Manifatture e corporazioni
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’alto Medioevo le grandi tenute latifondistiche, aspirando a una condizione di autarchia, peraltro mai effettivamente realizzata, si attrezzano per portare a termine l’intero ciclo di produzione. Gli scambi, seppure esigui, continuano e non mancano le testimonianze dell’esistenza di un buon numero di fiere e mercati. Né si interrompono i traffici di beni di lusso condotti con successo da Siri, Frisi ed Ebrei. Le città, ridotte per dimensioni e numero di abitanti, ospitano botteghe artigiane che producono quanto i coloni non riescono a realizzare da soli. Il reperimento di notizie, seppure frammentarie, relative all’esistenza in epoca altomedievale di sodalizi artigiani, ha stimolato la riflessione degli storici sulla nascita delle corporazioni.
Nell’Europa dell’alto Medioevo, la grande economia antica si frantuma in una serie di economie locali a carattere agrario in cui domina la grande proprietà fondiaria, detta curtis o anche villa, composta da pars dominica gestita direttamente dal padrone, e pars massaricia affidata alla cura di coloni. La corte si dota altresì delle infrastrutture necessarie a poter organizzare autonomamente il ciclo completo della produzione agraria. Tale aspirazione non si traduce mai in una economia chiusa e priva di sbocchi, in primo luogo perché nessuna corte è in grado di provvedere da sola a tutte le sue necessità e poi perché le eccedenze di produzione sono collocate presso mercati locali e fiere che, nonostante il ridursi degli scambi, continuano a esistere (l’importante fiera di San Dionigi, grande mercato annuale di prodotti agricoli, che si tiene in ottobre nei pressi di Parigi, nasce intorno al 635; a questa si accompagna a partire dal 775 anche la fiera di San Mattia, nel mese di febbraio).
Il sostanziale successo del sistema curtense è garantito dalla convergenza degli interessi dei proprietari delle curtis che, non potendo gestire direttamente tutti i loro territori, li affidano a contadini che si vedono costretti ad accettare una condizione pressoché servile e dure condizioni di lavoro in cambio di un terreno da coltivare e di quel minimo vitale che l’integrazione in un circuito produttivo a ciclo completo garantisce. I coloni, oltre a pagare un canone in denaro o natura, sono obbligati a fornire una serie di prestazioni lavorative, corvées, da dedicare, a seconda delle necessità, al lavoro dei campi della riserva padronale o a pratiche artigianali, quali la costruzione della casa del signore, di granai, di mulini ad acqua, oppure alla fabbricazione di birra o vino. Anche le grandi proprietà ecclesiastiche adottano lo stesso tipo di organizzazione impiegando la manodopera dedita ai campi nelle industrie necessarie alla vita della comunità ecclesiastica, cercando altresì di favorirne lo sviluppo, e non mancano gli esempi di conventi dove sono istituite officine che fungono da scuole d’arte.
I frati non disdegnano di praticare essi stessi attività manuali e molti sono ricordati per essere stati orefici, fonditori di campane, lavoratori di tessuti filati. Sono loro, almeno fino al XII secolo, i maggiori esperti nell’arte della costruzione in pietra, e non stupisce che sia stato proprio il monaco benedettino Teofilo l’autore, tra l’XI e il XII secolo, del trattato De diversis artibus, una sorta di prontuario del sapere tecnico del Medioevo nel campo dell’arte e dell’artigianato. Sappiamo che nel convento di Bobbio, nel IX secolo, lavorano fornai, macellai, artigiani della pietra e del legno e persone dedite al confezionamento di vestiario; nell’abbazia di San Remigio a Reims vi sono fabbri, mugnai, pescatori e una presenza artigianale si registra anche presso il convento di Staffelsee e in quello di San Gallo, ma non siamo in grado di dire se si tratti di manodopera che esercita a tempo pieno le attività artigianali, né si conosce la loro reale consistenza.
Se all’arredamento delle spartane dimore signorili, alla realizzazione degli utensili per il lavoro dei campi, delle vettovaglie in terracotta, degli abiti, possono provvedere gli stessi coloni, vi sono altresì un certo numero di artigiani ambulanti che si muovono tra corti e conventi e provvedono alla realizzazione di quelle opere per le quali è necessaria una più alta professionalità. Si tratta di fabbri, vetrai, orefici, fonditori di campane, lavoratori in pietra, sullo stato giuridico dei quali gli storici sono in disaccordo.
Non tutto lo spazio coltivato è inquadrato nel sistema della curtis, organizzazione che convive con forme di produzione diverse quali la piccola proprietà contadina che, soprattutto nelle zone più vicine alle aree urbane, non scompare. Le città attraversano un periodo di decadenza, immiserite e ridotte per estensione e numero di abitanti vedono crescere al proprio interno ampi spazi destinati alla coltivazione. L’esiguo commercio locale alimentato dal surplus di produzione delle corti tiene ancora in vita, seppure in condizioni poco felici, un artigianato urbano e la documentazione coeva porta più di un esempio di negotiatores che affittano banchi presso i mercati o addirittura acquistano botteghe, che fungono anche da abitazioni, per esercitarvi la propria attività.
Del resto là dove il canone richiesto ai coloni consiste in articoli che non sono in grado di realizzare da soli, questi vanno acquistati presso le botteghe degli artigiani di città, dove essi stessi si recano per collocare i pochi prodotti della terra. A tale proposito, notevole interesse è stato rivolto a quei documenti che testimoniano l’esistenza in alcune città di ceti artigiani compatti come i tintori di Roma ai tempi di Gregorio I o i saponai di Napoli. Questi ultimi, secondo quanto si legge in una lettera dello stesso papa al vescovo della città, sono entrati in conflitto con il conte per alcune questioni relative all’esercizio della loro professione. Nell’VIII secolo i saponai di Piacenza sono obbligati a versare un tributo alle autorità e ancora abbiamo una schola hortolanorum a Roma nel 1030 e una schola piscatorum a Ravenna, a dimostrazione dell’esistenza già in epoca altomedievale di organismi che presentano indiscusse analogie con le corporazioni di arte e mestiere largamente diffuse nel basso Medioevo.
Le notizie relative all’esistenza di un associazionismo legato al mondo del lavoro tra il VI e l’XI secolo hanno acceso tra gli storici l’interesse sull’origine delle corporazioni di arti e mestieri e sul loro rapporto con le autorità.
Quattro sono le teorie attorno alle quali si è maggiormente discusso: una delle tesi ritiene che vi sia una continuità tra i sodalizi artigiani medievali e l’esperienza dei collegia romani, supponendo quindi il perdurare di una condizione di soggezione delle associazioni alla pubblica autorità, senza però che tale persistenza sia stata per ora sufficientemente dimostrata.
In linea con questa tesi ve ne è una seconda che, pur senza negare la continuità, ritiene che questo legame sia stato spezzato dalla conquista longobarda al nord e dalla decadenza politica al sud. Almeno in area lombarda, però, le corporazioni sono ricostruite e poste sotto il controllo dell’autorità, ipotesi confermata solo per gli zecchieri (caso che poco si presta a generalizzazioni).
Una terza teoria vede nell’illecito istituto della prestazione di un giuramento, molto diffuso in epoca tardo romana e vincolante gli esercenti di una determinata professione ad attenersi a un livello salariale e dei prezzi deciso sulla base di accordi privati, una forma primitiva di corporazione di mestieri. A questi accordi lesivi dell’interesse pubblico viene fatta risalire un’irrisolta conflittualità tra corporazioni e autorità.
Una quarta tesi, infine, in maniera più cauta, pur prendendo atto dell’esistenza di antiche forme associative accostabili a quelle destinate ad avere grande fortuna nel basso Medioevo e nelle epoche successive, sostiene l’originalità delle singole esperienze e la necessità di inquadrare il fenomeno all’interno dei rapporti di forza esistenti nel periodo in questione. Cercare la continuità nell’elemento della soggezione o della conflittualità rischia di far dimenticare che le corporazioni medievali del XII e XIII secolo hanno un ruolo decisivo nella rinascita delle città.
C’è una stretta relazione tra lo sviluppo della città e quello delle arti, le loro funzioni non attengono solo alla dimensione economica, ma anche a quella sociale (si fanno carico di attività assistenziali e devozionali che creano un indotto anche per altri settori produttivi cittadini), a quella militare e di difesa della città, ma soprattutto a quelle amministrative e politiche, andando queste a sedere nei consigli cittadini o addirittura a ricoprire funzioni di governo.
Il reperimento, da parte di Jules Nicole, del Libro dell’Eparco, una sorta di prefetto cittadino, dimostra che a Bisanzio i mestieri sono organizzati in corporazioni sottoposte al controllo dello Stato, che regola il prezzo dei prodotti e le modalità di acquisto e vendita degli stessi. Il testo risalente al X secolo comprende 22 capitoli di regole attinenti a diverse gilde: notai, argyropratai, cambia valute; rivenditori di abbigliamento e profumi; fabbricanti di candele e di sapone; fornitori di drogherie, carne, pane, pesce e vino. Non sono invece comprese altre importanti professioni quali medici, calzolai, barbieri, sarti. È opportuno sottolineare che molte di queste regole mirano a proteggere le gilde dai grandi proprietari terrieri con interessi nei commerci, e da quegli artigiani o mercanti che, pur esercitando la professione, non fanno parte delle stesse.