Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Direttamente mutuata dalla critica d’arte, la nozione di manierismo indica una serie cospicua di testi letterari che mostrano un rapporto complesso con il classicismo, tra mimesi e variazione. Decisamente polemico nei confronti del canone dell’imitazione risulta invece l’anticlassicismo che deforma la tradizione a livello del comico.
Nel XVI secolo il termine “maniera” – che deriva dal francese antico “manière”, usato per indicare sia il modo di comportarsi in società, sia le categorie sociali caratterizzate da particolari tipi di comportamento – ha un’accezione positiva e una negativa. Nell’uso del Vasari la “maniera” indica principalmente lo stile di un artista e in particolare la capacità di alcuni pittori di combinare insieme singoli elementi di bellezza; ma nel Cinquecento il termine designa anche atteggiamenti eccessivamente studiati e cerimoniosi. In questo significato di “affettazione” il termine si diffonde nel Seicento e alla fine del XVIII secolo il manierismo definisce gran parte dell’arte del secondo Cinquecento, giudicata come deformazione dell’arte classica del Rinascimento.
Solo negli anni Venti del Novecento alcuni studiosi di storia dell’arte, in primo luogo l’ungherese Max Dvorák, hanno applicato la parola “manierismo” a una diversa interpretazione delle tendenze artistiche sviluppatesi a partire dal 1520-1530, rinvenendo nella loro apparente artificiosità i segni di una crisi spirituale e di una nuova sensibilità: il carattere soggettivistico della “maniera” non appare più un fenomeno di decadenza, ma indica il ridestarsi della fantasia individuale e creatrice in antitesi alle norme classiche. Nelle arti figurative i massimi esponenti di tale tendenza sono Michelangelo, Tintoretto e soprattutto El Greco; in ambito letterario Tasso, Rabelais, Shakespeare e Cervantes.
L’ipotesi di Dvorák viene raccolta anche da altri studiosi, tra cui Arnold Hauser, che definisce il manierismo come l’espressione artistica della crisi politica, economica e intellettuale che investe l’Occidente nel Cinquecento, e la prima manifestazione dell’arte moderna, caratterizzata dalla separazione tra reale e ideale e rappresentata in modo suggestivo dalla figura insieme ridicola e sublime di don Chisciotte.
Per Hauser, inoltre, il manierismo è intellettualistico e aristocratico, diversamente dal barocco che mostra una tendenza sensuale e popolare. La letteratura manieristica tenderebbe a circolare solo all’interno di ambienti ristretti, fra i letterati, e a essere scritta in un linguaggio difficile, ambiguo, a scegliere forme di comunicazione per iniziati, come l’emblema e il geroglifico; quella barocca, invece, cercherebbe di sollecitare la meraviglia e il piacere del pubblico mediante un uso edonistico di mezzi artistici con cui rafforzare il contatto con il mondo degli oggetti. La necessità di distinguere il manierismo dal barocco ha portato a specificare che il primo è un fenomeno prevalentemente cinquecentesco, mentre il secondo inizia negli ultimi decenni del Cinquecento per prolungarsi variamente sino al Settecento. Comune a entrambi sembra essere lo stravolgimento degli schemi e dei modelli equilibrati del classicismo: ma il manierismo agisce all’interno delle forme classiche, consumandole ed estenuandole; il barocco tende invece a far esplodere quelle forme, proiettandole all’esterno, variandole e moltiplicandole, in una ricerca ossessiva del nuovo.
Verso la metà del Novecento al manierismo, come pure al barocco, è stato attribuito anche un significato non storicamente delimitato, ma extrastorico, tipologico. Ernst Robert Curtius lo intende come una categoria retorica che ritorna costantemente e sotto la quale si possono raccogliere fenomeni anche lontanissimi nel tempo e nello spazio, ma unificati dalla comune opposizione al classico e da una stilistica esasperata dell’ornatus. Sulle sue orme, Gustav René Hocke, nel 1959, ha ricostruito un’affascinante fenomenologia del manierismo, ossia dell’irregolare, anormale, disarmonico e labirintico, dall’anticlassicismo dell’età alessandrina alla poesia del Novecento, attraversando la latinità argentea, il tardo Medioevo, l’età di Góngora, Shakespeare e Marino, il romanticismo. Il fatto è che ogni tentativo di interpretazione globale del manierismo sembra destinato all’insuccesso sino a quando non siano compiute quelle analisi specifiche delle singole tradizioni nazionali che sole possono dare alla varietà del fenomeno un rigoroso e preciso fondamento storico: il culto della forma di Montaigne, il petrarchismo sensuale di Fernando de Herrera, la prosa introversa e preziosa di John Donne, quella corrosiva e scettica di Francesco Guicciardini, l’anticlassicismo tragico di Pietro Aretino forniscono alcuni esempi della multiforme metamorfosi stilistica che ha luogo all’interno del modello rinascimentale, allorché l’individuo tenta di esprimere una visione problematica del reale.
Usando il termine “manierismo” in senso ristretto, per indicare una pratica retorica e stilistica, si possono comunque fissare alcuni caratteri distintivi e ricorrenti: l’attenzione alla tecnica letteraria anche indipendentemente dalla semantica; la frammentazione dell’unità tra i singoli elementi del testo per il gusto del particolare, del non finito, del capriccioso e del bizzarro; l’accumulo di elementi, presentati attraverso la figura retorica dell’elenco e dell’enumerazione (per asindeto e polisindeto); l’elocuzione fondata sull’ornatus in verbis conjunctis (discorso figurato che si basa sulla disposizione delle parole); la mancanza di gerarchia tra gli elementi costitutivi del discorso; la tendenza all’uso di strutture aperte, come il madrigale; la tensione verso l’eroico e il magniloquente, con l’accentuazione ossessiva di alcuni elementi decorativi. È però necessario sottolineare che con questi artifici lo scrittore manierista resta dentro la tradizione classica, ne segue i modelli senza mai né scartarli né sostituirli, ma ne esaspera alcuni aspetti, mutando la misura in dismisura, l’armonia in disarmonia, l’equilibrio in eccesso.
Basta leggere, solo per addurre un esempio, una quartina illustre di Luigi Groto, tragediografo di gusto senechiano, oltre che versificatore ammirato da Giambattista Marino: “A un tempo temo, e ardisco e ardo e agghiaccio / quando a l’aspetto del mio amor mi fermo / e stando al suo cospetto, allor poi fermo / godo, gemo, languisco, guardo e taccio”. Un uso analogo di allitterazioni, pluralità e correlazioni si riconosce in una serie di testi che deformano la lezione di Francesco Petrarca attraverso la seriazione continua degli istituti retorici della parola poetica e del suo ornatus. Ma come altri petrarchisti ben più raffinati, Groto non si sottrae al principio dell’imitazione, che viene invece rifiutato dai poeti barocchi.
I manieristi accentuano la mimesi in senso emotivo e individualistico, attraverso un montaggio inedito di intarsi, preziosismi sintattici, iperbati brachilogici, intrecciando, anziché spezzare, le norme della tradizione in una sorta di nuova sprezzatura stilistica, al modo poi di Torquato Tasso. A illustrare questo concetto di imitazione creativa o fantastica provvedono tra gli altri Camillo Pellegrini e Gregorio Comanini, mentre Galileo Galilei collega genialmente il poeta dell’Aminta al mondo del manierismo figurativo, contrapponendo la “galleria regia, ornata di cento statue antiche” del Furioso ariostesco allo “studietto” tassiano, adorno di cose peregrine al pari di qualche “schizzetto di Baccio Bandinelli o del Parmigianino”, ma immobilizzato nel gelido filtro della letteratura così come “un granchio pietrificato, un camaleonte secco, una mosca, un ragno (...) in un pezzo d’ambra”.
La tecnica manierista non corrisponde solo a una psicologia introversa e malinconica, ma risente anche dell’influsso del neoplatonismo e della sua estetica della phantasia. Non per nulla il termine “maniera” interferisce con “mania”, che in greco significa “pazzia”, e per Giordano Bruno definisce il furore creativo: nel dialogo anticlassico Degli eroici furori (1585) egli afferma che il vero poeta trova ispirazione dentro di sé e non ammette di essere soggetto a regole precise. Il suo pensiero violentemente antiaristotelico trova larga diffusione in Inghilterra, dove John Lyly ha già composto l’affettata e preziosa opera Euphues, the Anatomy of Wit (1578) che dà origine al termine “eufuismo”, spesso considerato sinonimo di manierismo, in quanto tale tecnica riprende dalla prosa di Giovanni Boccaccio, degli umanisti italiani e spagnoli la struttura latineggiante e la impreziosisce con artifici retorici, aggettivi ricercati e ardite metafore.
Giordano Bruno
Dialogo tra Cicada e Tansillo
De gl’ heroici furori, Dialogo primo
CICADA: Dite: che intende per quei che si vantano de mirti ed allori?
TANSILLO: Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori; alli quali, se nobilmente si portano, tocca la corona di tal pianta consecrata a Venere, dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli gesti politici e civili.
CICADA: Dunque, son più specie de poeti e de corone?
TANSILLO: Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio: perché, quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe specie e modi d’ingegni umani.
CICADA: Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovidio, Marziale, Exiodo, Lucrezio, ed altri molti in numero de versificatori, examinandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele.
TANSILLO: Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie; perché non considerano quelle regole principalmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in particolare, e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instituir altri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori de diversi geni.
CICADA: Sì che, come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regola che serveno a coloro che son più atti ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui che non era poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in serviggio di qualch’uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero, non di propria musa, ma scimia de la musa altrui.
TANSILLO: Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti.
CICADA: Or come dunque saranno conosciuti gli veramente poeti?
TANSILLO: Dal cantar de versi; con questo che cantando o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme.
CICADA: A chi dunque servono le regole d’Aristotele?
TANSILLO: A chi non potesse, come Omero, Exiodo, Orfeo ed altri, poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero.
CICADA: Dunque, han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o perché finiscono gli canti epilogando di quel ch’è detto, e proponendo per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere ch’essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarebbono gli veri poeti, ed arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi, che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude ed ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio ed errore.
TANSILLO: Or per non tornar là donde l’affezione n’ha fatto al quanto a lungo digredire, dico che sono e possono essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti ed invenzioni umane, alli quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo da tutti geni e specie de piante, ma ed oltre d’altri geni e specie di materie. Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri, ma anco de pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sacrifici e leggi, di pioppa, olmo e spighe per l’agricoltura, de cipresso per funerali, e d’altre innumerabili per altre tante occasioni.
in Cinquecento minore, a cura di R. Scrivano, Bologna, Zanichelli, 1966
Altrettanto complessa risulta la nozione di anticlassicismo, cui possono essere ricondotti autori diversi, quali Teofilo Folengo, Ruzante e Francesco Berni: la loro rivolta ai modelli dà origine a un vero e proprio genere letterario, quello della poesia bernesca e giocosa, che conosce notevole fortuna nella letteratura italiana. Rifiutando esplicitamente il canone del classicismo, questi scrittori rovesciano i modelli poetici seri e, prospettando una vita indifferente agli ideali, sullo sfondo di immagini deformate e strampalate della realtà, si ricollegano a meno note tradizioni folkloriche o di origine medievale. Dal punto di vista stilistico essi si concentrano su una sperimentazione linguistica che fa ricorso ai dialetti e a linguaggi marginali ed eterogenei: giochi di parole, doppi sensi comici, amplificazioni scherzose e parodie documentano la lacerazione dell’egemonia del classicismo, in modo diverso ma non meno profondo rispetto al manierismo. Vale allora la pena ricordare che lo stilizzato “crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura” e gli irreali “occhi soavi e più chiari che ’l sole, / da far giorno seren la notte oscura” della giovane dedicataria di un sonetto del petrarchista Pietro Bembo caratterizzano nella parodia di Berni le fattezze di una vecchia arruffata, piangente e strabica.
I principi propri del classicismo di misura, eleganza, equilibrio tra artificio e naturalezza rappresentano solo un aspetto del Cinquecento, che comprende anche altre forme di cultura alternativa che costituiscono quello che è stato chiamato “controrinascimento” o “antirinascimento” e che cercano di rendere conto della varietà del reale; così Niccolò Machiavelli, Erasmo da Rotterdam, François Rabelais, Johann Fischart e numerosi altri irregolari mostrano i limiti di una visione unitaria e assoluta dell’uomo e gli aspetti ridicoli del formalismo, non solo letterario.
Pietro Bembo
Allusione a Petrarca
Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura
Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura,
ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole,
occhi soavi e più chiari che ’l sole,
da far giorno seren la notte oscura,
riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura,
rubini e perle, ond’escono parole
sì dolci, ch’altro ben l’alma non vòle,
man d’avorio, che i cor distringe e fura,
cantar, che sembra d’armonia divina,
senno maturo a la più verde etade,
leggiadria non veduta unqua fra noi,
giunta a somma beltà somma onestade,
fur l’esca del mio fofo, e sono in voi
grazie, ch’a poche il ciel largo destina.
P. Bembo, Prose e rime, a cura di C. Dionisotti, Torino, UTET, 1966