Manomorta
Nell'evocazione primigenia della mano recisa del vassallo defunto inviata al dominus per significargli il venir meno del servigio feudale, pur in un contesto semantico molteplice in cui l'espressione ha acquisito significato vario, ma comunque riferito a uno status costante di immobilizzazione dei beni, in quanto inalienabili e intrasmissibili mortis causa, non v'è dubbio che il complesso dei beni della Chiesa per la stessa vastità (nell'Occidente cristianizzato da oltre un terzo sino a metà dell'intero territorio) finì nel tempo per rappresentare l'esempio più emblematico di manomorta. Proprio allorché si prefigurarono provvedimenti intesi a incamerare i beni ecclesiastici, si accentuò la consapevolezza della loro improduttività: "bona enim Ecclesiastica, utpote alienari vetita, et publicis oneribus exempta, civitati morta videbantur" (D. Cavallari, Institutiones iuris canonici quibus vetus et nova Ecclesiae disciplina enarratur, Neapoli 1776), e si volse lo sguardo al passato nella ricerca di pregresse soluzioni adottate.
Nel Regnum Siciliae la prima norma che si poteva individuare in tema di manomorta era la cost. Praedecessorum nostrorum, ricompresa nel titolo de rebus stabilibus non alienandis Ecclesiis (Constitutiones Regni Siciliarum, Neapoli 1773, lib. III, tit. 29), un testo normativo tra i più controversi per la valenza politico-giuridica che da subito ad esso fu attribuita nel convincimento, qualificato da Innocenzo IV "conceptum malivolum" di chi ai suoi occhi si configurava "proditionis filius, Antichristi similis et precursor", che Federico II volesse "tales facere ministros Ecclesiae quales fuerunt in Ecclesia primitiva, pauperes scilicet et ab aliis necessaria mendicantes" (Acta Imperii inedita, II, nr. 351, p. 314). Proprio quella norma rappresenta, però, ancor oggi, un punto oscuro. Si pone, anzitutto, un problema di datazione, rilevante ai fini di valutare l'effettivo apporto di Federico al diritto siculo-normanno, di definire il progressivo svolgimento della stessa legislazione sveva in altri settori, ad esempio nel diritto feudale, di determinare i tempi della contesa dello Svevo contro la prepotenza degli Ordini religiosi e, quindi, della fase di scontro più acuto con il papato.
Il Böhmer (Regesta Imperii, V, 1-3, Die Regesten des Kaiserreiches [...], a cura di J.F. Böhmer-J. Ficker-E. Winkelmann, Innsbruck 1881-1901, p. 490) collocò la Praedecessorum tra il 1237 e il 1238. L'asserzione trovava fondamento nella Responsio imperialis del 28 ottobre 1238, riportata anche da Huillard-Bréholles (Historia diplomatica, V, 1, pp. 249-258), che fu rivolta ai vescovi "a papa delegati ad admonendum imperatorem de gravaminibus Ecclesiae". Il sovrano, invero, rispondendo alle numerose accuse a lui mosse da Gregorio IX, parlava di tre diversi provvedimenti relativi ai beni confiscati a Templari e Ospitalieri: a) revocationes per i beni feudali e burgensatici conseguiti da quegli Ordini religiosi durante la sua minore età "per concessionem invasorum regni"; b) restituzione dei soli beni, feudali e burgensatici che, alla luce dei criteri di verifica stabiliti a Capua (v. Assise di Capua), risultassero comunque acquisiti e posseduti da quegli enti prima della morte di Guglielmo II, ovvero in forza di chiare concessioni ai predecessori; c) revocationes dei burgensatici acquistati in dispre-gio dell'"antica costituzione".
Dal contesto della risposta appare inconfutabile che Federico si riferisse a due norme, che pur 'antiche' avevano ratio, oggetto e finalità diversi: la prima sanzionatrice dei vantaggi, feudali e burgensatici, realizzati durante l'anarchia, la seconda solo delle acquisizioni di burgensatici da parte di enti religiosi, intervenute senza placet sovrano. La situazione di 'spoglio' configurata in via implicita come genericamente iniqua dai legati pontifici sulla base di una pretesa restitutio in integrum complessiva di tutti i beni confiscati, conforme allo 'spirito' della pace e di fatto non integre praticata dallo Svevo, veniva da questi acutamente ribaltata e selezionata in rapporto alle diverse cause efficienti. Per Federico è indubbiamente vero che per judicium et per antiquam constitutionem regni Sicilie sono stati revocati a Templari e Ospitalieri beni feudali e burgensatici, concessi durante la sua minore età, ma essi sono stati frutto di un vero e proprio tradimento perpetrato nei confronti di un sovrano pupillo e in condizioni di precarietà, a vantaggio di coloro che avevano nel frattempo devastato il Regno. Il vizio, in quanto sostanzialmente riconducibile al crimen laesae, attiene alla causa della concessione, si palesa genetico e, pertanto, nessuna sanatoria può ritenersi plausibile. Altri beni feudali e burgensatici risultano, invece, essere stati dismessi a prescindere dal titolo d'acquisto comunque precedente alla morte di Guglielmo II o per concessione dei legittimi 'predecessori' normanni. In questo caso non viene posta in di-scussione la ratio, in astratto valida e legittima, dell'attribuzione o dell'acquisizione, ma la perdita è riconnessa agli esiti della ricognizione disposta dalla specifica assise capuana: si configura, perciò, non tanto un vizio genetico del titolo, ma una sorta di sua patologia funzionale, in itinere, a seguito della quale si è determinata la dismissio dei beni.
Le prime due fattispecie di revoca o di dismissione dei beni, feudali o burgensatici, identificano, in effetti, i due potenti Ordini religiosi ex post, non diversamente da altri destinatari di analoghi provvedimenti di caducazione. Del tutto diversa si presenta la logica della revoca dei beni solo burgensatici acquistati da quegli Ordini religiosi, ma revocati in forza dell'"antica costituzione del regno di Sicilia": infatti, un criterio 'specifico' di mera natura economico-politica presiede al precetto secondo cui assolutamente nulla de burgensaticis, senza il consenso sovrano, può essere acquisito, per atto tra vivi o mortis causa da Templari od Ospitalieri, che non debba essere venduto o concesso ad altri burgenses seculares entro il termine di un anno, un mese, una settimana e un giorno. Nella Responsio ci si riferisce, quindi, a una disposizione affatto peculiare che indubbiamente va tenuta distinta da altre norme di portata più ampia per quanto attiene i destinatari o comunque diverse nella sostanza.
Il Böhmer, pur asserendo che la Praedecessorum, che è assente nel Liber Constitutionum, deve essere stata emanata dopo il 1231 (anzi, più precisamente, la collocava intorno al 1238), prospettava non di meno che nel 1220 potesse essere stata emanata una costituzione con contenuto analogo. Il Capasso (Sulla storia esterna delle costituzioni del Regno di Sicilia promulgate da Federico II, "Atti dell'Accademia Pontaniana", 9, 1869, p. 10), infatti, aveva ritenuto che tra le venti assise promulgate a Capua, secondo quanto si poteva congetturare sulla base della cronaca di Riccardo da San Germano, vi fosse anche la "quod bona stabilia per aliquos Ecclesiis et religiosis locis oblata vendi et alienari debeant infra annum", ossia la III, 29. A sostegno della sua tesi, il Capasso richiamava in particolare due documenti posteriori al 1220 ma anteriori al 1231: un diploma di Montevergine del 1224 (Historia diplomatica, II, 1, pp. 404-413) e un diploma alla casa dei Templari in Foggia dell'anno 1228. Ma entrambe le testimonianze non reggono a un serrato esame filologico. La prima è risultata essere addirittura una falsificazione posteriore di alcuni secoli.
Di fronte alle ulteriori tesi avanzate, ma di volta in volta confutate, in tempi più vicini Angelo Caruso (Le leggi di Federico II pubblicate a Barletta nel mese di ottobre 1246, in Studi in onore di Riccardo Filangieri, I, Napoli 1959, pp. 169-185), sia pur con un prudenziale "ci sembra" (ibid., p. 184), ha inteso dare un taglio netto alla diatriba assegnando la III, 29 alla legislazione di Barletta del 1246, senza affrontare il mero problema cronologico, pur evidentemente a lui presente, di un pregresso divieto "di vendere o donare beni immobili alle chiese" 'rinnovato' dalla Praedecessorum, una norma che, andando oltre la reiterata inibizione, avrebbe tuttavia aperto lo spazio a una "permuta". Alla soluzione di Caruso si è richiamato da ultimo Hermann Dilcher (Die sizilische Gesetzgebung Kaiser Friedrichs II. Quellen der Constitutionen von Melfi und ihrer Novellen, Köln-Wien 1975, p. 641), non sottacendo comunque la possibilità di una norma fridericiana anteriore.
Appare a tal punto evidente che, allo stato delle fonti, solo un'attenta lettura della ratio della norma può favorirne una più congrua collocazione non meramente cronologica, ma di specifica valenza politica.
Se non mancarono reiterate dichiarazioni formali di Federico intese a tranquillizzare Roma circa l'intento sovrano di non voler limitare lo status di privilegio goduto nel Regno dalla Chiesa e dagli ecclesiastici, Gregorio IX e, in un secondo momento, Innocenzo IV non poterono di volta in volta che constatare ex post la ben diversa linea perseguita nei fatti dallo Svevo e addebitargli non solo il danno sofferto, ma anche il 'perfido' atteggiamento di simulazione tenuto. Entro questo schema si collocava, innegabilmente, la III, 29, che, tuttavia, deve essere depurata di quella connotazione 'giuseppinesca' che quasi 'naturalmente' la storiografia ha finito per riconoscere a una norma che, senza dubbio, colpiva con una portata molto lata il patrimonio ecclesiastico. La precipua finalità della costituzione, infatti, senza fuorvianti letture ex post, appare alquanto esplicita: contenere il progressivo dilatarsi a dismisura del patrimonio ecclesiastico stante la sua esenzione da imposte.
Nella già rammentata Responsio imperialis del 1238 Federico, senza neppur eccessivi mezzi termini, chiariva ai legati pontifici ricevuti a Cremona che la mancata restituzione dei beni burgensatici revocati ai Templari e agli Ospitalieri era la coerente sanzione di un comportamento tenuto da quegli Ordini religiosi in violazione di una norma di tutela senza la quale in breve la Corona sarebbe stata privata di tutto il Regno di Sicilia: "Et hoc propterea fuit ab antiquo statutum, quia si libere eis et perpetuo burgensatica liceret emere sive accipere, modico tempore totum regnum Sicilie, quod inter regiones mundi sibi habilius reputarent, emerent et acquirerent, et hec eadem constitutio obtinet ultra mare" (Historia diplomatica, V, 1, p. 253).
Appare, a ben vedere, quanto mai lucida la diagnosi federiciana secondo cui l'acquisto libero, ossia senza controllo sovrano, e perpetuo di beni burgensatici da parte degli Ordini di Templari e Ospitalieri, proprio perché facilitato dallo status di privilegio goduto, avrebbe portato in breve all'acquisizione di tutto il Regno di Sicilia, reputato fra tutti i paesi del mondo il più acconcio ai propri interessi ("sibi habilius"). Con la de rebus stabilibus "Federico mirò più ad un contingente provvedimento poliziesco contro alcuni Ordini che ad una esplicita e totale abolizione della Manomorta della Chiesa nel Regno" (G. Pepe, Lo Stato ghibellino di Federico II, Bari 1951, p. 155). Con la III, 29, in definitiva, il sovrano avrebbe perseguito l'intento politico di diminuire i privilegi o anche annientarli del tutto, ma limitatamente ad alcuni Ordini religiosi. Già dal novembre 1226 risultano confische imperiali di beni ai due Ordini, ma ciò appare difficilmente rapportabile a una vera e propria situazione di rottura che, invece, si accentua sullo scorcio del decennio in coincidenza con la crociata.
Ernoul le Giblet, con specifico riferimento alle confische attuate da Federico di beni del Tempio e dell'Ospedale, perviene all'asserzione forzata, ma non di meno significativa, di avere l'imperatore di fatto cacciato dalla Sicilia tutti i frati (Chronique d'Ernoul et de Bernard le Trésorier, a cura di L. de Mas-Latrie, Paris 1871, p. 467). Appare, del resto, indubbiamente impressionante la lista delle confische attestate per la Capitanata dal preziosissimo Quaternus de excadenciis et revocatis Capitinatae, del 1249: cespiti di consistenza davvero notevolissima sono registrati essere già appartenuti ai due Ordini nelle contrade di Foggia, Siponto, S. Quirico, Monte S. Angelo, Caprilio, Lesina, Villa Nova, Fiorentino, Casalnuovo. La consistenza dei beni, relativi peraltro al solo giustizierato di Capitanata, costituisce più che un indizio dell'incidenza politica ed economica rivestita nel Regno da Templari e Ospitalieri e della rilevanza straordinaria che, accanto a specifici provvedimenti di confisca, dovette assumere un precetto normativo di portata così lata.
Se una congiuntura poté giustificare l'emanazione di una norma che, pur formalmente iterativa di una pregressa analoga norma, determinava effetti di portata così rilevante da divenire un nodo specifico di tensione e di scontro con Roma e da essere contemplata da un'altrettanto specifica disposizione testamentaria di Federico di segno opposto (M.G.H., Constitutiones et acta publica, II, 1896, nr. 7, p. 386), non appare incongruo individuarla nella grave crisi sorta tra Federico e i potenti Ordini dei Templari e degli Ospitalieri proprio in connessione con la crociata.
Di sicuro successiva alle Assise capuane, è fondato credere che la III, 29, ovvero una sua prima, parziale stesura, abbia preceduto le Constitutiones melfitane, trovando riscontri testuali consoni, nonché una ratio politica ed economica, senza sostanziali elementi di contrasto. Con ciò, tuttavia, non si esclude affatto e anzi si avvalora l'ipotesi che un'iterazione della norma possa esservi stata nel 1246.
È, tuttavia, da ritenersi con pari fondamento che la norma, pur se geneticamente maturata da una ratio specifica, immediatamente venne a essere inserita in un circuito politico-giuridico felicemente espresso dal binomio "colendo iustitiam et iura condendo". L'interesse o il silenzio, non meno significativo del primo, riservati alla norma divengono, infatti, sintomatici della coerenza del disposto con il contesto di riferimento e della valenza che il pensiero giuridico allo stesso di-sposto di tempo in tempo intese attribuire.
Le vicende seguite alla normativa fridericiana in tema di manomorta ebbero, così, sviluppi estremamente contrastati come implicava, del resto, il rilievo politico oltre che economico della materia. In età fridericiana la vigenza della cost. Praedecessorum nostrorum, pur ritenuta blasfema e continuamente sottoposta alle censure di Gregorio IX e Innocenzo IV, è da ritenere inconfutabile sulla base proprio delle deroghe contemplate in numerosi documenti che ne attestano in via indiretta il generale rispetto (Historia diplomatica, II, p. 472: "non obstantibus prohibitione seu statuto alicuius persone ecclesiastice").