certo di C è la presenza di un tipografo originario di Siena, che si lascia identificare per aver disseminato nel testo numerosi senesismi linguistici.
R e C sono fra loro indipendenti, anche se la presenza di errori comuni fa supporre la discendenza di entrambi dallo stesso testo non autografo. Si contano poi errori specifici sia di R sia di C, emendabili con il ricorso all’altro testimone. Ma aspetto rilevante di C è che il suo testo risulta con evidenza aver subito un processo di revisione linguistica del tipo di quelli a cui erano abitualmente sottoposti i testi volgari nel momento di essere messi a stampa, con il risultato di una normalizzazione che lo rende molto più ordinato e levigato di quello di R, ma che fa perdere a esso la mobilità, la vivacità, la freschezza che ha la lingua di M., soprattutto nelle lettere e negli altri suoi scritti informali. La verniciatura linguistica di C (attenuazione delle forme grammaticali e lessicali più tipiche, tendenza al pareggiamento dei costrutti, eliminazione di parole ripetute a breve distanza e altre idiosincrasie per lo più pedantesche) mette insomma in ombra certi aspetti del parlato che la letteratura fiorentina quattrocentesca, dal Burchiello a Pulci, aveva coltivato e della quale M. a sua volta raccoglie e trasmette l’eredità. Ma bisogna anche aggiungere che l’impegno revisorio documentato da C risulta poco compatibile con la trascuratezza materiale dell’edizione, cosa che lascia aperta l’ipotesi che questa non sia realmente la princeps del testo ma la ristampa di un’edizione oggi perduta: circostanza che sembra trovare elementi di prova anche sul piano linguistico (Stoppelli 2005, pp. 160-61). Consiste comunque nella valutazione del testo di C il nocciolo del problema testuale della Mandragola. Con il rischio, se non si mette in conto la presenza di un correttore tipografico, di attribuire le varianti di C rispetto a R a revisione d’autore, dunque di ipotizzare l’esistenza di una doppia redazione della commedia. È di conseguenza proprio sulla valutazione di C che si è giocata la differenza di impostazione delle tre edizioni critiche della Mandragola prodotte dopo la scoperta del manoscritto rediano: Ridolfi (1965) accorda preferenza a C (da lui siglato F) in ragione della sua forma linguisticamente più rifinita; Mario Martelli (1971) si affida a R per la tessitura linguistica e a C per le varianti sostanziali, ipotizzando una seconda redazione d’autore; Pasquale Stoppelli (2005) riconosce maggiore legittimità al testo di R, salvo emendarne gli errori sulla base di C.
Esclusa, non essendovi alcun riscontro, la supposta rappresentazione fiorentina del febbraio o settembre 1518, la prima notizia di una messa in scena della Mandragola la leggiamo nella già ricordata lettera di Della Palla dell’aprile del 1520, che informava da Roma M. di aver parlato della commedia al papa e di averlo rassicurato del buon andamento dei preparativi per il suo allestimento. Di questo allestimento romano, avvenuto nel 1520, si avrà conferma da Paolo Giovio, che nel ritratto riservato a M. negli Elogia aggiunge che essa era stata la replica, con lo stesso apparato e gli stessi attori, di una recita fiorentina. Possiamo dunque ritenere come cosa più probabile che questa rappresentazione avvenuta a Firenze, a cui Giovio accenna, fosse avvenuta nel carnevale del 1520, data peraltro coincidente con quella apposta sul ms. rediano. Di lì a pochi mesi sarebbe avvenuta quella romana.
In quegli anni la corte pontificia era il più importante centro teatrale in Italia. Il papa aveva al suo servizio una compagnia di attori con a capo il celeberrimo Cherea, nome d’arte del lucchese Francesco de’ Nobili. Non sappiamo se Cherea ebbe parte nello spettacolo romano della Mandragola e di conseguenza se l’aveva già avuta in quello fiorentino; ma quando questi, dopo la morte di Leone X, si trasferì da Roma a Venezia, tra i primi testi che portò sulla scena in quella città fu proprio la Mandragola. Come si legge nei Diari di Marin Sanudo (→), in data 13 febbraio 1522 fu infatti recitata nel convento dei crociferi una commedia «di uno certo vechio dotor fiorentino che havea una moglie, non potea far fioli ecc.». Comprimario di Cherea, che era specializzato nella parte dell’innamorato, era stato Zuan Polo, l’attore di maggior successo a Venezia prima di Ruzante. Se Cherea fu dunque Callimaco, Zuan Polo rivestì certamente i panni di Nicia. Anche per la popolarità degli attori quello spettacolo fece registrare un tale afflusso di pubblico che rese impossibile recitare l’ultimo atto. Tre giorni dopo se ne fece una replica. A Firenze la Mandragola tornerà nuovamente nel 1524 a opera della Compagnia della Cazzuola in casa di Bernardino di Giordano. Fu un evento memorabile soprattutto per gli apparati scenici, disegnati, come documenta Giorgio Vasari nelle Vite, da Andrea del Sarto e Bastiano da Sangallo. Passeranno ancora pochi anni e il 5 febbraio del 1526 la Mandragola terrà ancora banco a Venezia; lo spettacolo è questa volta organizzato dalla colonia fiorentina residente in città con attori venuti appositamente da Firenze. La cronaca dell’avvenimento si può leggere in una lettera che il fiorentino Giovanni Manetti scriverà il 28 febbraio successivo a Machiavelli. I Menaechmi di Plauto, che erano stati recitati quella stessa sera in un’altra sala veneziana, al confronto della Mandragola erano apparsi «una cosa morta». Ma nel carnevale di quell’anno, oltre che a Venezia, la commedia fu rappresentata quasi certamente anche a Faenza. Auspice dell’iniziativa era stato Guicciardini, allora presidente della Romagna su incarico di Clemente VII. M. e Guicciardini si sarebbero dovuti incontrare in quell’occasione nella città romagnola, ma per il precipitare della situazione politica il papa richiamò Guicciardini a Roma per consultazioni. Essendo già stata preparata dagli attori, è da credere che la commedia andasse ugualmente in scena, ma, assente l’amico, M. non si mosse da Firenze. M. morirà nel giugno del 1527; non si sa di altre recite lui vivente. Dopo il 1527 la commedia si rappresentò forse altre volte a Firenze e altrove, ma l’unica notizia successiva a questa data riguarda uno strano allestimento di cui parla Anton Francesco Doni nei Marmi (1555), che dovrebbe essere avvenuto a Firenze intorno alla metà del secolo. In quell’occasione sarebbero stati realizzati ai due capi della stessa sala due scene, dipinte l’una da Francesco Salviati l’altra dal Bronzino, nella quale gli atti della Mandragola vennero recitati alternativamente a quelli dell’Assiuolo di Giovanni Maria Cecchi.
Passando dalle scene alle stampe, le prime due edizioni già ricordate, quella del Centauro e del Suonatore di viella, inaugurano una fortuna del testo che sarà costante fino all’inclusione di M. nell’Indice dei libri proibiti del 1559. Fino alla fine degli anni Venti del 16° sec. le edizioni di commedie, e dunque anche della Mandragola, consistono in genere di libri di piccolo formato, una produzione che potremmo oggi definire di consumo, legata per lo più agli spettacoli, messa sul mercato da stampatori di second’ordine che in genere evitano di sottoscriversi. Ha queste caratteristiche una collanina in dodicesimo di ben sette commedie moderne pubblicate tra il 1524 e il 1525 senza nome del tipografo (si è ipotizzato che potesse essere lo stampatore romano Francesco Minizio Calvo); una di queste è la Mandragola (è la prima volta che questo titolo compare sul frontespizio, ma il testo resta ancora adespoto), anche se l’esistenza di piccole differenze con gli altri volumetti della serie non esclude che possa trattarsi di un’imitazione realizzata in altra stamperia. Comunque sia, solo a partire dagli anni Trenta il genere della commedia moderna comincia a interessare i maggiori editori veneziani e fiorentini. Nel 1531 la commedia è ristampata a Venezia da Niccolò Zoppino e qui il nome di M. finalmente risulta; ritorna tuttavia il titolo Comedia di Callimaco et di Lucretia. Seguono un’edizione fiorentina del 1533, prodotta in collaborazione da Bernardo Giunti e gli stampatori associati Antonio Mazzocchi, Niccolò Gucci e Piero Ricci, ai quali si dovrà nel 1537 la princeps della Clizia; una veneziana del 1537 di Francesco Bindoni e Maffeo Pasini. La Mandragola rifarà poi la sua apparizione sullo scaffale dei librai nel 1550, pubblicata a Firenze da Bernardo Giunti; quindi a Venezia nel 1554, per i tipi di Plinio Pietrasanta e la cura di Girolamo Ruscelli, in un volume collettaneo che comprende anche la Calandra del Bibbiena e quattro commedie degli Accademici Intronati di Siena. Infine, ancora a Firenze per i Giunti, la sola Mandragola nel 1556. Dopo questa edizione la commedia entra nel mirino della censura. Inizia così una lunga storia carsica del testo, che affiora qua e là occasionalmente, fino al Settecento, in edizioni clandestine che portano false indicazioni di luogo e di data. Le più notevoli sono le cinque edizioni secentesche di tutte le opere di M. dette della Testina.
Ma la fortuna della Mandragola nel 16° sec. si misura anche dall’influenza che esercitò sulle successive commedie, anche se l’opera di M. era troppo sui generis per avere quelle caratteristiche di imitabilità che potevano farne un modello. A questo si prestava meglio la Calandra, come di fatto avvenne. La Mandragola riuscì tuttavia a tipizzare in commedia la figura del religioso corrotto, come nell’Aridosia (1536) di Lorenzino de’ Medici o nel Frate (1540) di Antonfrancesco Grazzini. Più tardi possiamo registrare solo motivi generici di derivazione, come nella Sporta (1543) di Giovambattista Gelli, oppure imitazioni farsesche di poche pretese come La potione (1552) di Andrea Calmo. Questo però non escluse che la Mandragola, e in misura minore la Clizia, diventassero riferimento importante per quegli autori toscani che facevano della vivacità ed espressività della lingua la principale risorsa della loro comicità. Ai modi di dire sentenziosi, alle frasi proverbiali della Mandragola attingeranno gli scrittori fiorentini del 16° sec., non solo commediografi come Cecchi. Per es., Doni farcirà a piene mani di frasario mandragolesco alcuni dialoghi dei Marmi, e nell’Ercolano di Benedetto Varchi, pubblicato postumo nel 1570, la lingua di M. diventerà materiale di rilevante interesse.
Per registrare un ritorno diffuso, non clandestino, a M. nelle stamperie bisognerà attendere la seconda metà del 18° secolo. Nella bibliografia delle edizioni machiavelliane di quest’arco di tempo si contano un centinaio di titoli, comprese alcune messe a stampa di tutte le opere, tra le quali era dunque anche la Mandragola. Non abbiamo invece notizia di rappresentazioni. Nasceva intanto in quegli anni, con Girolamo Tiraboschi, la grande storiografia letteraria italiana. Per Tiraboschi (1781) il giudizio negativo sulla moralità delle commedie di M. faceva tutt’uno con quello sulla loro qualità artistica: «la Mandragola e la Clitia non sono un troppo perfetto modello né di un modesto componimento né di una ben ordinata commedia». Era una valutazione estrema. Gli storiografi di primo Ottocento cominciano invece, in particolare per la Mandragola, a far distinzione fra qualità drammaturgica dell’opera e contenuti giudicati riprovevoli. Può essere portato, a esempio di ciò, il giudizio di Pierre-Louis Ginguené: «Quando si mette da parte la soverchia licenziosità delle cose e delle parole, non si può non convenire che la Mandragola sia d’un valore straordinario» (Ginguené 1824, p. 235). L’aporia implicita in un giudizio come questo veniva avviata a ricomposizione da Francesco De Sanctis, che riconosceva nella Mandragola un’azione bene studiata e bene ordita, una straordinaria capacità di osservazione, uno spirito ironico con il cui riso, però, l’autore avrebbe coperto illusioni e disinganni: «Nel riso di Machiavelli c’è alcunché di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura» (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, 1870, a cura di N. Gallo, N. Sapegno, 1958, p. 603). Il riso amaro di M. adombrato da De Sanctis sotto le «buffonerie» dell’azione era l’idea critica che avrebbe aperto la porta a quella che, per analogia con il Principe, può essere definita l’interpretazione ‘obliqua’ della Mandragola, che troverà in Benedetto Croce il più autorevole sostenitore. Quella cioè di un M. dolorosamente impotente, che non vede nella realtà spiragli attraverso cui il bene possa manifestarsi (Croce 1929, poi 1991, p. 221). Non riuscendo Croce a riconoscere nel capolavoro teatrale di M. una ‘moralità’, la coglie e contrario nel disincanto dell’autore verso un mondo che conosce solo egoismi e inganni.
Le interpretazioni critiche successive hanno in larga misura le radici in questa idea della Mandragola. Restava il fatto innaturale che, ormai da secoli, quella che era un’opera teatrale veniva fruita esclusivamente come testo letterario. Nell’Ottocento non era l’adulterio a impedirne la rappresentazione: il problema era, e resterà ancora per molto, il personaggio di fra Timoteo. Tra fine Ottocento e primi del Novecento, tuttavia, l’attenzione degli studi enormemente accresciuta intorno a M. e la temperie laicista dello Stato postunitario determinarono le condizioni perché la Mandragola facesse sporadicamente ritorno sulla scena. Ma furono episodi di scarso rilievo. Le cose non potevano certo cambiare in epoca fascista. La commedia si stampava ormai liberamente, ma dopo i Patti lateranensi (1929) e la legge del 6 gennaio 1931, che prevedeva il visto obbligatorio del ministero degli Interni per gli spettacoli teatrali, la censura divenne ancora più rigida. Né il vento cambierà direzione nei primi anni del secondo dopoguerra: la legge fascista del 1931 resterà in piedi anche nell’Italia repubblicana. Nel 1951 la commissione per la censura negava ancora l’autorizzazione a rappresentare la Mandragola. Soltanto nel 1953 Sergio Tofano riuscì a ottenere un’autorizzazione ad personam per portare in scena la commedia. La rappresentazione avvenne al teatro delle Arti di Roma e fu un evento memorabile per la qualità dello spettacolo. Tofano impersonava Nicia, Callimaco fu interpretato da Renzo Giovampietro, Timoteo era Federico Collino, Ligurio Mario Scaccia, Sostrata Ave Ninchi. Il prologo era recitato da Monica Vitti. La regia era di Luciano Lucignani. Furono realizzate 142 repliche solo a Roma. Caratteristica di questa rappresentazione fu il sostanziale rispetto filologico del testo e della scena. Ma sarà solo dopo l’abolizione nel 1962 della legge sulla censura che la Mandragola entrerà liberamente e definitivamente nel repertorio delle compagnie teatrali italiane.
Bibliografia: la prima edizione filologica della Mandragola può essere considerata quella a cura di S. Debenedetti (Strasburgo 1910), condotta sul testo del Centauro. Per la prima volta tiene conto anche del ms. Redi La Mandragola di Niccolò Machiavelli per la prima volta restituita alla sua integrità, a cura di R. Ridolfi, Firenze 1965. Un nuovo testo critico della commedia è pubblicato successivamente in N. Machiavelli, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze 1971, pp. 868-90 (la nota al testo è alle pp. LILVII). Da Ridolfi riprendono il testo le seguenti edizioni commentate: E. Raimondi (Milano 1966) e G. Sasso, G. Inglese (Milano 1980), entrambe con emendamenti; a G. Sasso, G. Inglese si riconnettono con ulteriori aggiustamenti L. Blasucci, A. Casadei (Torino 1989) e A. Stäuble (Firenze 2004). Il testo Martelli è invece adottato in G. Davico Bonino (Torino 1979), G.F. Berardi (Roma 1981), E. Raimondi, G.M. Anselmi (Milano 1984), E. Mazzali (Milano 1995), N. Borsellino, A. Capata (Roma 1996), P. Gibellini, T. Piras (Milano 1997), C. Vivanti (Torino 2005). La quarta edizione novecentesca classificabile come filologica è quella a cura di G. Inglese (Bologna 1997), dichiarata come interpretativa del ms. Redi. Da segnalare infine il testo critico realizzato con criteri diversi da quelli delle edizioni precedenti in P. Stoppelli, La Mandragola: storia e filologia, con l’edizione critica del testo secondo il Laurenziano Redi 129, Roma 2005, che qui si segue. A questo testo si attengono P. Stoppelli (Milano 2006), P. Larivaille (Paris 2008, con traduzione francese a fronte) e D. Fachard (Roma 2013). Combina liberamente lezioni di R e di C l’edizione di R. Rinaldi (Milano 2010).
Fonti da cui si desumono notizie sulle prime rappresentazioni della Mandragola, oltre all’epistolario machiavelliano (Lettere, pp. 362, 411, 413, 415, 417): M. Sanudo, Diarii, a cura di N. Barozzi, G. Berchet, F. Stefani, R. Fulin, 32° vol., Venezia 1891, col. 458; A.F. Doni, I marmi, a cura di E. Chiorboli, Bari 1928, p. 51; G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architetti, a cura di R. Bettarini, P. Barocchi, 5° vol., Firenze 1984, p. 395; P. Giovio, Elogi degli uomini illustri, a cura di F. Minonzio, prefazione di M. Mari, trad. it. di A. Guasparri, Torino 2006, p. 258.
Sul testo e sulla tradizione testuale della commedia si segnalano i seguenti contributi: R. Ridolfi, Studi sulle commedie del Machiavelli, Pisa 1968; G. Inglese, Contributo al testo critico della Mandragola, «Annali dell’Istituto italiano di studi storici», 19791980, 6, pp. 129-73 [a stampa nel 1983]. Sulla data di composizione della commedia: R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787, pp. 532-36; F. Chiappelli, Sulla composizione della Mandragola, «L’approdo letterario», 1965, 32, pp. 79-84; S. Bertelli, When did Machiavelli write Mandragola?, «Renaissance quarterly», 1971, 24, pp. 317-26; M. Martelli, La Mandragola e il suo prologo, in Il teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005, pp. 221-55. Ha edito criticamente il testo degli intermezzi A. Bruni, Gli intermedi della Mandragola, in Il teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005, pp. 367-408.
I giudizi critici espressi da Girolamo Tiraboschi (Storia della letteratura italiana, 7° vol., Napoli 1781, p. 464) e Pierre-Louis Ginguené (Histoire littéraire d’Italie, 6° vol., Paris 1824, pp. 220-37) rappresentano la preistoria della fortuna critica della commedia. La critica moderna della Mandragola nasce nel 1870 con F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, N. Sapegno, 2 voll., Torino 1958, pp. 595-604, ma sarebbe stata soprattutto l’interpretazione crociana (La «commedia» del Rinascimento, 1929) a influenzare il punto di vista novecentesco sulla commedia: ora in B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte, a cura di P. Cudini, Napoli 1991, pp. 221-24. Della prima metà del Novecento restano, ancora oggi acutissime, le pagine dedicate al teatro di M. in L. Russo, Machiavelli, Bari 1945, 19664, pp. 89-165. Tra i saggi critici del secondo Novecento si segnalano: E. Raimondi, Il teatro del Machiavelli (1969), poi rist. con il titolo Il Segretario a teatro, in Id., Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna 1972, pp. 173-233 (ma si vedano anche le pp. 235-64); L. Vanossi, Situazione e sviluppo del teatro machiavelliano, in Lingua e strutture del teatro italiano del Rinascimento: Machiavelli, Ruzzante, Aretino, Guarini, Commedia dell’arte, Padova 1970, pp. 1-108; N. Borsellino, Machiavelli e il teatro (1971), poi in Id., Rozzi e Intronati. Esperienze e forme di teatro dal Decameron al Candelaio, Roma 1976, pp. 325-61; G. Ferroni, «Mutazione» e «riscontro» nel teatro di Machiavelli e altri saggi sulle commedie del Cinquecento, Roma 1972, pp. 19-137; G. Sasso, Considerazioni sulla Mandragola (1980), poi in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 3° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 47-122. Di grande equilibrio e con diverse novità è il profilo storico-critico della commedia che si può leggere in G. Inglese, Per Machiavelli, Roma 2006, pp. 157-74 (già in Letteratura italiana. Le Opere, direzione di A. Asor Rosa, 1° vol., Torino 1992, pp. 1009-31). Sulla cosiddetta interpretazione ‘politica’ della Mandragola il riferimento è a T.A. Sumberg, Mandragola. An interpretation, «The journal of politics», 1961, 23, pp. 320-40, a cui fa seguito con ulteriori precisazioni A. Parronchi, La prima rappresentazione della Mandragola. Il modello per l’apparato. L’allegoria (1962), poi in Id., La prima rappresentazione della Mandragola, Firenze 1995. Spunti critici di natura diversa si hanno inoltre nei seguenti saggi: C.S. Singleton, Machiavelli and the spirit of comedy, «Modern language notes», 1942, 57, pp. 585-92; G. Aquilecchia, «La favola ‘Mandragola’ si chiama» (1971), poi in Id., Schede di italianistica, Torino 1976, pp. 97-126; C. Dionisotti, Appunti sulla Mandragola, «Belfagor», 1984, 39, pp. 62144; A. Sorella, Magia, lingua e commedia nel Machiavelli, Firenze 1990; M. Plaisance, Sur La Mandragola de Niccolò Machiavelli, «Il castello di Elsinore», 1996, 9, 26, pp. 27-35; P. Larivaille, La Mandragola e le regole della commedia antica, «P.R.I.S.M.I.», 2000, 3, pp. 105-17, nr. monografico: La Renaissance italienne. Images et relectures. Mélanges à la mémoire de Françoise Glénisson-Delannée; G.M. Anselmi, Partitura della Mandragola, in Il teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005, pp. 257-68; L. Bottoni, La messa in scena del Rinascimento, 2° vol., Il segreto del diavolo e La Mandragola, Milano 2006. Sulla scena finale della Mandragola: P. Baldan, Complemento o sberleffo a chiudere la Mandragola, «Italianistica», 1994, 23, pp. 71-80. Ma si distinguono su quest’ultimo argomento per l’acutezza delle intuizioni due saggi di D. Perocco: Il rito finale della Mandragola, «Lettere italiane», 1973, 25, pp. 531-37, e Alla ricerca del frutto proibito: la Mandragola di Machiavelli, in La maschera e il volto. Il teatro in Italia, a cura di F. Bruni, Venezia 2002, pp. 39-50.
Sulla collocazione della Mandragola nel quadro del teatro comico rinascimentale resta importante M. Baratto, La commedia del Cinquecento, Vicenza 1975. Sul rapporto della Mandragola con le commedie di Ariosto e la Calandra del Bibbiena: G. Padoan, Il tramonto di Machiavelli, «Lettere italiane», 1981, 33, pp. 457-81. Sul rapporto con la commedia fiorentina: F. Bausi, Machiavelli e la commedia fiorentina di primo Cinquecento, in Il teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005, pp. 1-20. Sulla presenza della Mandragola nelle successive commedie fiorentine: M.C. Figorilli, La presenza del teatro di Machiavelli in alcune commedie fiorentine degli anni Trenta e Cinquanta del Cinquecento, in Il teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005, pp. 501-26. Per il rapporto della Mandragola con la novellistica, e soprattutto con il Decameron: G. Bardin, Machiavelli reads Boccaccio: Mandragola between Decameron and Corbaccio, «Italian quarterly», 2001, 38, pp. 5-21; M. Picone, Struttura della Mandragola, «Rassegna europea di letteratura italiana», 2002, 19, pp. 103-16. La presenza nella Mandragola del Novellino di Masuccio Salernitano è indagata in M. Bendinelli Predelli, Madonna Lucrezia fra Masuccio e Niccolò, «Letteratura italiana antica», 2003, 4, pp. 447-64. Sull’esistenza di spunti riconducibili alla sacra rappresentazione: A.A. Triolo, Machiavelli’s Mandragola and the sacred, «Arte lombarda», 1994, 3-4, pp. 173-77; N. Newbigin, Pirandello, Machiavelli and their «Donne di virtù», «Pirandello studies», 2008, 28, pp. 48-67.
Osservazioni sui personaggi della commedia si riscontrano in tutti gli studi critici. Tra questi si segnalano in maniera specifica, per Lucrezia: M.J. Flaumenhaft, The comic remedy: Machiavelli’s Mandragola, «Interpretation. A journal of political philosophy», 1978, 7, 1, pp. 33-74; P. Roselli, Nota sul personaggio Lucrezia nella Mandragola di Niccolò Machiavelli, «Studi italiani in Finlandia», 1981, pp. 83-87; R.L. Martinez, The pharmacy of Machiavelli: Roman Lucretia in Mandragola, «Renaissance drama», 1983, 14, pp. 1-43; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 3° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 140-50, e 4° vol., Milano-Napoli 1997, pp. 299-321; per fra Timoteo: A.M. Cabrini, Fra’ Timoteo, in Il teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005, pp. 291-307; per Ligurio: G. Coluccia, Ligurio o dell’intelligenza, in Il teatro di Machiavelli, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005, pp. 309-36. Una singolare rivalutazione del personaggio di Nicia è in R. Alonge, Quella diabolica coppia di Messer Nicia e di Madonna Lucrezia, in La lingua e le lingue di Machiavelli, Atti del Convegno internazionale di studi, Torino 2-4 dic. 1999, a cura di A. Pontremoli, Firenze 2001, pp. 241-62. Sulla caratterizzazione retorica di taluni personaggi: A. Stäuble, Dalla retorica di Timoteo alla retorica di Lucrezia, «P.R.I.S.M.I.», 2000, 3, pp. 97-104, nr. monografico: La Renaissance italienne. Images et relectures. Mélanges à la mémoire de Françoise Glénisson-Delannée.
Sulla lingua di M. ‘comico’ restano fondamentali, entrambi di F. Chiappelli, Considerazioni di linguaggio e di stile sul testo della Mandragola, «Giornale storico della letteratura italiana», 1969, 146, pp. 252-59, e Nuovi studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze 1969. Osservazioni interessanti anche in: P. Trovato, Il primo Cinquecento, Bologna 1994, pp. 305-13; M. Martelli, Machiavelli e Firenze dalla Repubblica al Principato, in Niccolò Machiavelli politico storico letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 sett. 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996, in partic. pp. 27-30; F. Franceschini, Lingua e stile nelle opere in prosa di Niccolò Machiavelli, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ott. 1997, Roma 1998, pp. 367-92; C. Scavuzzo, Machiavelli. Storia linguistica italiana, Roma 2003, pp. 73126; P.V. Mengaldo, Attraverso la prosa italiana. Analisi di testi esemplari, Roma 2008, pp. 60-73.