Figlio naturale (n. 1232 - m. Benevento 1266) dell'imperatore Federico II e di Bianca Lancia, poi legittimato. Alla morte di Federico (1250) divenne reggente per l'imperatore Corrado IV (1228-1254), suo fratellastro; nel 1258 scavalcò i diritti del nipote Corradino e si fece incoronare a Palermo. Cercò di creare un sistema di alleanze contro il papato, ma nel 1263 Urbano IV offrì il regno degli Svevi a Carlo d'Angiò, che sconfisse e uccise M. a Benevento.
Alla morte del padre (1250), fu reggente per il fratellastro Corrado IV allora in Germania, osteggiato da papa Innocenzo IV e da una parte della feudalità del regno, e specialmente da Pietro Ruffo, vicario in Calabria e Sicilia. Morto Corrado IV (1254) lasciando la tutela del fanciullo Corradino al tedesco Bertoldo di Hohenburg, M. tentò di ottenere il riconoscimento di Corradino, e con ciò della propria posizione, da parte del papa. Di fronte all'ostilità di questo, si piegò dapprima ad accordi, accettando, con riserva dei diritti di Corradino, l'ufficio di vicario per la Chiesa in Basilicata e in Puglia. Ma poi, riparato a Lucera (1254), dove poté disporre del tesoro degli Svevi e ottenere il sostegno delle truppe saracene che vi erano state stanziate da Federico II, in una guerra di tre anni riacquistò contro il legato pontificio tutto il regno, e, diffusa ad arte la voce della morte di Corradino, si fece incoronare re a Palermo (1258). Riprendendo la politica degli Svevi in Italia, si procurò dovunque aderenti inserendosi nelle lotte delle fazioni cittadine; la vittoria di Montaperti sui guelfi toscani (1260) segnò il culmine della sua fortuna. Ma la vasta trama tessuta contro di lui dalla Chiesa si concretò con l'offerta del regno a Carlo d'Angiò (1263); il quale, ottenuti finalmente gli aiuti dei banchieri toscani, poté entrare in Roma, invano sollecitata nel suo orgoglio imperiale da M. (1265). Questi, abbandonato via via dai suoi alleati, affrontò l'Angioino a Benevento (1266); sconfitto, morì sul campo. Il cadavere fu sepolto presso un ponte, poi fatto disseppellire e disperdere dall'arcivescovo di Cosenza. La sua figura e la sua fine sono stupendamente rievocate da Dante, Purg. III. Bello, cavalleresco, amante della musica, poeta, il suo sogno ambizioso, che parve per un momento comprendere la corona imperiale, finì travolto dalle forze che egli troppo a lungo si era illuso di poter irretire con il suo gioco complesso di compromessi e di precarie alleanze.
Protettore, come il padre, di scienziati e poeti, fece tradurre dall'arabo e dal greco trattati filosofici, fece aggiunte al trattato De arte venandi cum avibus, che il padre gli aveva dedicato, tradusse dall'ebraico il De pomo sive de morte Aristotelis (premettendogli un prologo), poetò in volgare (ci resta una canzone).