Manhattan
(USA 1979, bianco e nero, 96m); regia: Woody Allen; produzione: Jack Rollins, Charles H. Joffe per United Artists; sceneggiatura: Woody Allen, Marshall Brickman; fotografia: Gordon Willis; montaggio: Susan E. Morse; scenografia: Mel Bourne; costumi: Albert Wolsky.
Isaac Davis, quarantadue anni, sceneggiatore televisivo di successo, caustico osservatore dell'élite intellettuale newyorchese (alla quale lui stesso appartiene, anche se la considera una specie detestabile), vive una situazione sentimentale molto confusa: ha alle spalle due matrimoni falliti e si è appena separato da Jill, che ora vive con l'amica Connie e si appresta a scrivere un libro compromettente sull'ex marito. Tenta di colmare il vuoto convivendo con la diciassettenne Tracy, un'adolescente che guarda con paterna sufficienza per la sua giovane età, ma per la quale nutre un affetto profondo. Tocca a Yale, professore universitario amico di sempre, presentargli Mary Wilkie, sua amante in carica, una giornalista e intellettuale della peggior razza che non si sente a suo agio con un uomo già sposato e che allo stesso tempo è attratta dal fascino di Isaac. I due non tardano a simpatizzare e a finire a letto insieme, ma nemmeno questa unione è destinata a durare: dopo qualche tempo, Mary torna da Yale, che s'è infine risolto a rompere il matrimonio per lei. Nel frattempo Isaac ha cercato in tutti i modi di staccarsi da Tracy, l'ha spinta a recarsi a Londra per un corso di recitazione e le ha detto che tra loro è finita. Quando, pentito, attraversa di corsa la città per fermarla, scopre che è già troppo tardi: la ragazza, ormai in partenza per l'Europa, ha acquistato coscienza, e stavolta è lei a convincere lui che bisogna avere pazienza, e "fiducia nella gente". New York, nella mente di Isaac, assume intanto dei connotati quasi metafisici: è la città dei suoi sogni, una metropoli che non può permettersi di vivere a colori come tutte le altre ma deve distinguersi in un sublime bianco e nero, e che risuona delle melodie suadenti di George Gershwin, fino all'autentico tripudio della Rhapsody in Blue.
La tradizione del racconto della metropoli ha radici profonde nel cinema, a cominciare dalla lezione espressionista di Berlin. Die Sinfonie der Grossstadt Walter Ruttmann 1927, che Woody Allen certo conosce e apprezza. Ma alle prese con questo film, da molti considerato il capolavoro del regista newyorchese, si ha l'impressione che un passo ulteriore venga compiuto: "Manhattan" è stato scritto "è l'opera di tutte le opere, saggio e commedia, romanzo e cinema, dramma e geniale futilità". Ed è proprio l'idea della leggerezza, un poco nel senso delle Lezioni americane di Italo Calvino, a restare impressa nella memoria con il geniale mescolarsi di gradi 'alti' e 'bassi' della cultura e della vita, miscelati e serviti con la nonchalance del clarinettista jazz che improvvisa su una geometrica partitura e coglie sempre tonalità inedite rivisitando il suo spartito.
Il tessuto narrativo immaginato da Allen ha i caratteri della ronde e il gusto degli equivoci di Marivaux; ma scopre la sua progettata pretestuosità nel momento in cui a ogni inquadratura la macchina da presa abbandona volentieri i suoi personaggi per soffermarsi sui dettagli e sugli sfondi, quasi a comporre un'emozione fatta di suggestioni sonore e visive che vengono prima e resistono ad oltranza rispetto alle avventure sentimentali degli uomini e delle donne di Manhattan. La sceneggiatura si dipana su stereotipi perseguiti con sottile ironia, fin dallo scambio di situazioni rispetto a film precedenti (Play It Again, Sam ‒ Provaci ancora, Sam, Herbert Ross 1972, Annie Hall ‒ Io e Annie, 1977) cui prestavano volto i medesimi attori. In questo costante sfuggire all'attesa pur confermandone in modo complice i presupposti (il protagonista nevrotico, la futilità del tradimento, il complesso edipico, lo scambio delle coppie e via citando), Allen ci conduce per mano in un territorio vergine. Sicché, come spesso si è detto, a trionfare è un personaggio inatteso, ovvero una città che è l'autentica proiezione del regista.
Punto di snodo per una poetica d'autore che sta lasciando il porto sicuro della commedia brillante per privilegiare una riflessione sull'inconscio filtrata dalla ricerca delle ragioni del vivere (il celebre monologo che prelude allo scioglimento finale), questo film è la cosa più simile a un quadro astratto che il cinema americano abbia mai concepito. La leggerezza viene raggiunta attraverso il setaccio dei modelli espressivi, fino a ottenere un'equivalenza tra il pulsare della vita nel territorio metropolitano e il caos emotivo dell'individuo che si riassume nel grande punto interrogativo retorico che Allen finge di voler ipostatizzare. Le storie di coppia e di solitudine diventano piccolo teatro dei sentimenti, dagli stereotipi di comportamento si sale al confronto tra l'infinitamente piccolo degli individui e l'infinitamente grande degli spazi, dai luoghi ci si astrae confrontandoli con le emozioni inconsce e i pensieri universali. E alla fine ciò che resta è l'abbacinante bianco e nero delle cose e il colore intenso dei suoni, le sfumature sempre cangianti della rapsodia gershwiniana.
Premiato in tutto il mondo, ma candidato a due soli Oscar (senza peraltro vincerne alcuno), Manhattan consacra l'idea di Allen come cineasta 'europeo': i risultati commerciali non sono quelli attesi dalla United Artists, che aveva scommesso su un nuovo successo comico senza prevedere la deriva autoriale del regista, ma la critica lo percepisce immediatamente come un capolavoro. Ed è soprattutto il pubblico europeo a tributare un'ovazione al film concettualmente più 'americano' dell'ebreo newyorchese. Forse perché l'immaginario di Manhattan risulta ben più familiare a un abitante di una qualsiasi metropoli occidentale che a un farmer del profondo West, a un conoscitore del jazz e della sua evoluzione colta (Gershwin) piuttosto che a un fan della musica country. Questo slittamento della percezione rischia però di passare il film attraverso una lente deformante, conferendogli valori diversi da quelli per cui era stato concepito. Perché, in fin dei conti, resta prima di tutto un'improvvisazione jazz su un atto d'amore per le madeleines dei ricordi individuali, una nostalgia della 'casa' che diviene memoria collettiva.
Interpreti e personaggi: Woody Allen (Isaac Davis), Diane Keaton (Mary Wilkie), Mariel Hemingway (Tracy), Michael Murphy (Yale), Meryl Streep (Jill), Anne Byrne Hoffman (Emily), Karen Ludwig (Connie), Michael O'Donoghue (Dennis), Helen Hanft, Tisa Farrow, Victor Truro (invitati), Bella Abzug (ospite d'onore), Charles Levin, Karen Allen, David Rasche (attori), Kenny Vance (produttore televisivo), Gary Weis (regista televisivo), Damion Sheller (Willie Davis), Wallace Shawn (Jeremiah), Mark Linn-Baker, Frances Conroy, Bill Anthony, John Doumanian, Raymond Serra, Sigourney Weaver.
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Sceneggiatura: in W. Allen, Four films of Woody Allen, New York 1980 (trad. it. Milano 1982)