Manifestazioni della cultura dell'Occidente greco. La toreutica e l'oreficeria
Le colonie dell’Occidente greco erano celebri per la produzione di manufatti di bronzo, ma anche di metalli preziosi, oro e argento. Non a caso la fucina di Efesto, il dio del fuoco e della metallurgia, nella quale lavoravano i Ciclopi, era localizzata secondo il mito proprio in Sicilia, nell’Etna. Da maestri greci provenienti dalla madrepatria gli artigiani dell’Italia meridionale appresero l’arte della lavorazione dei metalli, che praticarono in botteghe locali. Testimoniano l’abilità tecnica e la raffinatezza di questi artigiani i rinvenimenti effettuati negli abitati, nei depositi votivi dei santuari e nei corredi funebri: grandi vasi, soprattutto crateri, decorati con appliques e a sbalzo; statuette che riproducono tipi della grande plastica, frequentemente offerte nei santuari come ex voto; specchi, con gli elaborati manici ornati da elementi vegetali o da figure umane; candelabri, tripodi, bruciaprofumi, lucerne, elementi di mobilio e vasellame utilizzato nelle cerimonie religiose o appartenente a servizi da simposio. Splendide armi da parata, elmi, scudi, corazze e schinieri, variamente decorati, furono spesso sepolti nelle tombe come simbolo di valore guerriero, ma anche offerti nei santuari come doni votivi alla divinità.
La localizzazione delle produzioni delle singole officine magnogreche è molto difficoltosa, a causa degli spostamenti degli artigiani itineranti, che lavoravano per committenze speciali, e della vasta circolazione degli oggetti di metallo. Per stabilire la provenienza di questi manufatti ci si affida all’analisi stilistica, ma di recente hanno avuto grande sviluppo anche le analisi scientifiche della lega e della tecnica di lavorazione. Tra i centri di produzione magno-greca erano particolarmente fiorenti Locri e Taranto, che dipendeva dalla celebre scuola laconica, attiva nella metropolis Sparta. Oggetti di metallo attribuiti ad ateliers delle colonie dell’Italia meridionale (vasi da banchetto, armi, specchi e gioielli) sono stati rinvenuti nei corredi funebri dei capi indigeni italici, che li acquistavano come simboli di potere e di distinzione sociale, ma anche in contesti molto distanti dai centri di esecuzione, al di là delle Alpi. Un esempio celebre è costituito dal cratere di Vix, datato intorno al 530-520 a.C., rinvenuto nella tomba di una ricchissima dama celtica in Borgogna, oggi conservato nel Museo di Châtillon-sur-Seine. Il corredo, sicuramente pertinente a una donna di alto rango sociale, deposta in un carro, comprendeva anche vasellame di produzione etrusca e ceramica attica figurata, fibule, un pesante torques d’oro decorato con Pegasi a tutto tondo e una phiale d’argento, che ha fatto ipotizzare che la defunta svolgesse funzioni di sacerdotessa.
Il grande cratere a volute di Vix, di una tipologia prodotta solitamente per essere offerta nei santuari del mondo greco e non di usuale destinazione funeraria, era riempito per metà da una bevanda di significato simbolico (birra o idromele). Alto 1,63 m e con una capacità di 1100 l, è decorato con anse configurate a Gorgoni e leoni rampanti all’interno. Sul collo è applicato un fregio costituito da una parata di sette opliti e otto quadrighe alternati. Una statuetta femminile su base conica, che probabilmente reggeva gli strumenti della libagione, una phiale nella mano destra abbassata e un’oinochoe nella sinistra, decora il pomello del coperchio, forato come un colino, sul quale in origine dovevano essere applicate statuette a tutto tondo, di cui rimangono le tracce, costituenti forse scene di combattimento. Il luogo del rinvenimento, la qualità e le dimensioni eccezionali del pezzo pongono il problema del movimento degli artigiani e delle vie di penetrazione della cultura greca. Vasi bronzei sono stati rinvenuti in altre tombe principesche d’oltralpe, a Bordeaux e a Hochdorf, ad esempio. Si suppone che il cratere di Vix abbia raggiunto il mondo celtico attraverso l’Adriatico o, più presumibilmente, dalla colonia focea di Marsiglia attraverso la via fluviale del Rodano.
I sempre più numerosi rinvenimenti di manufatti magno-greci o etruschi in contesti celtici rendono evidente l’intensità dei traffici che si svolgevano dall’area mediterranea verso il Nord, lungo il Rodano e le vie alpine che partivano dai grandi laghi. Gli scambi determinavano la circolazione delle merci, ma anche di tecniche e modelli culturali, adottati dalle élites celtiche, e spostamenti di persone, tra cui gli artigiani, mentre da nord provenivano materie prime, come lo stagno, e soldati mercenari. Gli studiosi hanno attribuito il cratere alla stessa officina magno-greca che produsse tre hydriai di bronzo con anse decorate rinvenute (insieme ad altre tre hydriai e due anfore bronzee e una grandiosa anfora attica a figure nere) nel sacello ipogeico dell’agorà di Poseidonia, interpretato come heroon, e quella restituita da un ricco corredo tombale di Sala Consilina, un centro indigeno del Vallo di Diano, molto simili per forma e ornamentazione. Come esempio della raffinatezza tecnica raggiunta dai toreuti magno-greci ricordiamo il rhytòn di Trieste a testa di cerbiatto, di uso rituale per libagioni, eseguito in argento, con particolari dorati, a Taranto alla fine del V - inizi del IV sec. a.C. Decorato a sbalzo con una scena mitica sul collo (Boreas che rapisce Orizia, tra le divinità ateniesi Atena ed Eretteo) e rifinito a cesello, presenta i dettagli di occhi, naso e bocca dell’animale sottolineati per mezzo della raffinata tecnica dell’applicazione del niello (un materiale nero prodotto da vari solfuri metallici), qui attestata per la prima volta.
L’analisi dei gioielli fornisce dati interessanti per la conoscenza delle antiche tecniche di oreficeria, ma anche per la documentazione del livello socio-economico del ceto dominante e per le informazioni sui rituali e sulla ricostruzione di dettagli “antiquari”, relativi alle fogge di abbigliamento e di ornamento personale, che se ne possono ricavare. La produzione di gioielli di metalli preziosi, oro e argento, destinata agli esponenti della classe dirigente, è attestata nell’Occidente greco sin dagli inizi della colonizzazione, alla fine dell’VIII sec. a.C. (fibule e collana di pendagli discoidali in lamina d’oro da Cuma). Non va dimenticata la presenza di ambra, proveniente dall’area balcanica attraverso le vie commerciali dell’Adriatico. In età arcaica sono documentate botteghe orafe con connotazioni specifiche a Cuma (pendenti di argento ispirati a modelli orientali, con scarabei egizi di faïence incastonati), a Taranto (serie di statuette con elaborato copricapo; diadema di argento) e a Sibari (pettorale di oro e argento decorato a sbalzo con palmette e fiori di loto, degli inizi del VI sec. a.C.).
Nel corso del VI e del V sec. a.C., in seguito al consolidamento delle colonie, si assiste a un incremento delle oreficerie magno-greche che si diffusero anche nei centri indigeni, come testimoniano i rinvenimenti nelle necropoli. I gioielli prodotti specificamente per una committenza locale si distinguono per le forme particolari. Dal IV sec. a.C. si segnalano le produzioni delle botteghe orafe di Cuma e Taranto. Sono state rinvenute anche imitazioni in terracotta colorata di questi monili, destinate ai ceti meno abbienti, che tendevano a emulare gli usi delle classi più elevate. Nei contesti magno- greci di età ellenistica sono abbondantemente documentate anche importazioni dalla Grecia propria, che testimoniano di scambi tra i capi delle popolazioni indigene e i grandi condottieri dei regni ellenistici o provengono dai bottini compiuti dai mercenari italici. Taranto emerge in età ellenistica per il notevole incremento della produzione di gioielli e l’uso quasi esclusivo dell’oro, proveniente dai contatti con i regni dell’Oriente ellenistico.
Tra le splendide oreficerie tarantine decorate con varie tecniche (incisione, godronatura, filigrana, sbalzo), si ricordano gli orecchini a navicella e quelli configurati a protome di leone, secondo una tipologia diffusa dal tardo IV sec. a.C. anche per le terminazioni di collane e bracciali; anelli a spirale, con ovali recanti raffigurazioni incise o con pietre incastonate; diademi, come l’esemplare risalente al III sec. a.C. rinvenuto a Canosa, nella ricca Tomba degli Ori, con serti floreali impreziositi da smalti e pietre dure, che documenta un accentuato gusto per gli effetti cromatici. Gli ori di Taranto sono attestati sino agli inizi del II sec. a.C., quando la conquista romana pose fine all’attività delle prestigiose botteghe locali. Tra i prodotti dell’oreficeria ellenistica si segnala la splendida phiale d’oro, decorata a sbalzo e incisione con fasce concentriche di ghiande, api e viticci (metà del IV - prima metà del III sec. a.C.), rinvenuta probabilmente nel centro indigeno di Monte Riparato, nella Sicilia centro-settentrionale, e recentemente recuperata sul mercato antiquario.
Sulla toreutica:
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