Manifestazioni della cultura dell'Occidente greco. La scultura
Le fonti attestano una fiorente produzione di statue bronzee nell’Occidente greco, di cui rimangono pochi documenti originali, come lo Zeus di Ugento, il cosiddetto Cavaliere di Grumento (che in base a uno studio recente pare provenire da Armento) e l’Efebo di Selinunte. Le acque dell’Italia meridionale e della Sicilia hanno restituito, inoltre, celebri esemplari provenienti dalla Grecia e finiti in mare a causa di naufragi.
basti ricordare gli splendidi Bronzi di Riace, la testa di Porticello e il Satiro di Mazara del Vallo, un originale di età ellenistica recentemente restaurato.
I primi bronzisti ricordati per la Sicilia sarebbero stati attivi ad Agrigento, nella prima metà del VI sec. a.C. Per Falaride, infatti, lo scultore locale di origine attica Perilaos o Perillos, dai contorni alquanto mitici, avrebbe realizzato il toro di bronzo, utilizzato dal crudele tiranno per sacrifici umani, che secondo Polibio fu ritrovato a Cartagine da Scipione l’Emiliano e restituito ad Agrigento. Rimane solo l’attestazione delle fonti letterarie delle famose scuole di bronzisti di Reggio e di Crotone, attive già alla fine del VI e soprattutto nella prima metà del V sec. a.C. Gli autori antichi ricordano i nomi di Klearchos di Reggio, allievo del corinzio Eucheiros (nome parlante per un artista, dal momento che significa “dalla bella mano”), che secondo la tradizione era giunto in Occidente al seguito di Damarato, e del celebre Pitagora di Reggio, il quale contribuì in maniera innovativa alle conquiste formali dello stile severo. I riflessi della sua arte, di cui purtroppo non ci è rimasto nessun originale, sono colti dagli studiosi in terrecotte, bronzetti (Atleta di Adernò) e copie marmoree di età romana (Discobolo Ludovisi).
A Crotone le fonti ricordano l’attività dello scultore arcaico Patrokles, che eseguì su commissione dei coloni di Locri Epizefirii una statua lignea di Apollo, vista da Pausania a Olimpia nel thesauròs dei Sicioni, e del bronzista Dameas, attivo nella seconda metà del VI sec. a.C. Pausania descrive nel santuario di Olimpia una sua statua dell’atleta crotoniate Milone, vittorioso nei giochi olimpici del 532 a.C., celebre per aver guidato come stratega nel 510 i suoi concittadini contro Sibari. Resta un frammento della base che porta nell’iscrizione lacunosa la firma dell’artista e la dedica da parte di Milone, figlio di Diotimo.
La scarsità di marmo in Italia meridionale e in Sicilia è un fatto assodato. Il poco marmo proveniente dalle cave locali non era di buona qualità e forniva solo piccoli blocchi. Non era adatto, pertanto, alla realizzazione di sculture a tutto tondo e di grandi dimensioni e non offriva le stesse possibilità espressive della terracotta e della pietra calcarea. Risultava, dunque, necessaria l’importazione di marmo dalla Grecia o dall’Asia Minore, come materiale grezzo da lavorare in loco o sotto forma di blocchi semilavorati in cava. Le necropoli, i templi e i santuari della Magna Grecia e della Sicilia, che dovevano essere ricchi di doni votivi in vari materiali esposti entro il temenos, ci hanno restituito comunque testimonianze di scultura in marmo, spesso purtroppo in condizioni molto frammentarie. Per questo motivo, l’esistenza di una produzione locale in marmo è stata uno degli argomenti più dibattuti da parte della critica, come testimonia la fervida discussione a proposito della kore incompiuta di Taranto.
Particolare influenza hanno avuto le opinioni di E. Langlotz, che riteneva le sculture marmoree rinvenute in Occidente importate, essenzialmente dalle Cicladi, già completate o semilavorate nell’ambiente egeo-insulare e rifinite sul posto, dopo il trasporto, nelle parti più delicate e nei dettagli. Oltre alle opere votive e sepolcrali di carattere seriale (korai, kouroi, stele, sfingi), altre di maggior impegno, come statue di culto o elementi di decorazione architettonica, sarebbero state eseguite sul posto, ma sempre da artisti nesiotici itineranti. Infine, tra le opere “locali” Langlotz distingueva quelle eseguite da artisti greci insediati da lungo tempo in Occidente, che esprimevano caratteri locali nel linguaggio formale greco, e quelle definibili magno-greche in senso stretto. Per lo studioso l’identificazione della provenienza del marmo, insieme all’esame stilistico, costituivano elementi importanti per individuare l’origine dello scultore e attribuire l’opera a una determinata scuola artistica. A causa della contingente scarsità di materiale, ma anche della carenza di organicità nella sensibilità formale magno-greca, gli scultori locali si sarebbero rivolti preferibilmente a materiali teneri, più congeniali alla loro concezione artistica, come la pietra calcarea e l’argilla.
Gli studi più recenti tendono, invece, a considerare con favore l’esistenza, già alla fine dell’età arcaica, di officine locali in Magna Grecia e in Sicilia, dove si lavoravano blocchi di marmo importati grezzi. L’arrivo di artisti da varie regioni del mondo greco, subito dopo la fondazione delle colonie, avrebbe favorito la formazione di maestranze locali e la creazione di officine di scultura in marmo in Magna Grecia e in Sicilia, poi sviluppatesi gradualmente. L’acquisizione della tecnica necessaria da parte di scultori abituati a materiali molto diversi poteva derivare da un apprendistato nella madrepatria o, viceversa, essere trasmessa grazie ad artisti greci presenti in loco.
Alla committenza della classe di notabili megaresi si possono far risalire l’origine e lo sviluppo della scuola di scultura locale, dove sin dal VII sec. a.C. si lavorava la pietra, come è testimoniato dai numerosi frammenti di questo materiale, tra cui una statuetta femminile di stile dedalico, datata nell’ultimo quarto del VII secolo. Le sculture arcaiche pervenuteci, naturalmente tutte anteriori alla distruzione della città nel 483 a.C., erano eseguite in marmo e in calcare locale, per segnalare monumentalmente le tombe dei cittadini più ricchi e nobili. Dalla necropoli nord proviene la più celebre scultura di Megara Hyblaea, la cosiddetta kourotrophos di calcare originariamente dipinto, datata intorno al 560-530 a.C., raffigurante una donna dalle forme abbondanti e maestose, avvolta in un ampio mantello, che, seduta in trono, allatta due neonati. Il kouros di Sombrotidas, datato intorno alla metà del VI sec. a.C., è la più antica delle opere in marmo restituiteci da questa città. Secondo lo schema tradizionale del tipo, raffigura un giovane stante, in posizione frontale, con le braccia aderenti al corpo e la gamba sinistra leggermente avanzata. Come si deduce dall’iscrizione incisa sulla coscia e dalla provenienza dalla necropoli, si tratta di un monumento funerario eretto sulla tomba di un medico. Il defunto, così onorato grazie all’esercizio della sua professione, forse pubblica, doveva aver acquistato una posizione sociale di riguardo e beni sufficienti da potersi permettere un tipo di statua funeraria generalmente riservato agli aristocratici. Stilisticamente il kouros mostra una forte influenza cicladica e viene giudicato dalla critica un’importazione nassia o una rielaborazione dei modelli insulari da parte di uno scultore locale.
La scultura arcaica in pietra di Siracusa e del suo entroterra è rappresentata da numerose opere di calcare, tra le quali si distingue per le sue notevoli dimensioni la celebre testa rinvenuta a Laganello presso la fonte Ciane, che doveva essere pertinente a una monumentale statua di culto ed è datata intorno al 590-580 a.C. In pietra locale sono eseguite anche le due serie di metope dall’Heraion alla foce del Sele: la prima datata, su base stilistica, intorno alla metà del VI sec. a.C., con raffigurazioni tratte dal mito e dalle saghe omeriche.
la seconda costituita da metope della fine del VI sec. a.C. Anche a Selinunte è documentato l’impiego di metope figurate per decorare i templi: una serie della prima metà del VI sec. a.C., attribuita al Tempio Y, di incerta ubicazione, è stata rinvenuta reimpiegata nelle fortificazioni dell’acropoli; un’altra serie, databile tra il 560 e il 540 a.C., ornava il Tempio C. Le metope svolgevano una funzione al contempo architettonica e religiosa, in quanto valorizzavano la fronte dell’edificio e rendevano presenti ai fedeli le divinità venerate nel tempio e le storie mitiche a esse legate. All’età tardoarcaica risalgono i cicli di metope dei templi F e M (500-490 a.C.).
Tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C. si colloca la serie di statue, più o meno frammentarie, di kouroi di marmo greco-insulare, provenienti da vari centri della Sicilia sud-orientale, gravitanti attorno a Siracusa: il kouros di Lentini, il torso da Grammichele, quello da Megara Hyblaea e il kouros di Siracusa con clamide. Anche queste sculture sono state variamente giudicate, come importazioni cicladiche o creazioni locali. A questo gruppo si è aggiunto di recente un kouros di marmo pario, che conserva ancora consistenti tracce di policromia sui capelli, sequestrato in un’abitazione privata a Reggio Calabria. Caratterizzato dalle consuete forme slanciate e delicate, dal sorriso arcaico, dall’acconciatura con quattro file di riccioli a chiocciola sulla fronte, da striature radiali nella calotta e dal krobylos, esso mostra, nella posizione discosta delle braccia dal corpo e nell’avanzamento della gamba destra, il superamento della concezione chiusa e statica degli esemplari più arcaici della serie dei kouroi sicelioti. Le protomi femminili di marmo provenienti dal santuario meridionale di Poseidonia, di età tardoarcaica (500 a.C. ca.), sono ascrivibili alla scuola locale di scultura in pietra, attiva sin dall’età arcaica: basti pensare alle metope dell’Heraion del Sele. Per queste teste è stata messa in evidenza l’influenza della tradizione coroplastica, riscontrabile nella maniera di sottolineare con infossature i tratti del volto, come la bocca, gli occhi, il naso, e nella carnosità dei volti marmorei.
Alla decorazione marmorea dell’Athenaion di Siracusa doveva appartenere un torso di Nike di marmo pario, pertinente a un acroterio, della fine dell’arcaismo (480-470 a.C.), raffigurata nel tipo iconografico della Nike alata in corsa inginocchiata, a indicare il movimento laterale attraverso l’aria. La fiorente produzione nell’Occidente greco di sculture in marmo di stile severo è documentata da numerose opere: da Agrigento, dove, durante la tirannide degli Emmenidi, si sviluppò un’importante scuola di scultura architettonica in pietra, provengono la statuetta di giovane stante, il cosiddetto Efebo, recuperata in una cisterna nei pressi del tempio di Demetra, e il Guerriero appartenente alla decorazione frontonale del tempio di Eracle. Dello stesso periodo (460-450 a.C.) sono le metope figurate che ornavano i lati brevi della cella dell’Heraion di Selinunte, il cosiddetto Tempio E, eseguite in calcare, con l’inserimento delle teste e delle parti nude delle figure femminili in marmo bianco, nelle quali sono stati individuati caratteri autonomi: maestri locali, partendo dall’assimilazione dei modelli e dei tipi figurativi elaborati nei due maggiori centri artistici greci del periodo, Atene e Olimpia, sarebbero approdati consapevolmente a soluzioni proprie, instaurando con i propri punti di riferimento un rapporto dialettico.
Intorno al 470-460 a.C. viene generalmente datata la celebre statua di efebo rinvenuta a Mozia, della quale gli studiosi discutono ancora l’iconografia (auriga? sacerdote?), la datazione e l’attribuzione all’ambito artistico. Per le sculture di stile severo in Magna Grecia si ricordano la statua della Dea Seduta di Berlino, di origine tarantina, e i due rilievi in marmo di Taso ascritti alla produzione locrese, i troni cosiddetti Ludovisi e di Boston, vicini per la tipologia e i temi di iconografia sacra ai pinakes fittili, anche se non sono mancati studiosi che li hanno considerati falsi moderni. A Locri è stata congetturata l’esistenza di una bottega che lavorava il marmo nell’età dello stile severo, sorta in seguito all’emigrazione in Magna Grecia di scultori di Taso, la cui attività è posta in connessione con il cantiere del tempio ionico di Marasà. L’opera di artisti locali è stata riconosciuta anche in alcune sculture marmoree provenienti dal santuario di Hera Lacinia a Capo Colonna (Crotone), tra le quali una testa femminile databile intorno al 470-460 a.C., che, per il particolare dei bulbi oculari contornati da sottilissime lamine bronzee inserite, ricorda una testa rinvenuta nel santuario di Apollo Liceo a Metaponto.
Nel V sec. a.C. predomina sulla scultura, come sulle altre classi di produzione greco-occidentale, l’influenza dell’arte attica di stampo fidiaco, che è stata connessa, oltre che all’eccezionale livello manifestato da questa scuola, alla fondazione di Thurii nel 444 a.C. e all’arrivo di artisti attici, allontanatisi dalla madrepatria al tempo della guerra del Peloponneso. In età classica sono datati i due gruppi scultorei in marmo pario dei Dioscuri, raffigurati nell’atto di scendere dai cavalli, sorretti da Tritoni, che decoravano come acroteri la fronte occidentale del tempio ionico di Locri, in contrada Marasà (450-425 a.C.). A uno scultore locale viene attribuita la testa marmorea di Demetra di Agrigento, rinvenuta in una cisterna situata nell’area del santuario delle divinità ctonie, databile sul finire del V sec. a.C. e pertinente con ogni probabilità a una statua di culto. L’opera si inserisce a pieno titolo nel filone di influenza attica postfidiaca, che prevale nel panorama artistico della Sicilia nella seconda metà del V sec. a.C., come attestano anche i rilievi funerari con teste maschili provenienti da Pachino e da Camarina.
La scultura in pietra e in marmo di Taranto, uno dei centri meglio conosciuti grazie ai numerosi rinvenimenti ben pubblicati, avviata tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C. sotto l’influsso di modelli ionici, seppe evolversi in breve verso la formulazione di un linguaggio figurativo originale. La scuola scultorea tarantina conobbe una particolare fioritura nella ricca città dell’età ellenistica, in relazione alla decorazione dei monumenti sepolcrali. Nel corso del IV sec. a.C. l’uso della pietra tenera in sostituzione del marmo comportò un incremento della produzione, grazie alla riduzione dei costi e alla maggiore facilità del lavoro. Dai primi monumenti funerari a stele e a colonna, sormontati da coronamenti floreali o da capitelli, si passò a tipologie che implicavano una decorazione scultorea più complessa: pannelli a rilievo da inserire nelle stele, acroteri e fregi continui destinati a decorare il basamento dei monumenti a tempietto (naiskoi), con frequenti scene di Amazzonomachia, temi dionisiaci o thiasoi marini. All’ultima fase della produzione, che si esaurì nel II sec. a.C., risalgono le decorazioni frontonali e le metope figurate, come i celebri esemplari scolpiti ad altorilievo con scene di battaglia tra Greci e barbari nudi, appartenenti al fregio dorico del basamento del naiskos di via Umbria (fine del III - metà del II sec. a.C.). La narrazione dinamica e drammatica, grazie a un sapiente uso del chiaroscuro, era arricchita, come di consueto, da una vivace policromia.
Alla scarsità di marmo viene di solito ricondotta la particolare diffusione nell’ambito greco-occidentale degli acroliti (le statue eseguite in materiali diversi, con solo la testa e le parti nude della figura, le braccia, le mani e i piedi, di marmo), come nell’area di Cirene, anche se in realtà l’uso di combinare materiali diversi ricorre di frequente anche nelle statue di culto greche, dall’arcaico Apollo di Amyklai descritto da Pausania alle grandi creazioni crisoelefantine del periodo classico. L’utilizzo frequente di questa tecnica è stato sicuramente facilitato dall’antichissima tradizione di rivestire periodicamente con stoffe preziose le più antiche immagini divine lignee (xoana) e di ornarle di gioielli. Il corpo era costituito da un’impalcatura non organicamente modellata, che costituiva piuttosto un sostegno per la testa e le membra marmoree, di solito eseguita in legno, ma anche in gesso e stoppa o in creta. Questo manichino veniva comunque rifinito con gesso o stucco e ricoperto di tessuti pregiati o rivestito da lamine auree. Spesso anche la testa stessa dell’acrolito risulta composta di vari elementi eseguiti in materiali differenti: la testa o talora solo la maschera del volto di marmo, cui poteva essere applicata una capigliatura lavorata a parte, spesso di bronzo, di legno colorato o di stucco dorato, e gli occhi incastonati di pasta vitrea o pietre preziose.
Tra i più celebri acroliti di ambito greco-occidentale ricordiamo quello Ludovisi, di età severa, e la testa dell’Apollo di Cirò, di piena età classica, che apparteneva alla statua di culto del tempio di Apollo Alaios, nella chora di Crotone. Una tecnica tipicamente greco-occidentale, documentata dalle metope del Tempio E di Selinunte e dalla grande statua femminile di età tardoclassica, nel J. Paul Getty Museum di Malibu, cui viene attribuita una provenienza da Morgantina, ritenuta pertinente al santuario di Enna (Giuliano 1993), prevedeva l’inserimento di elementi di marmo in un corpo modellato in calcare. Questa tecnica può essere effettivamente spiegata con la necessità di risparmiare il raro marmo di buona qualità a disposizione degli scultori locali: il più comune calcare veniva impiegato per le parti dipinte della statua, mentre il marmo era riservato alle parti visibili, come volto, mani e piedi.
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