MANIFESTO
Il m. costituisce una forma di comunicazione di massa la cui storia s'inserisce in quella più ampia e antica della divulgazione delle notizie di pubblico interesse, sia da parte di istituzioni ufficiali che di privati, a fini tanto di informazione o di richiamo (la futura réclame) che di vera e propria ''pubblicità''. Originariamente, una forma prevalente di questo tipo di divulgazione fu quella verbale (banditori, araldi), gradualmente associata e poi sostituita da pitture murali e da insegne, e dalla pubblica affissione di fogli scritti o a stampa, contenenti avvisi, intimazioni, ordinanze, programmi politici, religiosi, culturali, contese polemiche o satiriche, propaganda mercantile, ecc. (v. per questo pubblicità, XXVIII, p. 481). La forma moderna del m. pubblicitario con scritte e disegni, dapprima in bianco e nero e poi a colori, nasce nel secolo 19° evolvendo poi nella forma del cartellone murale o in quelle più recenti del cartellone-insegna luminoso, o a diodi fotoemittenti animati da un programma computerizzato.
Tra le prime forme di m. popolare, a fini di richiamo, c'è quello per il circo, legato alla cultura delle fiere di paese o alla comunicazione urbana delle origini. Trattandosi di un prodotto complesso da realizzare, che perciò doveva conservarsi a lungo, questo tipo di m. era, sotto l'aspetto della durata, confrontabile con le immagini litografate piuttosto che con quelle attuali, di breve periodo, destinate a rimanere sulle cantonate per una singola campagna pubblicitaria. In questa fase, che dura all'incirca una generazione e di cui si conservano rare immagini, la funzione del m. è certamente legata alla pubblicità ma è soprattutto da interpretare nel contesto della storia delle insegne colorate, dipinte a mano su legno o, in seguito, su metallo. Figure dilatate, clowns oppure animali, sono i temi dei m. in Francia, Inghilterra, USA, rari superstiti frammenti di un sistema profondamente diramato ma destinato a scomparire.
Un altro genere di m., che si collega più direttamente alla tradizione della stampa e alla storia dell'illustrazione è quello, forse più noto, e che di solito viene posto all'origine delle storie dell'affiche in Occidente, prodotto durante la stagione parigina di H. Toulouse-Lautrec e di J. Chéret. Sono i m. di alcuni prodotti e, soprattutto, la serie delle affiches di Toulouse-Lautrec dedicate ai cafés chantants e ai protagonisti di quelle serate. Essi segnano una svolta nella considerazione critica del problema del m., quantomeno nella storiografia del Novecento. Infatti, mentre Chéret poteva essere tranquillamente lasciato nel gruppo degli autori di affiches, questo non era certamente il caso di Toulouse-Lautrec il cui recupero come artista, e la cui vita geniale e sregolata diventano quasi emblematica dimostrazione della qualità della sua ricerca, e impongono di considerare la sua produzione, anche quella del m., come vera arte. Inizia probabilmente di qui, dalla raccolta presso i gabinetti di disegni e stampe dei m. di Toulouse-Lautrec, un recupero critico dell'affiche che fin'allora non riscuoteva pari consenso fuori di Francia.
In genere, però, al di là di questo e pochi altri casi specifici di protagonisti della cultura pittorica, che progettano m. usando in genere la tecnica della litografia, il m. è legato a una committenza mercantile e la critica tende di fatto a distinguere nettamente le due aree: da una parte i m. degli artisti, ma con limitata considerazione in quanto la realizzazione di m. viene considerata una specie di arte minore, dall'altra i m. che reclamizzano prodotti d'uso e, quindi, avendo scopi ''pratici'', non appaiono meritevoli di un'analisi critica. D'altro canto il m., dalla fine del 19° secolo al primo dopoguerra, viene considerato da chi lo produce come l'unica fonte d'informazione per via d'immagine che possa integrare quella offerta dalle pagine dei giornali. Il m. per giunta è a colori, appare su tutti i muri, permette una lettura rapida o una persuasione diretta anche per chi non è in grado di leggere, dunque per gran parte del pubblico di allora. Il m. appare uno strumento strettamente legato alle tradizioni e alla cultura ''popolare'' dell'immagine e, anche se viene direttamente programmato dall'alto, ricalca spesso una propria iconologia, una tradizione d'immagine che si ricollega alle icone delle culture popolari o, meglio, al livello più basso delle culture dotte.
Un'attenta riflessione sul m. ottocentesco fino a Toulouse-Lautrec dovrà in tal senso tenere conto, per es., degli stretti rapporti con gli stendardi, compresi quelli processionali, e con il loro modo di racconto ma anche di semplificazione delle forme, la loro dilatazione, la riduzione dei colori. Il m. appare dunque non una novità, ma semmai come un'area nella quale si integrano culture diverse, tutte legate a un progetto di persuasione e quindi attente alla tradizione simbolica di determinate immagini. Anche se gli stendardi sono portati in giro, con le loro figure istituzionali o sacrali, mentre i m. rimangono fissi, incollati sui muri, la loro funzione dentro la città appare la stessa. I m. sono cioè racconti che si svolgono dentro la struttura urbana e che proseguono, nella loro costruzione narrativa, la tradizione delle pitture popolari, dei freschi delle edicole sacre oppure degli stendardi, assai diffusi ancora fra Settecento e Ottocento in quasi tutto l'Occidente. Queste origini e queste funzioni spiegano la costruzione narrativa del m. fin dalle sue origini, e quale ancora oggi la ritroviamo, e perciò sembra da analizzare come struttura di fiaba (Quintavalle 1976, pp. 5-17).
Nonostante queste pur evidenti matrici, il dibattito critico sul m. non è solito porre in connessione queste diverse aree dell'immagine popolare e, tantomeno, la storia della grafica, ''alta'' o ''bassa'' che sia, con quella dell'affiche. Non si riscontra infatti che la vicenda della litografia ottocentesca, e tantomeno quella del 20° secolo, sia stata collegata con quella del m.; anzi, l'insieme delle affiches viene sempre considerato come un settore a parte, rispetto al quale due sono le posizioni critiche dominanti. Da una parte il m. viene considerato semplicemente come fonte per un'indagine sociologica, utile alla ricostruzione di eventi che altre fonti, per es. letterarie, permetterebbero peraltro di restituire ugualmente. Si tratta certo di una ricerca interessante (Gallo 1973) ma che non porta al cuore del problema dell'affiche, che è storia di immagini e del loro contesto e del sistema dei loro significati. Dall'altra c'è la posizione assunta dalle due tradizioni dominanti della moderna critica d'arte, quella idealistica o neo-idealistica e quella paleo o neo-marxista.
La critica d'arte idealistica, dagli inizi del 20° secolo al secondo dopoguerra e ancora fino a oggi, continua a negare attenzione all'affiche, in quanto arte minore secondo alcuni, in quanto non-arte perché legata alla committenza industriale secondo gran parte degli studiosi; per questo il m. non appare mai nelle trattazioni della storia dell'arte o appare ai margini, nella migliore delle ipotesi, se è firmato da artisti. Per la critica marxista, invece, il m. è importante proprio come mezzo per combattere e sconfiggere il mito della produzione dell'arte: ma questa non è che una fase, e assai breve, limitata alla rivoluzione sovietica negli anni Venti; la funzione del m. verrà poi nettamente ridisegnata in termini di perfetta subalternità o estraneità all'arte nell'epoca staliniana. Il m. diverrà allora il punto di forza, assieme alla radio, per la formazione del consenso ai diversi piani quinquennali e sarà anche lo strumento di persuasione alla difficile lotta contro il pericolo nazista. Nel dopoguerra, il rifiuto della merce, e dunque della sua tradizione pubblicitaria, determinerà da parte di tutta la critica marxista un sostanziale rifiuto del m. e dell'indipendenza dei suoi autori, lasciando quindi di fatto agli uffici politici la gestione della persuasione per via di immagine.
Con questa difficile e conflittuale situazione critica hanno dovuto confrontarsi i creatori di m.; soltanto di recente sembra emergere qualche mutamento di prospettiva. Altri e rilevanti cambiamenti strutturali hanno inoltre determinato il mutare della collocazione del m. nel sistema della comunicazione.
Alle origini del Novecento il m. non è altro che l'immagine colorata di una comunicazione commerciale che non ha altri media se non l'affiche, la pubblicità a stampa in bianco e nero dei quotidiani o delle riviste, e le insegne. Questa situazione muta lentamente, fra primo e secondo decennio del secolo, quando l'introduzione del lungometraggio in bianco e nero finisce per proporre un modello mitico di esistenza e quando le prime trasmissioni radiofoniche permettono una diffusione della comunicazione verbale prima impensabile.
La trasformazione della comunicazione pubblicitaria appare netta nel periodo fra le due guerre, quando nei grandi poli di Parigi, Londra, Milano, Vienna, Dresda, Monaco, Berlino, Amsterdam, Bruxelles, e in parte nella Russia dei Soviet, il m. viene utilizzato come sistema per comunicare un'immagine guida, uno slogan, un motto, e soprattutto la figura di un prodotto oppure di un'idea. Del resto, già i m. del primo conflitto mondiale avevano proposto, dagli opposti fronti, modelli altamente positivi delle proprie e, simmetricamente, negativi delle altrui ideologie; in seguito, il cinema muto assolverà sempre più la funzione di grande programmatore del racconto dell'immaginario popolare, mentre i muri delle città si popoleranno di personaggi nuovi anche e proprio in termini ''funzionali'' alla cultura jugend e a quella precedente del realismo. Sono personaggi che si collegano alle grandi avanguardie − cubista, futurista, costruttivista, dadaista − riproposte come grande lingua popolare, dall'efficacia immediata, che di fatto viene plasmando la cultura di immagine del pubblico ben più a fondo di quanto non facciano le gallerie d'arte. Il periodo fra le due guerre è il più importante per il m. che, mantenendo diverse lingue e diverse strutture narrative per una comunicazione a più livelli, svolge un ruolo di guida, nel racconto e nella persuasione del pubblico. La fortuna del m. murale e il suo peso determinante nell'informazione e nella formazione del consenso continua a lungo, fino agli anni del secondo dopoguerra, quando (nel corso degli anni Quaranta-Cinquanta) si ha una capillare diffusione della televisione, che ne ridimensiona la funzione. Il polo del racconto pubblicitario diventa progressivamente dapprima la ''scenetta'' poi lo spot televisivo, mentre il m. finisce per passare in secondo piano. La pubblicità in bianco e nero sulle riviste settimanali e mensili, che era già largamente diffusa negli anni fra le due guerre, nel dopoguerra si trasforma in pubblicità a colori, contribuendo anch'essa a limitare il peso e le funzioni del manifesto.
Se negli anni Venti-Trenta, con A. M. Cassandre, Ch. Loupot, P. Colin e l'italiano Sepo in Francia, l'invenzione dello slogan e dell'immagine è opera in genere del progettista dell'affiche, in seguito, nel dopoguerra soprattutto, le campagne pubblicitarie appaiono pensate da complesse strutture organizzate a vari livelli per stabilire, con inchieste di mercato e altri strumenti di analisi sociologica, le ragioni migliori e i modi più efficaci per pubblicizzare il prodotto, per fissare i media dei quali servirsi (cinema, televisione, radio, riviste, quotidiani, m., insegne), e costruirne una precisa gerarchia che, nel secondo dopoguerra, vede in ordine di importanza il cinema, la televisione e, infine, settimanali, quotidiani e manifesti.
I luoghi e le dimensioni del manifesto. - Le storie tradizionali del m. non costruiscono un discorso sulle ''scritture'' né si pongono il problema dell'affiche e della sua funzione diversificata nel tempo. Ma il tema del formato, quello delle tecniche di stampa, dei luoghi dell'affissione e dei modi d'utilizzo, il rapporto con le altre forme di comunicazione pubblicitaria diventano questioni nodali dell'analisi. Converrà esaminarle partitamente cominciando dal formato.
Mentre il m. delle origini, legato all'immagine del circo o di vari prodotti, è in genere di notevoli dimensioni, il m. dello scorcio del 19° secolo in genere è di modesto formato (come le affiches per i cafés chantants o molte delle pubblicità di Chéret e della cultura jugend) mentre si torna al grande formato negli anni Venti e Trenta, e soprattutto nel secondo dopoguerra, quando, con lo sviluppo della motorizzazione privata e della grande viabilità, prevalgono formati grandi o grandissimi, pensati per una visione dall'automobile. Lo spazio del m. si trasforma: non più collocato all'interno della griglia delle finestre della città, non più pensato come una veduta aperta su una realtà diversa ma di pari dimensione di un dipinto, appare come spazio diverso e nuovo, pensato per una visione dilatata quasi in cinemascope, esattamente come il tipo di schermo utilizzato nei grandi cinema drive in negli USA. Il m. di grande formato orizzontale, diversamente dai grandi formati verticali che ritroviamo spesso a Parigi nel periodo fra le due guerre, è ideato per una visione rapida, come quello alle fermate delle metropolitane sempre a Parigi, e soprattutto ripetuto in modo da completare e mettere in simbolico movimento l'immagine.
Il formato del m. dipende dalla mutevole destinazione nel tempo. Dapprima è una grande immagine, un'illustrazione dilatata e espressa con una grafica in genere legata alle icone ''popolari''. Poi diventa una più piccola e raffinata riflessione formale sui prodotti commerciali, soprattutto tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Progressivamente, alcuni luoghi deputati della città (in genere le zone del centro direzionale o commerciale, dunque zone d'incontro e di scambio) vengono destinati ai manifesti. Qui il m. di piccolo formato si trasforma in enormi cartelloni dipinti, collocati su appositi supporti di legno o metallo, destinati a durare per lunghi periodi e a giovarsi anche di un'apposita illuminazione che sarà in breve tempo elettrica. Questi cartelloni si ritrovano a Londra come a New York e un po' ovunque nelle maggiori città: sono gli antecedenti dipinti − nati dal disegno di un grafico e dunque da una campagna pubblicitaria programmata − del grande cartellone a stampa, dell'affiche di enorme formato che prevarrà nel corso degli anni Trenta e soprattutto negli anni Cinquanta-Sessanta. Il mutamento non è semplice trasformazione delle dimensioni, ma anche dei luoghi del contatto col pubblico e dei modi di questo contatto. La struttura dell'immagine è come iperbolica ed è ritenuta efficace in quanto proporzionata alla nuova dimensione delle strutture abitative e degli uffici che si vengono costruendo nei centri commerciali delle città.
Questa trasformazione è da leggersi in connessione con il variare del sistema pubblicitario (Quintavalle 1977), e con l'immagine sempre mutevole della città e, in particolare, delle ''luci della città''. La trasformazione che l'illuminazione a gas porta nella comunicazione pubblicitaria è determinante per la sua diffusione. Il m. non è più semplicemente affiche per la visione di un pubblico diurno, ma viene pensato anche per un pubblico differente. Le pubblicità dei prodotti di largo consumo, che cominciano con la cultura jugend, sono da leggere in genere in pieno giorno; ma la serie di immagini che illustrano prodotti di élite e che puntano spesso su formati minori, sono invece funzionali a una presentazione in vetrine, in negozi, oppure in spazi interni e dunque anche per una visione con luce artificiale. Ma la rivoluzione, dentro il sistema della comunicazione urbana, avviene con la diffusione dell'illuminazione elettrica che permette ed esalta una città notturna, vitale e visibile quasi come quella diurna e spesso più accattivante, quando ad essere più visibili sono proprio le immagini pubblicitarie, le vetrine, le insegne illuminate. Rapidamente, allora, le insegne e le vetrine si trasformano. La luce impone sempre più l'utilizzo di grandi sezioni trasparenti. Una nuova cultura della vetrina, come del resto del m., prende piede fra le due guerre, dopo che la cultura del Bauhaus diffonde un nuovo modello di negozio, struttura spoglia e trasparente dove tutto è in evidenza.
L'immagine della città illuminata nel periodo fra le due guerre si accompagna a un nuovo modo di fare pubblicità: giornali ''scritti'' e immagini si accendono e spengono a intermittenza, bianche o a colori, da Times Square nel cuore di New York, a Londra, dai cafés chantants di Parigi a Milano. È la prima rivoluzione dell'immagine pubblicitaria cui presto, nel secondo dopoguerra, farà seguito una seconda, quella legata alla diffusione dei tubi al neon, piegati per disegnare forme, colorati per costruire immagini, utilizzati per scritte di ogni carattere e dimensione. Nel corso soprattutto degli anni Cinquanta e Sessanta, prima negli USA e poi in Europa, la città di notte diventa così una città ''scritta''. Negli Stati Uniti intere metropoli, come Las Vegas, che di giorno si presentano come una lunghissima strada costeggiata da edifici mediocri, di notte si trasformano in una lunghissima fantasmagoria di insegne pubblicitarie, in un vero e proprio ''racconto'' ininterrotto e mobile per immagini. Lo stesso deve dirsi, se pur in minor misura, delle insegne dei centri dello spettacolo o del loisir di tutte le grandi metropoli, da Broadway a New York fino a Londra, Los Angeles, Parigi, Tokio. La pubblicità notturna soppianta di fatto, per dimensione e impatto, ogni pubblicità espressa con altre tecniche; quelli che un tempo erano stati i grandi cartelloni dipinti vengono costruiti con forme luminose. Tutto questo naturalmente pone il problema della trasformazione dei modelli ma anche della collocazione dei m. nel contesto della moderna comunicazione pubblicitaria.
Un altro problema ''strutturale'' è quello delle tecniche di stampa e, quindi, del colore. Le tecniche di stampa del m., all'origine litografiche, in seguito si sono venute trasformando fino al rapido trasferimento dal bozzetto al pezzo finito per via di fotografia; ma fino agli anni Trenta, a Parigi, i grandi Cassandre, Colin, Loupot realizzano bozzetti in formato 1:1 dopo avere percorso l'intera fase progettuale dal piccolo schizzo all'abbozzo in medio formato. In seguito i modi della progettazione mutano notevolmente: nel corso degli anni Cinquanta l'uso dell'aerografo per la realizzazione dei bozzetti ha permesso una scrittura molto precisa, anche su formati relativamente ridotti, tanto da permettere una riproduzione fotografica anche nelle più grandi dimensioni. La diffusione di uno stile in sostanza iperrealista ha permesso anche di reinventare gli oggetti, di costruire, soprattutto a Londra e a New York, un ''naturale'' più vero del vero; una specie di nuova iconografia degli oggetti e dei prodotti dai colori accattivanti e portati al diapason. I grandi m. di questo periodo sono pensati secondo modelli che durano ancora oggi: è la cultura da cui nasce la pop art e che progetta, a New York e a Londra come si è detto, modelli che saranno poi diffusi in tutto l'Occidente.
Tradizioni d'immagine e mutamento dei significati. - Oggi chi progetta un nuovo m. ha davanti a sé dei veri e propri ''generi'' stabilizzati, delle scritture possibili che può usare e che sono già cariche di un loro senso. La più antica è certamente la ''scrittura'' del realismo, sotto la cui unica denominazione si sussume però un vero e proprio sistema di scritture che si sono succedute e trasformate nel tempo. Il realismo ottocentesco degli anni Ottanta-Novanta a Parigi, il realismo novecentesco degli anni Venti-Trenta a Berlino, a Roma o a Mosca, quello degli anni Quaranta negli USA, o ancora il realismo degli anni Cinquanta in Italia sono diversissimi fra loro e diversissimi ancora dal realismo delle immagini degli anni Cinquanta-Sessanta negli Stati Uniti. Comunque sia, la lingua del realismo resta un punto di riferimento irrinunciabile per il m., anche se dobbiamo distinguerne i diversi linguaggi in rapporto alle diverse culture.
Dietro il realismo ottocentesco a Parigi stanno la ricerca grafica di P. Gavarni e H. Daumier e, ancora, l'inventiva di G. Doré: sono loro le matrici culturali della ricerca di J. Chéret. Quanto al realismo novecentesco fra le due guerre che si manifesta in URSS, in Germania e in Italia, quello moscovita affonda le proprie radici nella cultura ottocentesca russa, mentre ben diverse sono le matrici della cultura berlinese che è in rapporto certamente con la tradizione accademica e con quella ottocentesca, ma che mostra rapporti precisi anche con Die Brücke e intrecci e connessioni con la Neue Sachlichkeit. Quanto all'Italia, una prima fase del realismo si ricollega alla tradizione parigina unendovi insieme i modelli di A. Beltrame (che saranno in seguito proseguiti da W. Molino), mentre il cosiddetto ''realismo'' di epoca fascista altro non è che una trascrizione schematica, quasi sempre efficace, della cultura neo-medievale (sia nella versione neo-romanica che neo-gotica), collegata dunque a modelli nazionali e portata avanti soprattutto dal gruppo di Novecento. Un'altra forma di realismo che emerge tra la fine degli anni Trenta e per tutto il periodo della seconda guerra mondiale nei diversi paesi dell'Occidente è quello di un sottogenere di m. costruito sulla base dei soggetti comuni, il cosiddetto m. di guerra; questi m. utilizzano come ''realiste'' lingue differenti, prevalentemente accademiche in Inghilterra, in Francia e negli Stati Uniti, con cadenze espressioniste a connotazione negativa in Germania (e di riflesso in Italia), dove la lingua espressionista era considerata propria della cosiddetta ''arte degenerata'', da O. Kokoschka a E. Heckel a E.L. Kirchner. Ancora fra le due guerre, in Unione Sovietica si hanno due contrapposte tendenze, quella legata a una diversa ricerca, soprattutto il fotomontaggio, e l'altra del m. descrittivo, analitico, fortemente disegnato e quindi accademicamente concepito (''realista'' appunto) che prenderà sempre più piede dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
Negli anni Quaranta e Cinquanta la connotazione negativa della grafia espressionista si mantiene, utilizzata com'è, per es., per i m. dei film dell'orrore, mentre il disegno ''realista'' s'intreccia con la cultura del fumetto di tradizione più esplicitamente narrativa e con l'illustrazione della medesima area. Diverso ancora il ''realismo'' dei tardi anni Cinquanta e inizi Sessanta negli USA, che assume elementi dalla cultura surrealista (fra l'altro dai progetti di affiches del primo Magritte), ma soprattutto dalla ricerca pittorica, usando la tecnica dadaista della dissociazione degli oggetti dal contesto o quella dell'estraniamento surrealista: di qui usciranno i maggiori artisti della pop art. I m. cinematografici, salvo rare eccezioni, sono caratterizzati un po' ovunque da un realismo esplicito, descrittivo, peraltro con varianti e componenti diverse da paese a paese, da cultura a cultura, che lasciano trasparire, fino agli anni Settanta e Ottanta, motivi neo-espressionisti, scritture accademiche, temi del realismo socialista rivisitato, schemi derivati dall'illustrazione ottocentesca: anche in questo caso la lingua che ancora oggi va sotto il nome di realismo è di fatto un coacervo di linguaggi diversi.
Un importante significato assumono inoltre le varie esperienze del colore e delle sue simbologie. L'affiche, il poster, il m., è certamente nato a colori o, comunque, colorato anche se su una base grafica in bianco e nero; e il colore ha esso stesso le sue culture, le sue tradizioni di significato, i suoi modelli. Nella moderna esperienza del m. queste culture, queste tradizioni appaiono intrecciarsi, secondo strati e significati differenti.
Tutti i m. che si riproducono e collezionano, salvo rarissimi esempi in Inghilterra e Germania, sono a colori. In Germania il manifesto in bianco e nero, in genere con matrice di legno, è soprattutto utilizzato in epoca espressionista, al tempo di Die Brücke, come recupero simbolico della tradizione ''nazionale'' della xilografia quattrocentesca da Schöngauer a Dürer; altrimenti l'immagine viene rappresentata a colori. Un altro recupero, esso pure fortemente simbolico, dello stesso modello, cioè di una netta riduzione o totale esclusione del colore (usando non una matrice di legno ma, in genere, di linoleum), si ha al tempo della cosiddetta contestazione giovanile nel 1968 a Parigi e a partire dal 1969 nel resto d'Europa. In questo caso però il recupero di immagini a un solo colore e di forme piatte, come ritagliate, appare una scelta di povertà prevalentemente voluta e solo in parte obbligata, a simbolo di contestazione, con la loro immediatezza e schematicità, della ricchezza e varietà del colore del m. commerciale, a sua volta simbolo della ''società dei consumi'' o società opulenta.
Dunque la presenza o assenza del colore ha assunto nelle diverse epoche significati simbolici precisi, tenuto conto che alcuni movimenti di avanguardia hanno appunto costruito specifici modelli del colore e del suo senso nella storia del manifesto. Rispetto alla tradizione accademica del m. che prevedeva certo un'immagine colorata, ma soprattutto costruita con chiaroscuro, volume, e dunque spaziata, appare interessante l'elaborazione operata dalle avanguardie in quanto sono loro a proporre del m. forme differenti. In realtà già nell'ultimo decennio dell'Ottocento in Francia e Germania appaiono sia pubblicità, soprattutto su riviste, che in qualche modo sembrano estrapolare gli oggetti dal contesto, sia disegni, stampati a colori su metallo, che appiattiscono e schematizzano forme e colori; ma a portare avanti un discorso innovatore sono sicuramente le avanguardie storiche.
Chi reinventa la funzione e il racconto del colore collegandolo al movimento è il futurismo, e la cultura del futurismo viene ripresa ed esaltata da R. Delaunay a Parigi. Da questa unione di modelli e dalla ripresa di temi del cubismo analitico nascono, negli anni Venti, le invenzioni della grande scuola parigina dell'affiche che contribuisce non poco alla riscoperta dell'oggetto, del prodotto, come immagine costruita sempre su un'iperbole di volume e, naturalmente, di colore. In Italia è F. Depero che, seguito da molti altri, sviluppa un discorso sull'immagine in movimento e anche sul gioco. Ma il colore di questa cultura del m. − che unisce elementi cubisti e modelli futuristi, e che si diffonde ben oltre i confini dei due paesi d'origine (per es. in Inghilterra con E. McKnight Kauffer) − il colore, per es., dei m. progettati in Italia da neocubisti come Seneca e C. Socrate, non è mai realista ma profondamente convenzionale, simbolico. Esso è diretta espressione della volontà di esaltare narrativamente un prodotto, staccandolo dal contesto, oppure annettendo un sistema mitico di allusioni allo spazio della fruizione del prodotto stesso. Secondo questa nuova funzione del colore, indipendente da modelli naturalistici, l'azzurro è non solo mare e cielo ma anche purezza e genuinità, verde non è solo campagna ma anche natura, giallo è luce, sole e quindi anche forza, rosso ugualmente forza, sanguigna anche, dello stesso elemento naturale.
Un altro sistema di modelli e di funzione del colore viene proposta dal Bauhaus, che ha le proprie radici storiche nella simbologia jugend del colore e, dunque, soprattutto in un complesso sistema di esperienze germaniche. Nella cultura Bauhaus la simbologia del colore dev'essere considerata non soltanto in rapporto alla proporzione degli impianti grafici che l'organizzano ma deve essere letta anche attraverso i nuovi significati che, mediante il colore, si intendono proporre. Il colore come viene utilizzato a livello didattico e nella grafica di J. Itten al Bauhaus, e come viene usato naturalmente da P. Klee e in parte anche da W. Kandinskij, assume funzioni simboliche ben diverse da quelle della coeva tradizione francese e italiana del manifesto. A Weimar e a Dessau, le due prime sedi del Bauhaus, ben presto emergono i profondi rapporti fra teosofia e ricerca pittorica di Itten e di Kandinskij e ancora l'esperienza alchemica del primo Itten e di P. Klee (Quintavalle 1973). Nel m. quale viene proposto dalla ricerca Bauhaus, salvo qualche iniziale attenzione alla cultura espressionista di Die Brücke, il colore assume molte volte una funzione simbolica per nulla legata al corrispondente colore del naturale: il giallo in genere è segno di forza e di illuminazione intesa in termini teosofici; il rosso è segno di passione, di amore, ma unitamente al bianco, al nero e allo stesso giallo, è indice del processo alchemico; l'azzurro è invece simbolo di spiritualità come del resto avevano suggerito W. Kandinskij e F. Marc nel loro Almanacco del Cavaliere Azzurro. La simbologia dei colori, e in parallelo l'indicazione teorizzata da P. Klee del bianco e del nero come non-colori mediati dai grigi, la diffusione dei numerosi testi teorici del Bauhaus sulla teoria dei colori, finisce per costruire e diffondere in Occidente un sistema simbolico di valori cromatici molto diverso da quello naturalistico e quindi predispone il m. moderno a un progetto narrativo diverso.
Intanto un diverso modello simbolico del colore e della sua funzione, anche nel m., muove da P. Mondrian, Th. van Doesburg e dagli altri del movimento De Stijl. A partire dal 1917, ma anche prima, essi puntano sull'uso dei colori ''puri'' e sull'assunzione di un valore assoluto alla funzione del colore, un colore non narrativo ma sottilmente carico di valori metafisici, legato alla riflessione teosofica sul mondo, elaborata da Mondrian e poi variamente ripresa dagli altri protagonisti del movimento.
La concezione del colore della cultura sovietica ha invece le proprie radici nella cultura popolare russa, in particolare per l'azione di W. Kandinskij alla ricerca, nei primi anni del Novecento, delle matrici delle culture e delle tradizioni locali, come del resto fa il primo M. Chagall, e come lo stesso Kandinskij farà ancora quando, tornato in Russia e rimastovi nella prima fase della rivoluzione, organizzerà un sistema di musei delle arti popolari in URSS. In questa azione di recupero, i colori simbolici della tradizione bizantina − che sono a fondamento del cromatismo delle icone − non sono respinti, ma semmai assunti ed esaltati nella pittura, e anche nella grafica, di questa prima fase. La ricerca operata dai futuri aderenti alle avanguardie costruttiviste muoverà, con N. Gončarova, K. Malevič, El Lissitskij, V.E. Tatlin e tanti altri, proprio da queste simbologie arcaiche delle forme e da una connessa rappresentazione del colore che vuole collegare il nuovo dei modelli del Bauhaus, e anche di De Stijl, con i significati del colore storicamente radicati nella cultura russa e, naturalmente, con la simbologia delle immagini rivoluzionarie. Rosso-rivoluzione, bianco-reazione sono infatti i valori, insieme al nero, della sequenza narrativa di El Lissitskij e del suo libro-manifesto contro l'invasione delle armate bianche (1919). A queste aree culturali che individuano differenti usi simbolici del colore si deve aggiungere, assai importante, la ''scuola'' parigina che, dopo il periodo fauve, prende a utilizzare un colore nettamente dissociato dalla sua funzione realistica, e che inciderà profondamente sulla produzione dei manifesti.
Un ulteriore sistema, e un'ulteriore tradizione carica di significati per la cultura del m., è rappresentato dalla fotografia, il cui uso appare presto determinante non solo per la riproduzione delle immagini ma per una nuova impostazione della grafica e del m. stesso. Anche se il m., con la sua tradizione realistica di rappresentazione disegnata e dipinta, era già in grado di rendere con le proprie tecniche l'oggetto, l'introduzione della fotografia è importante, perché la foto, rappresentata in quanto tale (spesso in bianco e nero) è usata e concepita come prova visiva di una citazione del reale. Nata sotto l'ipoteca del realismo ottocentesco, la fotografia viene spesso usata nel m. per dimostrare che l'affiche mette a confronto due realtà, quella mitica dell'immagine disegnata o dipinta e quella oggettiva e veritiera dell'immagine fotografica.
Le radici dell'uso rivoluzionario della fotografia risalgono al movimento dadaista berlinese, nelle prove di H. Höch e J. Heartfield, protagonisti di una vera e propria rivoluzione dell'immagine, sia dell'illustrazione che del m., con l'utilizzo del fotomontaggio e dell'intervento pittorico in una ricomposizione fortemente critica nei confronti della realtà, quella borghese della repubblica di Weimar e poi quella della dittatura hitleriana. L'eco di queste ricerche sarà immediata fuori dei confini, in particolare nell'URSS di Lenin e, dopo la sua morte, di Stalin. In URSS i costruttivisti, a cominciare da Tatlin, utilizzano i fotomontaggi dadaisti e anche la fotografia. Nell'impiego di questo genere d'immagine per il m. si distinguono soprattutto A. Rodčenko (un grande fotografo legato alla cultura del Bauhaus e a Moholy-Nagy) e G. Klutsis. Ambedue progettano importanti campagne di propaganda sull'elettrificazione e sull'industrializzazione del carbone e dell'acciaio in URSS e propongono al mondo socialista una specie d'iconografia ''rivoluzionaria'' fatta di fotomontaggi e di interventi pittorici, di vedute di un grande paese in perenne crescita e di volti di giovani comunisti combattenti. È un'immagine che non mancherà di essere divulgata rapidamente fuori dei confini con la vittoria sul regime nazista: da qui muove infatti l'iconografia del m. politico delle sinistre e soprattutto dei partiti comunisti e socialisti in Europa occidentale. Come si vede, anche nel caso della fotografia, una volta che il suo uso ha assunto un significato particolare in una fase storica precisa, esso mantiene poi come tale un sistema di significati legato al modello di origine. Va comunque ricordato che l'uso della fotografia nel m. si diffonde anche in area tedesca e italiana negli anni delle dittature nazista e fascista, con un impiego trionfalistico del fotomontaggio (sfilate e giovani nazisti, balilla e avanguardisti, ma anche aeroplani e carri armati, sommergibili e cannoni sono temi frequenti dell'affiche che precede il conflitto) anche se, in genere, sotto le due dittature prevalgono m. dipinti, o costruiti su base fotografica ma ritrascritti pittoricamente.
Un ulteriore mutamento nell'uso della fotografia in Occidente si ha a partire dagli anni Cinquanta quando, abbandonato il presupposto realista, s'inventa una foto a colori estremamente densa, talmente carica di dettagli da apparire più vera del vero, una foto che verrà esaltata e trasformata nella pittura dei grandi m. di fine decennio e del seguente. Quest'immagine viene trasformata nel corso degli anni Sessanta ad opera del Push Pin Studio, fondato a New York nel 1954, presso il quale lavora fra gli altri M. Glaser, ed è arricchita progressivamente di una cultura del colore e di un'ironia critica delle forme che ribalta il vecchio impegno politico dell'immagine fotografica. In Inghilterra e in Germania prevale, dopo la guerra, un utilizzo della fotografia diverso e singolare. In Inghilterra la citazione di frammenti fotografici, la ripresa di modelli antecedenti trasforma spesso le affiches pubblicitarie in immagini composite e sostanzialmente critiche nei confronti proprio del linguaggio, profondamente retorico ed estremamente vivace, della cultura statunitense. In Germania invece si assiste a una ripresa della cultura grafica del Bauhaus, che era stata perseguitata ed eliminata di fatto dal nazismo, e che aveva puntato soprattutto sull'opera di due fotografi come Moholy-Nagy e H. Bayer; tale cultura nel dopoguerra si diffonde soprattutto con la Scuola di Ulm, fondata e diretta da M. Bill nel 1950 e poi diretta fino al 1968 da Th. Maldonado, che propone una grafica e un'impaginazione rigorosa. L'utilizzo della fotografia è all'interno dei modelli proposti da Moholy-Nagy alcuni decenni prima, e la grafica è rinnovata nel lettering e nel generale proporzionamento del sistema secondo rapporti e indicazioni che avranno larga diffusione, in Occidente, soprattutto nell'ambito dell'affiche di élite più che in quella di massa. In quest'ambito fa eccezione la Svizzera, il cui livello della grafica è davvero inusitato, anche di quella a più larga diffusione, e anche in virtù dell'impegno, dopo il Bauhaus e dopo Ulm, di grafici come M. Huber. Nell'Italia dell'immediato dopoguerra cresce l'attenzione critica per il m. politico di Rodčenko e Klutsis, e della Höch e di Heartfield; ricerche che vengono assunte a modello da L. Veronesi e da A. Steiner per i loro m. e per la grafica.
Un altro settore, di solito trascurato, è quello della grafica del m. che ha istituito una tradizione di tipo particolare, con una grafia disegnata, non realistica, ma ironica, inusitata, vivacissima. Le radici sono nella cultura del Punch in Inghilterra o di periodici francesi come L'assiette au beurre, mentre per l'elaborazione dell'immagine figure determinanti sulla scena parigina sono H. Daumier e le sue caricature, di segno e intenti ben diversi dalle illustrazioni di P. Gavarni o di G. Doré. Da questi diversi modelli e dal rovesciamento di senso della simbologia arcaica delle immagini ufficiali, nasce sia in Francia sia in Italia una grafica antagonista e un nuovo m. politico, quello del Partito socialista (Bianchino 1984, Quintavalle 1984, Calzona 1984). Nel sistema del racconto ''politico'' anche il fascismo utilizza la grafica e la caricatura (Quintavalle 1975) in modo funzionale, per evidenziare la critica nei confronti di una realtà che il m. racconta invece con altri strumenti. La lingua della caricatura con una sua funzione precisa, resta anche nel m. politico nel dopoguerra, in Italia così come in Francia o in Inghilterra o in Germania, ma l'utilizzo di questa particolare lingua appare soprattutto nei gruppi minori e antagonisti.
Questi linguaggi, sia grafici sia dell'immagine, sono veri e propri strumenti retorici con cui i grafici dei m. determinano un sistema di significati o, meglio, costruiscono attese di senso da parte di chi guarda. Linguaggi che, come abbiamo veduto, mutano di senso nel tempo ma costruiscono comunque un'''iconologia'' dell'immagine destinata a fissarsi e, assieme, a collocarsi nei più diversi contesti.
I generi del manifesto. − Nel primo dopoguerra e ancora più negli anni Sessanta-Settanta si è determinato un notevole spostamento di significati e, quindi, una ridefinizione dei generi del m., la cui collocazione nel moderno sistema dei media appare in rapida trasformazione anche per il crescente peso della televisione. La tradizione d'immagine, che era stata fortemente neo-cubista e in parte anche neo-futurista in Francia e Italia e sostanzialmente realista negli USA, subisce nel dopoguerra una netta trasformazione. Queste scritture appaiono rapidamente messe ai margini da una nuova forma, più aperta e libera, legata soprattutto alla progettazione di R. Savignac a Parigi e alla sua sottile narrazione carica d'ironia che si diffonde anche in Italia. Con Savignac operano numerosi altri progettisti legati tutti, comunque, a una libera evocazione delle grafie di Dufy, di Matisse, in parte di Miró e poco attenti al realismo e ancora meno alla cultura del ''cubismo sintetico''. Il m. commerciale propone pertanto un'immagine diversa da quella Bauhaus e delle altre avanguardie, che la cultura francese rapidamente esporta un po' ovunque, anche oltreoceano. Il m. realista resta nel frattempo confinato all'ambito del m. cinematografico dove assume particolare sviluppo, in Italia, prima con A. Ballester (Quintavalle-Campari 1981; Bianchino 1989) poi con numerosi altri autori che contribuiscono a costituire una sottile sistematica di significati all'interno dello schema realista.
La cultura del m. di ascendenza Bauhaus prosegue in Occidente soprattutto in ambito elitario e in paesi come la Germania e la Svizzera, mentre il prodotto commerciale viene raccontato utilizzando altre culture d'immagine. Il paese più legato a una cultura arcaica, a un uso assai poco elaborato della fotografia è l'Italia dove si impiega la foto, per es., per le grandi affiches dell'ENIT in cui si usano le riprese di B. Stefani, raffinato fotografo e buon narratore. La foto viene usata anche per la famosa pubblicità del sapone Palmolive che ha come protagonisti dive e divi notissimi ma ripresi con immagini di qualità modesta. In Italia la situazione non appare rinnovarsi se non per le riprese sapientemente evocative del fascino cubista degli oggetti proposte da A. Testa, un grafico che inizia a far m. negli anni Trenta tenendo conto della cultura futurista e di quella dell'astrazione legata alla galleria de Il Milione. Comunque le invenzioni di Testa trasformano la cultura italiana dell'affiche caricando il racconto di verve, d'ironia e di nuovi personaggi, che entrano ormai anche negli spot della televisione prima in bianco e nero e poi a colori.
Nel corso del secondo conflitto mondiale il m. era stato quasi sempre disegnato e dipinto e non fotografato anche perché il disegno, la pittura del bozzetto a tempera e poi stampato a colori permettevano un impatto molto più efficace sul pubblico. Gli autori di questi m. realisti, quasi tutti i maggiori progettisti del momento, in Italia, in Germania, in Francia, in Inghilterra, negli USA, utilizzano una medesima lingua, ritenuta la più popolare e dunque la più efficace. Dietro le diverse culture stanno tradizioni diverse: si è quindi più attenti alla fotografia di cronaca negli Stati Uniti, dove dal 1936 si pubblicano le due grandi riviste settimanali Life e Look, che presentano racconti fotografici scattati dai grandi narratori dell'immagine di cronaca; si è più legati invece a una diversa invenzione narrativa in Inghilterra, dove c'è una forte tradizione caricaturale che emerge in diverse affiches; mentre si è più legati al realismo fotografico in Germania. In Italia questo realismo, che somiglia a quello di A. Beltrame e dei suoi imitatori, viene ripreso nel corso del secondo conflitto dagli autori di m. per la Repubblica di Salò, diventando poi il modello narrativo per i m. dei partiti di massa, da una parte la Democrazia Cristiana (Quintavalle 1976) dall'altra il Partito comunista italiano.
Nel dopoguerra sia il m. cinematografico sia il m. politico sono in genere realistici, salvo poche eccezioni, in tutto l'Occidente, mentre la crisi dell'affiche tradizionale viene dalla difficoltà di costruire attraverso il solo utilizzo del m. un'immagine pubblicitaria coerente. La crisi è determinata dalla diffusione della televisione prima in bianco e nero, poi a colori, diffusione che di fatto cambia completamente il senso del m., le sue possibilità di uso, la sua funzione narrativa. Il m. diventa il luogo di richiamo di un ''racconto'' ideato e programmato altrove, cioè dalla televisione, un richiamo che deve d'altra parte essere più breve rispetto a quello, fondamentale per l'informazione cui è destinato, pubblicato sulle pagine dei settimanali a colori. Dopo la televisione e le pagine delle riviste, il m. diventa il terzo livello dell'informazione e per questo si specializza: abbiamo così un m. per la visione dall'automobile, un m. per le cantonate, un m. più piccolo per interni (in genere per la vetrina).
I generi dei m. commerciali hanno sottospecializzazioni che i pubblicitari giudicano rilevanti per diversificarsi del racconto in relazione ai diversi prodotti, come generi alimentari di massa o di élite, detersivi, automobili, cinema, profumi, alcoolici, pubblicità di tipo istituzionale e, ancora, pubblicità di spettacoli e, in un settore assai specializzato, di mostre d'arte. Siamo davanti a una distinzione di contenuti, e dunque d'impianto di racconto, che spiega la serie di trasformazioni in atto nei generi stessi.
Soprattutto nel secondo dopoguerra, il cambiamento dei modelli d'uso e dunque delle immagini dei prodotti commerciali determina, fra i generi narrativi del m., gerarchie diverse. È infatti evidente che in URSS un intero insieme di pubblicità o non esiste per lungo tempo, quanto meno fino all'epoca kruscioviana, oppure ha caratteri assai diversi, prevalendo in quella cultura i contenuti sociali della pubblicità, funzionali al sistema di produzione e distribuzione di proprietà collettiva. Diverso il caso della Cina dove l'utilizzo della pubblicità è stato, fino in epoca recente, soltanto ideologico, senza riferimento al consumo di singoli prodotti e volto semmai a esaltare concetti astratti, modelli comportamentali. Per questo l'analisi delle vicende dei generi narrativi del prodotto di consumo può meglio essere delineata soprattutto in Occidente e nei paesi che all'Occidente si collegano.
La distinzione dei generi del m. in relazione ai contenuti viene di fatto teorizzata già nel periodo fra le due guerre, ma emerge con chiarezza solo con l'istituirsi delle indagini di mercato e dei modelli delle campagne pubblicitarie proposti dai programmatori nel secondo dopoguerra. I m. variano nel formato e nella struttura a seconda del tema. I grandi m. cinematografici e per i prodotti di largo consumo si giustappongono a quelli più piccoli per profumi o per altri generi di élite e alle relative pubblicità sulle pagine di raffinati settimanali.
Si viene in tal modo configurando una vera e propria struttura narrativa dei diversi generi, per cui il m. per prodotti di consumo (come i detersivi) è asseverativo, propone mitiche libertà dalla fatica e dal lavoro, promette alle donne indaffarate dentro le pareti di casa una vera e propria liberazione dai condizionamenti ripetitivi del lavoro casalingo (Quintavalle 1970). Il m. delle bevande estive di largo consumo è collegato, come quello dei gelati, alla mitologia della fuga dal mondo del lavoro: dove il gelato o la bevanda equivalgono a vacanza e quindi a loisir. Un altro genere di m. è quello dei viaggi e delle vacanze, soprattutto nel secondo dopoguerra quando a questo tipo di consumi può accedere un pubblico assai più ampio e benestante, mentre, fra le due guerre, la destinazione di tali campagne pubblicitarie era nettamente più elitaria. Il racconto sui m. diventa molto variegato, ma sempre legato a immagini mitiche, con un linguaggio composito, che mette a frutto gli stilemi dell'immaginario collettivo: palme, mari azzurri, surf, caccia subacquea, foreste tropicali, oppure trekking e tundre sconfinate, osservazione edenica del mondo animale, il tutto comunque costruito tenendo conto delle immagini standardizzate del mito del viaggio e dei luoghi lontani e intatti.
Un settore a parte è quello del m. e, in genere, delle campagne pubblicitarie delle automobili, legato, alle origini, alla mitologia della velocità e della potenza; poi alla simbologia del lusso e del confort, e, in tempi recenti, al tema della sicurezza e dell'economia dei consumi. La trasformazione delle campagne pubblicitarie dal dopoguerra a oggi nei diversi paesi, andrebbe analizzata caso per caso, date le numerose tipologie del racconto, con modificazioni e varianti che puntano volta a volta sull'auto familiare sicura oppure sul mito dell'auto veloce e aggressiva, prevalente per es. in una certa fascia di pubblicità in Europa negli anni Cinquanta e Sessanta, o ancora sull'auto di lusso spesso pubblicizzata attraverso canali diversi da quelli del grande consumo.
Il m. cinematografico, costruito per una sintesi, su un solo piano, di episodi diversi che diano conto dell'intera struttura del film, è tra i vari generi del m. quello più conservatore in termini di linguaggio, e funzionalmente didascalico in termini narrativi. In molti casi, inoltre, il m. viene riproposto tale e quale nei diversi paesi, con la sola ovvia variazione delle scritte, quasi a conferma di una cultura internazionale del linguaggio realista; rare eccezioni si hanno in Francia, in Italia, in Spagna, con l'impiego di affiches diverse dal ''modello'' prodotto in genere per il mercato statunitense, che a partire dal secondo dopoguerra ha preso a esportare film in tutto l'Occidente.
Altre campagne pubblicitarie di massa, di altro genere narrativo, sono quelle per cucine, elettrodomestici, televisori, ciascuna con connotazioni diverse a seconda delle culture e dei paesi: le più arcaiche e tradizionali presentano semplicemente il prodotto enfatizzandone le forme; le altre, più raffinate, preferiscono porre l'accento sulle funzioni e sull'uso. Di massa e largamente diffuse sono inoltre le pubblicità di alimentari, dalla pasta agli hamburger, dallo scatolame ai self services: anche qui, all'inizio predomina l'esaltazione dell'immagine del prodotto, successivamente il prodotto è associato alla promozione di uno stile di vita. In Italia, per esempio, è il caso delle pubblicità di G. Sanna per la Barilla (alimentari), costruite sulla mitologia della fiaba, della famiglia, della sicurezza, del ritorno dal viaggio e presentate con una lingua agevole e accattivante. Diverse le pubblicità per la Benetton, una casa di abbigliamento, progettate dal fotografo O. Toscani ed esportate in tutto l'Occidente: dapprima i diversi ''colori'' delle stoffe vengono presentati come metafora dei colori della pelle di tutti i popoli, poi la scelta di associare il marchio alla pubblicità-denuncia di tutti i conflitti e di tutte le contraddizioni della nostra società: il racconto, scontato e prevedibile delle pubblicità del ''consumo'', si sposta nell'ambito di campagne pubblicitarie civili e impegnate.
Un genere a parte di pubblicità è quello legato al mondo dell'arte, che si diffonde soprattutto nel secondo dopoguerra: per le grandi mostre, specie monografiche, in luogo pubblico oppure in galleria privata. Gli stessi artisti in genere realizzano m. che, se firmati e anche stampati su supporto più resistente e raffinato, possono essere venduti come un'edizione grafica vera e propria: una maniera mercantile per recuperare questo tipo di m. al mondo dell'arte.
Quanto ai m. di massa, il modello più diffuso è ancora quello ''realista'' sia in Occidente che nei paesi ex-socialisti e nella Cina. In tal senso, importanti sono state le pubblicità legate ai due maggiori conflitti dopo la seconda guerra mondiale, la guerra di Corea negli anni Cinquanta e quella del Vietnam negli anni Sessanta. Esse rappresentano due livelli di comunicazione e due tipologie di m. diverse. Nel caso della prima abbiamo le immagini ufficiali del consenso e della propaganda bellica che accettano e sviluppano l'antica iconografia del confronto e, dunque, della tradizione delle affiches di guerra. Nel caso della seconda abbiamo la nascita di un m. nuovo, ideato negli USA in area soprattutto liberal e che poi si diffonderà in Europa. È un m. che contesta non solo la guerra ma, soprattutto, la retorica della sua immagine. In un primo momento la cultura della contestazione si avvale della tradizionale immagine antagonista al realismo, il fotomontaggio dadaista da J. Heartfield ad H. Höch; poi soprattutto nel corso degli anni Sessanta si ha una contestazione dall'interno di questi modelli, nei confronti della cultura ufficiale che propaganda la guerra nel Vietnam, con l'applicazione dello spray, dei colori fosforescenti, di forme non finite, secondo uno stile che caratterizza l'ambiente radical e che si diffonde in Occidente.
Anche a Parigi si elaborano modelli alternativi: la Francia dapprima contesta la guerra in Algeria col consueto linguaggio dei m. legati alla cultura dada (fotomontaggi, bianco e nero) di contro alla retorica patriottarda dell'ufficialità; poi, attorno al 1968, la contestazione degli studenti riprende i modelli dei primi anni Sessanta, che si erano sviluppati anche nella rivolta di Berkeley (1965) e delle altre università statunitensi: linoleum, grafica arcaica, colori semplificati e ''poveri'', tutto per controbattere la propaganda e l'immagine dell'ufficialità. In questo contesto di forte ideologizzazione si costruisce una sorta di iconologia, un nuovo significato delle immagini: quelle alternative usano la lingua che abbiamo descritto, le altre, le ufficiali, mantengono le icone delle pubblicità mercantili.
Negli Stati Uniti, dopo la contestazione, l'antica immagine pubblicitaria dei prodotti entra in crisi. Nel corso degli anni Sessanta alcuni fra i maggiori pubblicitari finiscono per abbandonare la professione e si spostano nell'area della ricerca artistica (R. Lichtenstein, T. Wesselman, A. Warhol, J. Dine, J. Rosenquist), mentre a New York il Push Pin Studio e M. Glaser rielaborano profondamente i modelli pop e propongono una ripresa di scritture attente anche alla tradizione espressionista e con un rapporto non descrittivo con la realtà e gli oggetti.
Nei principali paesi dell'Est europeo e in Cina la situazione del m. e delle campagne pubblicitarie appare profondamente diversa da quella del periodo dagli anni Cinquanta ai Settanta.
In URSS la produzione del m. è strettamente centralizzata e controllata a ogni livello. Se negli anni Trenta le campagne pubblicitarie si collegavano ancora alle avanguardie europee, nel periodo bellico e nel dopoguerra prevale la cultura del realismo, con immagini dipinte di forte impatto retorico, funzionali alle grandi campagne di persuasione del regime. Esistono anche m. a carattere diverso, disegnati, caricaturali, ironici, volti per es. contro la religione ortodossa o i ''capitalisti'', ma il genere di m. dominante è quello realista, nelle sue più diverse accezioni. In Cina si riscontrano alcuni elementi diversi. Il m., nel periodo di Mao, appare soprattutto legato a un'identificazione iconica fra lo statista e la tradizione del Buddha. La diffusione di questo stile di m. e delle altre immagini del protagonista della rivoluzione è uno strumento indispensabile per connettere alla tradizione i mutamenti della società cinese. In ogni caso, ci si serve ancora di grandi immagini dipinte piuttosto che di m., e di testi, tatzebao, parole d'ordine, piuttosto che di immagini. Solo in tempi più recenti, in relazione alle profonde trasformazioni economiche e al nuovo programma di consumi diversificati, vengono introdotte pubblicità mirate e diversificate; ma anche in Cina la fase dell'utilizzo del m. come strumento di comunicazione sembra essere superata dalla televisione. Un altro caso particolare è Cuba, dove nel corso degli anni Sessanta e Settanta viene prodotta un'immagine nuova: realismo socialista ma mescolato a elementi diversi (Quintavalle 1984), soprattutto la cultura pop statunitense, utilizzata in funzione politica con notevole efficacia e con singolare duttilità di racconto. Ma si tratta di un'eccezione in un sistema sostanzialmente ligio ai modelli realisti dei regimi comunisti.
Una frattura netta emerge nel corso degli anni Settanta e dei primi Ottanta, allorché ci si deve confrontare con una serie di fatti nuovi che incidono sulla pubblicità e sulle sue forme e anche sui modi di fare il manifesto. La diffusione della televisione a colori negli anni Ottanta raggiunge la globalità dei consumatori relegando ai margini l'immagine in bianco e nero; il peso crescente degli spot, l'invasione generalizzata delle televisioni private determinano un accentuarsi del sistema dei racconti pubblicitari e la conseguente emarginazione dei manifesti. Di contro a questo fenomeno di progressivo restringimento degli spazi della comunicazione si escogitano modi di comunicazione e soggetti nuovi, che trasformano i luoghi e le funzioni dei m. e delle campagne pubblicitarie, e insieme conferiscono loro nuova funzione e dignità.
Nella ''scrittura'' del m. politico s'inseriscono temi nuovi provenienti dal fumetto, soprattutto da quello statunitense delle strisce di Schulz. La narrazione realistica del fumetto era stata infatti emarginata dalla traduzione delle strips statunitensi che, già diffuse in Europa nel corso degli anni Cinquanta, prendono rapidamente piede per esplodere negli anni Sessanta. Le strisce si pubblicano su quotidiani e periodici, sono raccolte in volume, modificano i gusti dell'élite e le lingue della comunicazione.
In Italia, per es., l'antica satira, che era stata emarginata, salvo la tradizione de Il Travaso e di G. Novello, e poi de L'uomo qualunque e di G. Guareschi, e che aveva dietro la grande cultura de L'Asino con le invenzioni di G. Galantara, si trasforma completamente. In Francia, in Inghilterra e soprattutto in Germania e in Italia, ma anche negli Stati Uniti, si affermano una nuova lettura critica del politico e una lingua disegnata in modo variatissimo: da una parte, negli USA, l'immagine sempre controllata delle copertine del New Yorker, del Times e di Newsweek, dall'altra, in Italia, le immagini di un giornale satirico come Il Male (Quintavalle-Bianchino 1981), una delle esperienze rivoluzionarie nel settore della critica, dove alcuni autori, a cominciare da Vincino (Quintavalle 1981) e da R. Perini (Bianchino 1985) propongono una trasformazione delle funzioni del disegno con una nuovissima immagine grafica. L'usura delle lingue del realismo ha mutato di fatto, proprio nell'ultima generazione, il sistema di senso, le funzioni e rapporti fra i diversi generi nella cultura del manifesto.
La crescita dei gruppi della contestazione, nati dentro le università, e della loro grafica alternativa s'intreccia con lo sviluppo delle campagne dei gruppi ambientalisti e di altri partiti minori, come i radicali e negli Stati Uniti i liberals, che propongono forme e immagini non dissimili in tutto l'Occidente e che si contrappongono all'immagine più tradizionale del politico, che usa m. fotografici col volto dei protagonisti presentati in modo tanto asseverativo quanto inefficace. Negli USA, soprattutto a New York, ma anche a San Francisco e Los Angeles, si sviluppa una cultura del m. profondamente nuova che esplode nel corso degli anni Settanta e più ancora negli anni Ottanta.
In questa direzione alcune altre simmetriche modifiche si producono in Europa: alla lingua rivoluzionaria, di rapida grafia e legata direttamente all'École de Paris di un grande protagonista in Francia e in Europa come R. Savignac, succede nell'ultimo decennio una ricerca differente. Alle immagini dell'area del politico fa da riscontro un'affiche che recupera antiche radici surrealiste, da Magritte, a M. Ernst a G. De Chirico. Si utilizza un sistema di lingue che caricano l'immagine, apparentemente realistica, di durate diverse, per costruire una comunicazione inattesa, nuova: di qui le ricerche di J.-M. Folon che fanno scuola e si diffondono dalla Francia all'Italia e in tutta Europa.
Capitolo a sé nella storia del m. è quello del poster, del m. da conservare ed appendere, come un quadro, negli interni e non destinato a distruggersi come il m. commerciale. Un segno del rifiuto di questa distruzione si trova forse già nella cultura dell'informale, per esempio nei décollages di M. Rotella che trasformano i m. strappati dai muri in perenni opere d'arte, sottraendoli al loro effimero destino; ma il poster si collega anche alla tradizione delle affiches d'artista e a quella, recente, del m. delle grandi mostre d'arte che viene prodotto più per il collezionismo che per essere appeso alle cantonate. Il poster come genere a sé possiede anche un'omogenea iconografia: i m. delle mostre d'arte, per es., presentano particolari di un'opera chiave e la loro popolarità dipende dall'essere riproduzioni di autori notissimi, quasi sempre impressionisti, postimpressionisti o artisti dell'École de Paris.
Un altro genere che continua a tenere il campo, mentre tramontano le immagini tradizionali del m. turistico, è quello dei m. che riproducono vedute o parti di città, prodotti essi pure per la diffusione pubblicitaria ma che sono sempre più pensati per la diffusione come poster. Da una parte stanno le immagini ufficiali, asseverative, legate al modello fotografico o che elaborano simbolicamente un tema guida; dall'altra le immagini scritte prevalentemente in lingua pop di New York o Parigi o Londra. Significativo in quest'ambito è il contributo della grafica londinese degli anni Sessanta e di quella statunitense (si pensi a certi m. di San Francisco, Los Angeles, oltreché di New York).
Determinante per la trasformazione del m. è un altro genere particolare: il poster dei cantanti diffusosi su scala mondiale con i Beatles; un genere che nasce a Londra e s'impone poi all'intera cultura statunitense ed e uropea, inaugurando la caratteristica immagine pop delle copertine dei dischi microsolco a 33 giri e a 45 giri e dei poster relativi.
In questo complesso sistema di generi la cultura italiana ha dato recenti contributi su linee e secondo un percorso di ricerca diversi: B. Noorda ha proposto un'immagine legata ai modelli del Bauhaus; G. Iliprandi un'immagine netta di forte efficacia grafica, e R. Sambonet si è confrontato con la cultura del posters d'arte innovandolo secondo moduli di De Stijl; su altro fronte M. Cresci e G. Sassi hanno reinventato la grafica sul filo delle lingue della contestazione con risultati di grande interesse.
Questa analisi dei generi del m. ci permette di cogliere una graduale trasformazione. Mentre la città finisce per spogliarsi dei grandi segni colorati del m., schemi antichi di un racconto o di una fiaba scritta sulle cantonate, questi stessi racconti si sono trasferiti dentro le case, fornendo rinnovata dignità e nuova funzione narrativa al manifesto. Cresce sempre di più il fenomeno del collezionismo che somiglia a quello delle raccolte d'arte. Anche se il m. rimane ampiamente ai margini della riflessione artistica ed estetica, ciò che muta è l'idea della funzione di tutte le immagini nel contesto sociale, e anche l'idea degli spazi e della loro destinazione: l'affiche collocata negli interni delle case muta il nostro concetto di bello e di decoro. Cresce tra l'altro anche un collezionismo di tono ''artistico'' dei m. più tradizionalmente commerciali, soprattutto del periodo delle origini e di quello fra le due guerre, e s'incrementano le collezioni museali. Negli anni Novanta il m. sembra in fase di rapida trasformazione, pronto a rientrare a pieno titolo nel contesto della cultura grafica dell'Occidente.
Le prospettive critiche. - La ricerca moderna sul m. presenta un aspetto singolare: numerosissimi studi, non necessariamente specialistici, sono a carattere settoriale e analizzano il m. e i suoi ''generi'' a livello dei contenuti. Si hanno così ricerche sul m. di guerra, del primo o del secondo conflitto mondiale o di altri eventi bellici (Rickards 1968, Darracott 1971, Hampel-Grulich 1971, De Micheli 1972, Judd 1972, Yanker 1972, Schardt-Feuerstein 1973, Affiches 1974, Dernière 1976, Rivoluzione 1978, Zemann 1978, Femme 1979). C'è il m. cinematografico che spesso ha avuto rassegne proprie, perché configura un racconto realistico con modelli propri e per il suo particolare rapporto con la fotografia (Borga-Martinand 1977, Quintavalle-Campari 1981). Esiste una ricerca sul m. legato alla cultura delle avanguardie in cui il m. figura quasi sempre come elemento accessorio e in subordine: così è stato nelle importanti rassegne promosse al Beaubourg sui rapporti fra Parigi e le altre capitali dell'arte (Parigi 1977, 1978, 1979, 1981), e nelle mostre su Futurismo & Futurismi (1986) o sulle avanguardie sovietiche (Avanguardia 1989).
Il problema della storia del m., in particolare di quello francese di fine 19° secolo, viene in genere risolto a livello monografico con singole trattazioni, per es. su Toulouse-Lautrec (Jullien 1967, Wittrock 1985), su Chéret (Exposition 1939, Broido 1980) e su molti altri protagonisti della scena parigina. L'analisi del m. jugend rimane legata alle ricerche su singoli momenti e vicende della cultura jugend, come dimostra il caso della grande rassegna della civiltà a Vienna (Arti 1984), in cui erano presenti anche le immagini stampate su carta dei m.; lo stesso è avvenuto di recente per le indagini sulla grafica, e di conseguenza sul m., della cultura espressionista, da Heckel, a Kirchner, a tutti gli altri (Daube-Wolf 1974). Anche per le avanguardie sovietiche scarsa è l'attenzione rivolta al m., se si eccettuano i casi di El Lissitskij (1991), del costruttivismo con V. E. Tatlin, e della grafica di alcuni altri protagonisti da K. Malevič a V. Majakovskij (Malevitch 1990, Marcadé 1990); quanto a A. M. Rodčenko e G. Klutsis, la pubblicazione dei m. si collega in genere o a ricerche monografiche (Chan-Magomedov 1986, Rodčenko 1992) oppure a ricerche prevalentemente interessate alla propaganda del periodo staliniano. Il rapporto fra m. e arte sembra quindi risolto in favore di una considerazione marginale del m., salvo rare eccezioni.
Un problema critico a parte è quello del m. commerciale. La raccolta di m. commerciali fra le due guerre, tranne rari casi soprattutto di collezionisti privati, non ha trovato sistemazione museale se non nel dopoguerra. Oggi i centri più rilevanti sono il Museum of Modern Art di New York, il Musée de la Publicité a Parigi, e altri a Berlino, Londra, Mosca e, in Italia, a Treviso e Parma (CSAC, Centro Studi e Archivio della Comunicazione). Tale disattenzione ha determinato la scomparsa di materiali importantissimi, in pratica quasi tutti i bozzetti e gli esecutivi in formato 1:1 che le case editrici delle affiches hanno distrutto, il che rende assai arduo ritrovare se non l'originale addirittura un esemplare del m. a stampa. L'attenzione suscitata da due grandi mostre, a New York (High 1991) e a Parigi (Art & Pub 1990), sul rapporto fra arte e pubblicità ha indotto un completo ripensamento dei giudizi e degli atteggiamenti critici. Anche nel caso della pubblicità commerciale le ricerche appaiono settoriali: Loupot, Cassandre, Colin e poi Savignac e pochi altri hanno, per es. in Francia, trattazioni monografiche, ma queste si limitano a un elenco di m. e a una biografia dell'artista. Proseguono invece le pubblicazioni tematiche sul m.: quello ferroviario, quello turistico, o quello delle singole città, favorito da una precisa attenzione degli assessorati e delle amministrazioni, ma d'interesse limitato. In Italia ricerche critiche sono state condotte su Sepo (Quintavalle 1979), A. Ballester (Quintavalle-Campari 1981) e M. Nizzoli (Quintavalle 1989), mentre libri dedicati a singole imprese come la Rinascente (1985), la Campari (Le Cannu-Dorfles 1989), la ditta Mele (Manifesti 1988) hanno portato avanti l'indagine, pur utile, sull'immagine di marca.
La riflessione sul m. a livello più generale presenta aspetti più complessi: gli storici dell'arte toccano raramente la vicenda del m. e, quando lo fanno, ne evidenziano l'aspetto ideologico, come avviene nelle ricerche di M. De Micheli sul m. di guerra, o la situano in una prospettiva d'indagine sociologica, per es. nel caso di M. Gallo in Francia o di una importante mostra milanese (L'Italia 1989). Un'indagine ideologizzata del m. si ritrova in altre trattazioni, come nella rassegna in questo settore pionieristica per l'Italia, La tigre di carta (1970), rivolta all'analisi del m. commerciale. Interessanti anche alcune ricerche a carattere storico-artistico sullo specifico tema del m. (Quintavalle 1971, 1972, 1977) che hanno finito per proporre altre prospettive d'indagine.
A livello teorico, il m. è stato considerato in modo del tutto marginale e indiretto dalla Scuola di Francoforte in quanto prodotto di massa; e neanche R. Barthes riesce a porlo al centro dell'attenzione quando, con Mythologies (1957), punta sull'analisi della comunicazione della moderna cultura. Un'attenzione marginale riceve da U. Eco nelle sue pur attente analisi del sistema dei media, né J. Baudrillard, attentissimo alle problematiche della comunicazione e in particolare a quella del design, prende in considerazione il problema del m. che, del sistema-città, è una componente fondamentale (1968). Da citare alcune acute notazioni di G. Dorfles (1963, 1967, 1968, 1968a), anche se fatte in modo marginale perché non interessato alla cultura di massa; e anche A. Mendini, che proprio del Kitsch s'interessa a fondo, manca di considerare il m. come sistema della comunicazione urbana pur essendo attento ad altri aspetti dell'arredo della città (1981, 1983, 1991).
Va comunque riconosciuto che il m. dev'essere finalmente reintegrato nella storia della grafica. Che sia grafica ''alta'' o ''bassa'', è un problema di tecnica, ma nessuno del resto potrà mai stabilire in modo istituzionale una gerarchia a priori fra le tecniche. Va semmai ricordato che è stata la cultura del m. a divulgare le immagini di molta avanguardia trasformandole da icone di élite in icone di massa, cioè patrimonio culturale di tutti. Vicenda non diversa hanno avuto il fotomontaggio, la lingua cubista e, prima, quella futurista, e ancora il dada e il surrealismo. Tanto più che l'immagine del m. non è un'immagine che giunge di necessità a posteriori rispetto alla ricerca dell'arte; in quasi tutti i casi, certamente comunque per il surrealismo, il cubismo e la ricerca pop, è stata la cultura del m. ad elaborare forme e formule che saranno riprese successivamente dall'arte. Erronea è dunque la prospettiva che distingue il sistema dell'arte e quello del m. come universi separati: due ambiti che vanno semmai integrati e analizzati entro un'unitaria prospettiva di ricerca. È il compito della critica attuale e del nuovo collezionismo del m. che non potrà non raggiungere le sale delle collezioni ufficiali dell'arte. Vedi tav. f.t.
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