Mani
Fondatore del manicheismo (Mardinu o Afrunya, Mesopotamia, 216-Gundeshahpuhr 277). Figlio di Patek, imparentato con la famiglia allora regnante in Persia, e di Maria, proveniente da famiglia nobile; sebbene nato in Mesopotamia, fu di sangue iranico e di stirpe aristocratica. Da suo padre, seguace di una setta rigorista, M. fu indotto assai presto a occuparsi di problemi religiosi e nel suo paese natio, vero crocevia delle più diverse fedi, dal cristianesimo al buddhismo, venne a conoscere quei vari elementi che dovevano confluire a formare il manicheismo. Questo era già tracciato nelle sue linee fondamentali, quando (242 ca.) M. fece un viaggio in India, per diffondere la sua religione o per sfuggire a qualche persecuzione. Si recò poi alla capitale della dinastia sassanide Gundeshahpuhr, dove fu benevolmente accolto dal re Shahpuhr I, che permise a M. la libera predicazione della sua dottrina. Gli anni successivi, a noi poco noti, furono occupati da una intensa opera di proselitismo in tutto l’impero persiano e poi in Egitto, e dalla composizione delle numerose opere con le quali M. intendeva salvare la sua religione da scismi, eresie e fraintendimenti. Dopo la morte di Shahpuhr I (273), e di suo figlio Hormizd (274), M., pur trovandosi in contrasto con re Bahram I, continuò la sua attività missionaria, apertamente contraria alla religione dello Stato, la mazdea; fu allora imprigionato e torturato e morì di sofferenze. Delle opere ricordiamo: lo Shahpuhragan, scritto per il re Shahpuhr, l’Evangelo vivente, che era accompagnato da illustrazioni, il Tesoro della vita, la Pragmateia, che sembra da identificare con la Epistula fundamenti contro cui polemizza s. Agostino, il libro dei Misteri, il libro dei Giganti e le lettere. Tranne la prima opera scritta in persiano, le altre furono scritte in siriaco o in arameo orientale. Non autentici, ma importanti, i Kephalaia, scritti in copto, scoperti in Egitto nel 1935 con altri testi manichei.