mantica
Dal gr. μαντική τέχνη «[arte] della previsione», der. di μάντις «indovino». Arte della divinazione, attraverso la quale nell’antichità si interpretavano alcuni segni naturali (fulmini, volo di uccelli, eventi celesti, nascite anomale: i cosiddetti auguria oblativa «presagi spontanei») o artificiali (cioè dovuti all’intervento dell’indovino che interrogava sostanze, quali olio, fumo, viscere di animali, opportunamente preparate: i cosiddetti auguria impetrativa «presagi provocati»), rintracciando in essi premonizioni di eventi futuri. L’espressione μαντική τέχνη si trova già in Platone, che nel Simposio (197 a) attribuisce alla guida di Eros l’apprendimento da parte di Apollo dell’arte sagittaria, dell’arte medica e dell’arte divinatoria e nel Fedro (242 c) rivendica all’anima una certa capacità divinatoria (μαντικόν τι) che la porta ad andare oltre le sue capacità razionali, e indica più avanti (244 b-d) una precisa relazione tra mania e mantica. Che il potere profetico sia innato alle anime è tesi sostenuta da Plutarco, il quale afferma nel De defectu oraculorum (39-40) che la facoltà profetica – di per sé simile a una tavoletta priva di qualunque segno di scrittura – si riempie di immagini fantastiche e presentimenti, impossessandosi del futuro, senza il sostegno della razionalità, ma staccandosi dalla realtà presente in uno stato di estasi che prepara l’entusiasmo. La divinazione è ammessa e giustificata nella dottrina stoica (I frammenti degli stoici antichi, II, 1187-1216) attraverso la visione del fato (➔) come ordine naturale di tutti gli eventi, per cui l’uno consegue dall’altro svolgendosi secondo un intreccio immutabile (II, 1000); si può pertanto ritenere che la divinità abbia concatenato eventi apparentemente indipendenti e che, per es., un dato volo di uccelli sia legato alla medesima serie causale di un determinato evento futuro. Una posizione equidistante sia da chi escludeva la possibilità di prevedere accadimenti futuri sia da quanti ritenevano che la divinità inviasse all’uomo segni e presagi, curandosi di avvertirlo di ciò che sarebbe avvenuto, è diffusa tra gli autori latini. Seneca, nelle Naturales quaestiones (II, 32), sostiene che gli eventi naturali sono regolati da leggi che l’uomo deve sforzarsi di comprendere e nega che nell’Universo si producano eventi puramente casuali come pure eventi dovuti all’assoluto arbitrio della divinità; un fenomeno può pertanto informare su ciò che accadrà nel futuro nel caso in cui un altro fenomeno sia a esso collegato da una legge naturale. Una posizione analoga si può rintracciare anche in Plinio il Vecchio (Naturalis historia, II, 97) e in Cicerone (Sulla divinazione, I, 29; 34; 109; 127).