FANTI, Manfredo
Nato a Carpi (od. provincia di Modena) il 23 febbr. 1806 da Antonio e Silea Carbolani, nel 1825 fu ammesso alla Scuola dei cadetti pionieri di Modena, e conseguì nel 1830 la laurea in matematica con il diritto di esercitare la professione d'ingegnere. Coinvolto nel tentativo insurrezionale organizzato da Ciro Menotti, venne arrestato e poi, in seguito all'estendersi della rivolta e all'intervento austriaco, costretto all'esilio.
Approdato in Francia, grazie al celebre astronomo D. J. F. Arago fu assunto come ufficiale ausiliario del genio ai lavori di fortificazione di Lione. Nei tre anni trascorsi oltralpe si interessò d'ingegneria militare, di organica e di tattica di guerra, argomenti sui quali compilò brevi manuali di sintesi di opere italiane e francesi. Si legò alla Giovine Italia di Mazzini, ma la sua attività cospirativa non è molto conosciuta: non è sicura, per esempio, la sua partecipazione al tentativo di spedizione in Savoia organizzato nel 1834. L'esito fallimentare della spedizione influì comunque sulla sua decisione di lasciare la Francia per la Spagna, dove intendeva unirsi alle forze liberali e costituzionali, legate alla reggente Maria Cristina, che combattevano contro la fazione carlista del fratello del defunto Ferdinando VII.
Giunto a Barcellona nel luglio del '35, stentò ad inserirsi. Si impegnò nello studio di possibili fortificazioni dei dintorni della città catalana e quando i suoi piani giunsero al ministero della Guerra cristino, venne contattato per lavorare in quel settore. Col grado di tenente entrò nel V battaglione franco di Catalogna, assumendo di fatto la direzione dei lavori di fortificazione di El Bruch. Si distinse anche al comando delle truppe in battaglia, guadagnandosi la croce di S. Ferdinando. Nel maggio del '36 venne aggregato al corpo dei Cacciatori di Oporto, in cui già operavano i fratelli Giovanni e Giacomo Durando, Giacomo Medici, Enrico Cialdini e Nicola Fabrizi. Per due anni, diventato capitano, affinò le sue capacità di comandante. Le qualità dimostrate indussero i dirigenti dell'esercito cristino a proporgli il passaggio alle forze regolari, proposta che il F. accettò nonostante la retrocessione al grado di sottotenente. Inquadrato nel 60 reggimento di fanteria, venne aggregato al quartier generale dell'esercito del Centro.
Nei tre anni successivi, dall'agosto del 38 al settembre del '41, la sua carriera procedette rapida sino al grado di capitano. Ancor più rapida sarà l'ascesa nella scala gerarchica tra il '41 e il '47. Era primo comandante dello stato maggiore nel 1 46, colonnello di cavalleria il 23 ott. 1847. Agli inizi del 1848 ricopriva le funzioni di capo di stato maggiore della capitaneria di Madrid e reprimeva con successo l'insurrezione repubblicana contro il governo reale.
Il periodo spagnolo risultò determinante non soltanto per la formazione militare del F., ma anche per l'evoluzione delle sue idee politiche. Legato a C. Menotti e alla carboneria modenese nel '31, a Mazzini nel '33, in Spagna consolidò i rapporti col Fabrizi e partecipò alla vita di quella Legione italica che il futuro comandante garibaldino fondava nel 1837 a Malta. Convinto assertore delle idee d'indipendenza e di unità nazionale, negli anni '30 il F. fu favorevole all'organizzazione di movimenti insurrezionali in Italia. Sulla fine del decennio si mostrò però contrariato dalle diatribe che dividevano i gruppi degli esuli e la sua stessa fede sembrò farsi meno entusiastica. In una lettera a Fabrizi del novembre 1841 confessava di essersi convinto della necessità del "progresso con ordine" (cfr. Spaggiari, p. 65). Lentamente, forse in virtù delle sue scelte di vita e dell'esperienza vissuta in Spagna, egli giunse ad una visione moderata del processo di unificazione italiana, tagliando i ponti con le idee insurrezionali e repubblicane. Chiamato a Milano da Mazzini, nel maggio del 1848, il F., accettando l'invito, precisava di voler lavorare per l'unità e l'indipendenza, per un'Italia "non retta despoticamente", ma di non voler parteggiare "per una forma o un'altra di governo".
Ottenuta dal ministero della Guerra spagnolo una speciale licenza, il F. giunse a Milano nel 1848 nel mezzo della guerra austro-piemontese. L'accoglienza dell'ambiente italiano fu alquanto fredda. Mentre i democratici si interrogavano sui suoi orientamenti, i circoli politici ufficiali piemontesi diffidavano del suo passato mazziniano. Tra gli stessi militari dell'esercito sardo si nutriva un forte antagonismo per gli alti ufficiali con una formazione irregolare che, come lui, tornavano dall'esilio. Dopo un mese di attesa, nel luglio, il F., nominato maggiore generale, ottenne il comando di una brigata e, pochi giorni dopo, assunse la responsabilità della difesa di Milano. La rapidità degli eventi, con la ritirata di Carlo Alberto e con la firma dell'armistizio il 9 agosto, gli impedirono di attuare quei piani che aveva prontamente stilato.
Dopo l'armistizio il F., che aveva seguito la ritirata piemontese, venne incaricato di riordinare le truppe volontarie lombarde. Il buon lavoro svolto gli valse il passaggio con lo stesso grado nell'esercito regolare e la nomina a membro effettivo del Consiglio permanente di guerra. All'inizio del '49 venne anche eletto deputato al Parlamento subalpino per il collegio di Nizza.
Alla ripresa delle ostilità contro l'Austria, il 17 marzo 1849, comandò una brigata della divisione lombarda comandata dal generale G. Ramorino. Gli errori commessi nei primi giorni di guerra dal comando generale piemontese e la successiva sconfitta di Novara del 24 marzo portarono l'esercito ad una situazione caotica. Il 20 il F. aveva sostituito il Ramorino che nei giorni precedenti non aveva ottemperato agli ordini ricevuti ed era stato richiamato nella capitale. Senza informazioni e senza istruzioni, il 23 marzo decise di marciare su Alessandria ritenendola in pericolo. Contestato dal comandante della sua cavalleria A. Negri di Sanfront, che lo accusava di fuggire di fronte al nemico, il F. raggiunse la città il 28 e apprese sia della sconfitta di Novara sia l'ordine di condurre le sue truppe tra Voghera e Tortona. Dava quindi inizio a una faticosa marcia che fu turbata dalle notizie dell'insurrezione di Genova e dall'appello rivolto dagli insorti ai volontari lombardi perché raggiungessero la città. Tra mille difficoltà riuscì a mantenere un minimo di coesione tra i reparti, conducendo la divisione prima a Bobbio, come aveva concordato con il ministro della Guerra, poi a Chiavari ritenuta più idonea per lo scioglimento delle truppe.
Giudicata oggi favorevolmente in sede storiografica, l'azione del F. fu sottoposta dai suoi contemporanei ad aspre critiche. L'ostilità degli ambienti militari piemontesi gli costò, sulla base delle accuse del Sanfront, il deferimento ad una commissione d'inchiesta, e in seguito al Consiglio di guerra per aver "facilitato l'azione del nemico". Assolto con una formula ambigua rimase ai margini dell'esercito, volutamente ignorato dal ministero che lo aveva posto in disponibilità.
La guerra di Crimea del 1855 venne a interrompere il suo isolamento. Interpellato da A. Ferrero di La Marmora, organizzatore del corpo di spedizione sardo, accettò la guida di una brigata della divisione Durando. La campagna di guerra costituì un impegno relativo per le truppe piemontesi, ma il F. riuscì ugualmente a sfruttare il suo momento, conquistando la fiducia dei circoli militari e ottenendo al ritorno il comando della brigata "Aosta". Il triennio successivo lo vide salire nella considerazione del ministero della Guerra e della corte. Non a caso nel gennaio 1859, nell'imminenza del nuovo conflitto con l'Austria così abilmente preparato dalla diplomazia di Cavour, per regia determinazione il F. assumeva il comando delle forze stanziate tra Tortona e Voghera. Il 12 marzo veniva nominato luogotenente generale e comandante di una delle cinque divisioni dell'esercito piemontese.
Dopo l'armistizio di Villafranca, le conseguenti dimissioni del Cavour e la nomina del La Marmora alla guida del governo, divenne comandante in capo dell'esercito; ben presto però, il 29 ag. 1859, si trasferì a Modena per organizzare le truppe delle province centrali insorte nell'aprile.
L'armistizio aveva colto impreparati i governi provvisori, lasciandoli in una situazione precaria di fronte al probabile intervento restauratore austriaco. L'esigenza di tutelarsi militarmente aveva quindi consigliato ai comitati della Toscana e della Romagna, di Bologna e di Modena la costituzione di una Lega e il coordinamento delle rispettive forze militari. Su proposta di M. Minghetti e di L. C. Farini la scelta del responsabile del costituendo esercito cadde sul F., il quale, ricevute assicurazioni sulla sua eventuale riassunzione nei ruoli sardi, raggiungeva la città dei suoi studi per dedicarsi al nuovo compito.
Si preoccupò innanzitutto di varare provvedimenti (reclutamento e ordinamento) che predisponessero l'esercito della Lega ad una celere integrazione in quello piemontese. Nonostante la carenza di ufficiali (il F. dispose anche l'apertura di una scuola militare a Modena), tale da costringerlo a ricorrere alla promozione di numerosi sottufficiali provenienti dal Regno di Sardegna, in pochi mesi riusciva ad approntare una forza di quasi 50.000 uomini con una sufficiente affidabilità.
Tra l'arrivo a Modena e il gennaio dell'anno successivo il F. si trovò a svolgere anche un ruolo più spiccatamente politico. Al momento dell'assunzione dell'incarico della Lega egli aveva nominato come vicecomandante il generale Garibaldi, il quale, per designazione del dittatore toscano B. Ricasoli, era stato in predicato di assumere il comando. Diverse concezioni politiche e diversi orientamenti sull'impiego dell'esercito in via di costituzione si frapponevano fra i due. Mentre il F. si muoveva nell'ottica dell'integrazione al Piemonte, Garibaldi puntava a raccogliere più forze possibili per suscitare movimenti insurrezionali nelle Marche e preparare una spedizione nello Stato pontificio. Appoggiato dal Farini e dal governo sardo, il F. si adoperava per frenare le intenzioni di Garibaldi e, precludendo l'ingresso nei ruoli dell'esercito ai volontari e agli ufficiali garibaldini, provocava ed otteneva il 16 novembre le dimissioni del nizzardo. In quei frangenti egli impersonava appieno l'ala moderato-monarchica del movimento per l'unità, quell'ala diffidente verso ogni iniziativa estranea alla direzione piemontese e regia.
Chiamato da Cavour nei primi giorni del 1860 al portafoglio della Guerra, con una designazione condivisa dal re, il F., cumulando il dicastero sardo con il comando dell'esercito della Lega, si poneva all'opera per organizzare il nuovo esercito dell'Italia settentrionale che, unificate le due strutture col r.d. del 25 marzo 1860, contava su 190.000 uomini.
La nuova fase della lotta unitaria aperta nel maggio dalla spedizione di Garibaldi nel Sud costringeva i dirigenti piemontesi, militari e politici, a riprendere l'iniziativa. Fu così preparata diplomaticamente e militarmente la spedizione nelle Marche e nell'Umbria, voluta da Cavour per annettere nuovi territori, per consolidare l'impresa garibaldina e per togliere l'iniziativa politica ai democratici che vivevano un momento di grande fervore. Al ministro spettava il comando dell'esercito, che l'11 sett. 1860 varcava i confini pontifici. Già alla fine del mese la resistenza delle truppe papaline era stata debellata e, dopo un consulto tra Cavour, il re e il F. l'esercito iniziava la discesa verso Napoli. La vicenda militare in sé era virtualmente conclusa, ma per il F., tornato al ministero della Guerra, si prospettava il difficile compito di assimilare le forze borboniche al nascente esercito italiano e di trovare una soluzione per quello volontario.
Per l'esercito borbonico il ministro decise di mantenere in servizio solo poche classi di leva, concedendo agli ufficiali il passaggio ai nuovi ruoli dopo aver conseguito il giudizio d'idoneità di una apposita commissione mista borbonico-piemontese. Contemporaneamente estendeva alla Sicilia il servizio di leva obbligatorio, suscitandovi non poche proteste.
Rispetto all'esercito volontario del Sud le procedure furono meno rapide e meno indolori. I volontari esprimevano il desiderio di trasformarsi in un regolare corpo d'armata, gli ufficiali chiedevano di mantenere il grado conquistato nel corso della campagna. A queste richieste, verso le quali mostravano benevolenza sia il re sia Cavour, si opponeva duramente il F. che univa a considerazioni politiche generali (il rischio che l'Austria ritenesse quel corpo una minaccia) argomenti più specifici quali l'eccessivo numero di ufficiali, l'incapacità dei volontari di adattarsi alla vita di caserma, la mancanza per ufficiali e truppe di una solida preparazione militare.
Esprimeva così il punto di vista più chiuso e retrivo dell'ufficialità piemontese o "piemontesizzata", riuscendo dopo un drammatico braccio di ferro e dopo aver minacciato le dimissioni, a far prevalere la sua linea di condotta. Nel novembre 1860 veniva quindi emanato il decreto di scioglimento dell'esercito meridionale e si permetteva ai volontari di optare tra due anni di arruolamento in un corpo regolare o il congedo con il premio di sei mesi di stipendio. Gli ufficiali avevano facoltà di rimanere a condizione di sottoporsi al giudizio dell'apposita commissione di scrutinio presieduta dal generale E. Della Rocca. Una speciale direzione del ministero, diretta dal colonnello conte Genova Giovanni Thaon di Revel, si assumeva il compito di vagliare la regolarità dei documenti dei volontari. Fu soprattutto questa direzione ad applicare severamente le norme e ad interpretare sino in fondo la volontà di chiusura espressa dal F.: globalmente solo 200 soldati su 50.000 approdarono all'esercito italiano e solo 1.700 ufficiali circa su 7.300 riuscirono a passare il giudizio d'idoneità.
Dopo lo scioglimento dell'esercito meridionale il F. approntava il nuovo ordinamento dell'esercito italiano. Emanato il 24 genn. 1861, si basava su 20 divisioni e 10 corpi d'armata e differiva in molte parti da quello sardo del La Marmora. I reggimenti ad esempio, non erano più su 4 ma su 3 battaglioni divisi in 6 compagnie. Rispetto al precedente riuniva lo stesso numero di soldati in 8 reggimenti anziché in 9, risparmiando, in un momento di carenza, un certo numero di ufficiali superiori.
Sia per l'ordinamento sia per le vicende dell'esercito garibaldino, l'operato del F. venne a più riprese violentemente criticato. Alla Camera dovette difendersi dagli attacchi di Garibaldi e della Sinistra, che propugnavano la formazione del Corpo volontari italiani, e da quelli del La Marmora che contestava l'organizzazione dell'esercito. In ambedue i casi fu Cavour a difendere il ministro, salvandolo da gravi insuccessi parlamentari. È comprensibile quindi che alla morte di Cavour il F., privato del suo riferimento politico, rassegnasse il 12 giugno 1861 le proprie dimissioni.
La fuoruscita dal governo lo relegò ai margini della vita politica del nuovo Stato. Da senatore - era stato nominato il 29 febbr. 1860 - dovette assistere al ritorno all'ordinamento sardo del '52. Con opuscoli, con gli interventi in Senato, tentò di combattere gli orientamenti dei ministri A. Della Rovere e A. Petitti Bagliani, fedeli del La Marmora, ma la grave malattia polmonare che lo aveva colpito lo costrinse ad una vita sempre più riservata. Proprio la malattia lo indusse nel 1863 a rifiutare l'incarico di aiutante di campo del principe Umberto.
Dopo brevi soggiorni in Francia e in Egitto, morì a Firenze il 5 apr. 1865.
Tra gli scritti del F., la maggior parte ovviamente d'interesse militare, ricordiamo: Processo e giustificazione del generale Fanti con note sulle lombarde in Piemonte, Torino 1850; Relazione sulla campagna di guerra nell'Umbria e nelle Marche, ibid. 1860; Osservazioni dirette al Senato del Regno sul bilancio passivo della Guerra pel 1863 dal senatore del Regno, generale d'armata M. Fanti, Firenze 1862; Come riordinare la fanteria, ibid. 1863; Nuove osservazioni sull'ordinamento dell'esercito italiano, ibid. 1863.
Bibl.: L'iter ideologico, le vicende attraversate, i posti decisionali ricoperti fanno del F. un protagonista del quadro politico-militare del Risorgimento. Ci limitiamo alle opere principali che lo riguardano. Tra le biografie: F. Carandini, M. F., Verona 1872; M. Cristoforo, M. F., Roma 1893; L. Calori Cesis, M. F. nella storia del Risorgimento, Modena 1901. Più recente, a dimostrazione del rinnovato interesse, è l'opera di F. Bogliari-C. Traversi, M. F., Roma 1980. Nel campo dei repertori biografici l'unico di un certo rilievo è A. Moscati, I ministri del Regno d'Italia, I, Dalle annessioni ad Aspromonte, Napoli 1955, pp. 21-44. Sul periodo spagnolo: E. Spaggiari, M. F. e la Spagna, Modena 1965. Sulle vicende del 1848-49: G. Sforza, Il generale M. F. in Liguria e lo scioglimento della divisione lombarda, Milano 1911. Per ciò che riguarda l'esercito della Lega delle Provincie Unite, vedi L. Rava, F., Garibaldi e L. C. Farini, in La Nuova Antologia, il sett. 1903, pp. 129-48; I. Nazari Micheli, F., Medici e Garibaldi. Documenti inediti per la storia dell'esercito della Lega dell'Italia centrale, Roma 1913; un capitolo dedicato all'opera del F. si trova nell'opera più recente di E. Righi, Sulla via dell'unificazione. La Lega militare (1859-60), Bologna 1955, pp. 91-131. Più in generale sull'attività politica e militare del F. cfr.: P. Pieri, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Torino 1962, p. 151 e passim; F. Molfese, Ilbrigantaggio dopo l'Unità, Milano 1966, p. 23 e passim; G. Rochat-G. Massobrio, Breve storia dell'esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino 1978, pp. 9, 20, 25, 30, 45; J. Whittam, Storia dell'esercito italiano, Milano 1979, pp. 9, 12, 67, 77, 84 ss., 88-91, 100.