Mantova
(Mantua). – Città della Lombardia, posta nella bassa pianura padana, sulla riva destra del Mincio, ove questo forma un vasto lago che cinge la città a semicerchio da nord-ovest a est, e che è diviso in tre sezioni dette Lago Superiore, di Mezzo e Inferiore.
D., la cui presenza a M. è documentata nella Quaestio (§ 2 Manifestum sit omnibus vobis quod, existente me Mantuae, quaestio quaedam exorta est), ricorda più volte la città. In If XX Virgilio compie un'ampia, minuziosa descrizione geografica (vv. 61-93) della zona ove questa sorge (v. anche le voci dei luoghi geografici nominati come, ad es., BENACO; BRESCIA; MINCIO; PESCHIERA), fondata dalle popolazioni che vivevano nella campagna circostante, nel luogo ove Manto aveva trovato rifugio (per tutta la questione v. MANTO); in Pg VI 72 il nome di M., proferito da Virgilio, fa sì che Sordello riconosca il poeta latino come proprio concittadino (v. anche MANTOANO).
In Pg XVIII 83 la citazione è indiretta: Pietole, l'antica Andes, località in provincia di M., è più famosa, per aver dato i natali a Virgilio, di villa mantoana, di M. stessa; alcuni commentatori (Pietro, Buti, Anonimo, Landino e, tra i moderni, Casini-Barbi, Torraca, Del Lungo) intendono villa mantoana come una località qualsiasi della zona. Ma, a parte il fatto che accettare ciò significa sminuire il forte valore che nel verso ha la comparazione, si può ricordare il significato che più volte D. conferisce a villa (If I 109, XXIII 95, Pg XV 97, Pd XX 39).
Bibl. - Salimbene de Adam, Cronica, ediz. Scalia, Bari 1966, 131-132, 527, 701; G. Ottoni, D. a M.; cenni storici, Mantova 1864; F. Cipolla, D. censore di Virgilio, in " Atti R. Ist. Veneto Scienze Lettere Arti " LXI 2 (1901-1902); V. CIAN, Vivaldo Belcalzer e I'enciclopedismo Italiano delle origini, in " Giorn. stor. ", suppl. 5, 1902; P.L. Rambaldi, Il canto XX dell'" Inferno " (D. contro la magia), Mantova 1904; E.G. Parodi, La critica della poesia classica nel ventesimo canto dell'" Inferno ", in " Atene e Roma " XI (1908) 183-195, 237-250.
Storia. – La città lombarda ha nella Commedia un particolare rilievo per esser la patria di Virgilio e di Sordello. Talché nell'esordio, appunto nel nome di M., dell'episodio di Sordello (Pg VI 72), è stato persuasivamente riconosciuto, insieme con " quel sensentimento cittadino che è estremamente tipico del Medioevo comunale ed è attivamente operante nel linguaggio della Commedia " (Getto), anche l'aspetto simbolico di una " geografia mistica " (Pasquazi), non infrequente nel poema e legata a particolari situazioni e figure: qui, dunque, col riferimento emotivo dell'incontro dei due poeti conterranei, Virgilio e Sordello, dei valori umani che essi evocano e della conseguente invettiva all'Italia.
Agli Etruschi si fanno risalire la fondazione di M. intorno al sec. VI a.C. e, secondo Servio, anche il nome, dal dio dei morti Mantus, poi confuso con la profetessa greca Manto figlia di Tiresia (v. MANTO). Occupata dai Galli Cenomani nel sec. V, divenne, dopo la sottomissione di questi da parte di Roma alla fine del sec. III, prima colonia e poi municipium. Durante le guerre civili parte del suo territorio venne confiscato (41 a.C.) a favore dei veterani di Cesare. Ma per tutta l'antichità la città e il circondario ebbero sempre un'importanza politica ed economica assai modesta. Il saccheggio dei Goti di Alarico nel 401 fa da preludio, per M., a un periodo assai oscuro e scarso di notizie. Emergono tuttavia le gravi sofferenze derivate alla città dalla guerra tra Longobardi e Bizantini; dopo l'espugnazione avvenuta per opera dei primi nel 568, M. fu riconquistata dall'esarca di Ravenna nel 590, ma dal 601 diventò definitiva la dominazione longobarda. È documentato il progressivo crescere d'importanza della città con l'avvento dei Canossa, ai quali offrì il suo appoggio nella lotta antimperiale; ma nella guerra fra Matilde ed Enrico IV M. si arrese l'11 aprile 1091 all'imperatore ricevendone in cambio copiosi privilegi. L'autonomia politica si afferma, al di sopra delle lotte di fazioni, soprattutto dopo la morte di Matilde (1115); ma il comune, della cui istituzione si ha notizia fin dal 1126, subisce a lungo la supremazia dell'episcopato che le impone l'alleanza col Barbarossa fino al 1162, ed entra nella Lega Lombarda, partecipando nel 1176 alla battaglia di Legnano, solo dopo il mutamento della politica papale nei confronti dell'imperatore. Dopo la pace di Costanza (1183) la supremazia ecclesiastica è fortemente indebolita dalla lotta delle fazioni cittadine nate dal conflitto di antichi vassalli vescovili, e si frantuma dopo l'uccisione del vescovo Guidotto avvenuta nel 1235. Emerge tra le famiglie schierate in campi avversi quella dei Sambonifacio; tradizionalmente antighibellina, M. si oppone con successo a Federico II, a Ezzelino da Romano, a Manfredi, contribuendo all'affermazione del guelfismo nell'Italia settentrionale. Ma l'inasprirsi delle fazioni logora e dissolve la libertà comunale. Nel 1272 Pinamonte de' Bonacolsi, liberatosi del maggior competitore Alberto da Casaloldo, che aveva astutamente indotto a bandire i nobili e ad appoggiarsi al popolo, divenne signore assoluto di M., trasmettendo il potere nel 1291 al figlio Bardellone.
L'episodio ricorre in If XX 94-96 nelle parole di Virgilio (Già fuor le genti sue dentro più spesse, / prima che la mattia da Casalodi / da Pinamonte inganno ricevesse) a chiusura della favola di Manto, come professione di un vivace sentimento civile - la diminuzione del numero dei cittadini quale conseguenza dolorosa delle lotte politiche intestine - che opera un richiamo dal mito alla realtà della storia.
I Bonacolsi modificarono, almeno entro certi limiti, la tradizionale politica guelfa di M. avvicinandosi all'imperatore e ottenendone la signoria ereditaria nel 1308 e il vicariato nel 1311, ma l'autonomia del governo signorile si affermò in via definitiva solo nel 1328 quando Luigi Gonzaga prese saldamente in mano il potere. Con i Gonzaga, che si tramandano ereditariamente l'effettiva signoria della città, s'inizia per M. un periodo di sempre più intensa partecipazione alla vita politica, militare e letteraria italiana, preludio all'eccezionale floridezza che essa acquisterà nel Rinascimento.
La presenza di D. a M., poco prima del 1320, a un dibattito di argomento scientifico-filosofico (probabilmente non come semplice ascoltatore), è ricordata in Quaestio 2 e può riferirsi all'esistenza nella città di un'intensa vita culturale, certo arricchita da salde relazioni col vicino Studio di Padova, ma anche, forse, ai rapporti di amicizia e di alleanza tra Passerino Bonacolsi, allora signore di M., e Cangrande della Scala.
Fortuna. - La precocità della fortuna e del culto di D. in M. si coglie non tanto nell'unus liber Danti tra le letture preferite di Bonamente Aliprandi (c. 1350-1417), quanto nella notevole diffusione di una sua Cronica de Mantua in terza rima, in cui il racconto di un fantastico smarrimento in una " silva ", dell'aiuto di una donna, la Memoria, che lo conduce " in un bel luocho ", e altri particolari non lasciano dubbi circa la fonte usufruita. Tra i miniatori che nel Quattrocento operano al servizio dei Gonzaga si ricorda Iacopo Bellanti che illustrò un Dante. Ma l'episodio più vistoso rimane la stampa della Commedia nel 1472. A differenza dell'editio princeps, uscita lo stesso anno a Foligno, e dell'altra coetanea di Iesi (o Venezia), la Commedia mantovana reca accanto ai nomi di due stampatori tedeschi, Giorgio e Paolo da Butzbach, quello dell'editore Colombino da Verona, dedicatore in terza rima del libro a Filippo Nuvoloni. Particolare, questo, di tutto rilievo, per l'autorità dei due personaggi: umanista autorevole, nonché precettore dei figli di Ludovico Gonzaga, il veronese Colombino; stimato poeta di corte il mantovano Filippo, esperto versificatore in latino e in volgare. Tanto che risulta oltremodo pertinente l'osservazione del Dionisotti che " la stampa mantovana di Dante rappresenta bene la svolta decisiva per cui a Mantova, come in quel giro d'anni in altre corti, la cultura umanistica venne a patti con la tradizione trecentesca toscana e si avviò a produrre nella nuova lingua una nuova letteratura cortigiana ".
In seguito, opere di D. sono state pubblicate a M. una sola volta: le Rime nel 1823 per i tipi del Caranenti; cui si può aggiungere il Credo stampato nel 1871 per l'inaugurazione della statua di Dante. Nel 1865 era apparso l'Albo dantesco mantovano che reca, oltre a una memoria della polemica settecentesca sull'opera di D. provocata dal Bettinelli, contro cui insorsero l'Algarotti, il Gozzi, il Baretti, il Pindemonte e altri, anche una serie di scritti parenetici da riferire al tono che assunsero allora in molte città italiane le celebrazioni centenarie, appena attuata l'unità nazionale.
Bibl. - Per il risalto che M. ha nella Commedia si veda G. GETTO, D. e Virgilio, in " Il Veltro " III (1959) 11; S. Paquazi, " Mantuanitas " dantesca, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 329; ID., Il canto VI del Purgatorio, in Lect. Scaligera II 203, 208; ID., Il canto XX dell'Inferno, in Nuove lett. II 183-204. Le vicende storiche della città sono ampiamente illustrate in Mantova. La storia. I. Dalle origini a Gianfrancesco primo marchese, a c. di G. Coniglio, Mantova 1958. Sulla presenza di D. a M. si veda G. PETROCCHI, La vicenda biografica di D. nel Veneto, in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 27 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 119 ss.); D.A., De situ et forma aquae et terrae, a c. di G. Padoan, ibid. 1968, IX ss. Notizie sulla fortuna di D. in M. si trovano in Mantova. Le lettere, a c. di E. Faccioli, Mantova 1959, passim. Sull'importanza dell'ediz. mantovana della Commedia del 1472, cfr. C. Dionisotti, D. nel Quattrocento, in Atti del Congresso Internaz. di studi danteschi, I, Firenze 1965, 366-367.
Lingua. - Parlando in VE I XV 2 dei Bolognesi che assumono nel loro volgare alcune caratteristiche dei dialetti circostanti, D. aggiunge che tale operazione è comune a tutti in situazione analoga (sicut facere quoslibet a finitimis suis conicimus), e così esemplifica: ut Sordellus de [" nei confronti di "] Mantua sua ostendit, Cremonae, Brixiae atque Veronae confini: qui, tantus eloquentiae vir existens, non solum in poetando, sed quomodocunque loquendo patrium volgare deseruit.
È difficile dire se la menzione di Cremona, Brescia e Verona fissi soltanto generici punti di riferimento geografici o sottintenda invece la coscienza di una particolare affinità del mantovano coi dialetti di quelle città: in quest'ultimo caso l'osservazione di D. collimerebbe puntualmente con quanto oggi sappiamo (per merito di G. Ghinassi) sulla fisionomia del mantovano antico, che presentava appunto fenomeni caratterizzanti in comune, da una parte, con la Lombardia orientale, dall'altra con Verona, mentre in seguito è evoluto verso un tipo schiettamente emiliano.
Ma la difficoltà maggiore del passo sta nel richiamo a Sordello, certamente formulato in modo ambiguo per eccesso di concisione, così da dar luogo a diverse interpretazioni e anche al sospetto di corruzione testuale. Prescindendo da alcune divergenze particolari, le tesi della critica si riducono fondamentalmente a due. Secondo alcuni (D'Ovidio, De Lollis, Bergin, ecc.) D. intenderebbe dire che Sordello ha abbandonato il patrium vulgare (deserere è più deciso del divertere che viene normalmente usato per poeti illustri che si staccano dalla parlata municipale) per esprimersi esclusivamente in provenzale, giusta quanto sappiamo, e D. certamente sapeva, della sua attività: l'assunzione di elementi dei dialetti confinanti è fenomeno comune, ma mentre per i Bolognesi, come D. illustrerà subito, si tratta di elementi opposti - mollezza e asprezza - che possono essere contemperati ad laudabilem suavitatem, M. è circondata da dialetti che presentano caratteristiche uniformemente sgradevoli, la garrulitas dei Cremonesi, che appartengono alla ‛ Lombardia ' (cfr. VE I XV 3-4, XIX 2), e il parlare yrsutum et yspidum di Bresciani e Veronesi (VE I XIV 4-5), per cui la loro influenza non può essere che un fatto negativo; dunque " Sordello, che la sapeva tanto lunga, fece interamente divorzio dal linguaggio nativo, dandosi tutto al provenzale " (D'Ovidio). Le controindicazioni a questa tesi sembrano fondamentalmente due: il fatto che, come ha visto il De Lollis, D. elogi incondizionatamente (tantus eloquentiae vir) uno scrittore che si è espresso esclusivamente in lingua d'oc, in contrasto con la notissima polemica del I libro del Convivio; e la difficoltà di pensare che Sordello abbia usato secondo D. il provenzale non solo in poesia ma anche in ogni forma di espressione orale (quomodocunque loquendo).
Per altri studiosi invece (Zingarelli, Marigo, Boni, ecc.) D. alluderebbe a un'attività di Sordello in volgare italiano: egli avrebbe realizzato " individualmente ciò che i Bolognesi han fatto collettivamente ", costruendosi con l'apporto delle parlate vicine un linguaggio sovramunicipale da lui usato sia in poesia sia in " conversazioni auliche... discorsi, arringhe ", ecc.; traccia di una sua attività poetica in italiano potrebbe essere il sirventese Poi qe neve ni glaza a lui attribuito dal Bertoni (" Giorn. stor. " XXXVIII [1901] 298 ss.; v. anche CONTINI, Poeti I 501), cui comunque non si potrebbe confare il verbo poetari usato da D., che significa sempre nel De vulg. Eloq. " comporre liriche d'arte, illustri ". Ciò senza escludere che D. tenga presente anche la produzione in provenzale. Ma a questa tesi si contrappongono forti obiezioni: anzitutto l'assenza di liriche italiane di Sordello positivamente documentate (l'attribuzione del ‛ sirventese lombardesco ' è mera congettura); secondariamente le considerazioni già accennate sull'impossibilità che dal contemperamento di tratti cremonesi, bresciani e veronesi esca alcunché di linguisticamente pregevole. E va in ogni caso rifiutata l'ipotesi secondo cui Sordello, in forza di tale contemperamento, sarebbe pervenuto al possesso del volgare illustre: la nozione dantesca di volgare illustre è infatti del tutto trascendentale, ed esclude ogni rapporto col concetto di mescolanza di elementi municipali, apprezzabili o meno che in sé siano (decisiva, nello stesso capitolo, l'affermazione che i poeti illustri di Bologna si sono allontanati dal loro dialetto, per quanto più bello e lodevole di tutti). Problematica anche l'osservazione più limitata del Marigo: " Mantova si trovava dunque in una posizione analoga - benché non così felice - a quella di Bologna: come da questa poterono sorgere poeti illustri, così anche da quella poté uscire un ‛ tantus eloquentiae vir ', mentre nelle terre dove la rozzezza della lingua locale non poteva essere contemperata coi caratteri diversi delle parlate limitrofe, ciò non era possibile ": non sembra che D. ponga mai esplicitamente una relazione tra la presenza di poeti illustri in una data città o regione, e il grado di bontà dei dialetti che vi si parlano, se si esclude quanto viene accennato, e contrario, in VE I XV 4 sull'impossibilità degli Emiliani di attingere il volgare aulico liberandosi della connaturata garrulitas: e se tra l'eccellenza di Sordello e la posizione in qualche modo privilegiata della sua città esiste un rapporto, perché dire che egli deseruit il suo volgare locale?
Pare dunque arduo giungere a un'interpretazione globalmente accettabile del passo. In base ai dati in nostro possesso è però necessario ammettere che l'accenno all'eloquenza poetica di Sordello non può riferirsi che alla sua produzione provenzale; ma d'altra parte è improbabile che D. gli attribuisse l'uso sistematico del provenzale anche nella conversazione orale sia pure di carattere solenne e ufficiale. Il brano potrebbe allora parafrasarsi come segue: Sordello, uomo di così alta eloquenza, ha abbandonato il volgare patrio non solo nell'uso poetico (sottinteso: dove ha adoperato il provenzale), bensì anche nell'uso orale (sottinteso: dove ha impiegato un volgare italiano non municipale, sovramunicipale). Ma con ciò non sono certo eliminate le difficoltà. In particolare, tutto il contesto parrebbe indicare che quest'opera di smunicipalizzazione si è realizzata attraverso un'utilizzazione e un conguaglio di elementi dei dialetti limitrofi, e che essa (a differenza di quanto avviene per Bologna) non è una condizione istituzionale del mantovano ma un'iniziativa personale di Sordello: altrimenti non si capirebbe perché D., anziché chiamare direttamente in causa il mantovano, si appelli all'esempio di Sordello sottolineandone il rifiuto del mero volgare natio. Ma allora bisogna pensare che D. qui annette all'uso di un linguaggio sovramunicipale, o di koinè, un valore in sé positivo, a prescindere dalla pregevolezza o meno delle componenti dialettali che entrano in gioco; e soprattutto verrebbe a delinearsi una contraddizione tra quanto egli ha appena affermato, e cioè che l'assunzione di elementi dei dialetti vicini è fenomeno generale (facere quoslibet... conicimus), e il rilievo dato all'eccezionalità dell'esperienza di Sordello (a meno che non si attenui il valore di quella prima affermazione: tutti tendono naturalmente ad assumere qualcosa dai dialetti adiacenti, ma pochi sono quelli che attuano questa tendenza a fondo e con effettivi risultati smunicipalizzanti, come ad es. Sordello...). Altrimenti occorre pensare che Sordello si è allontanato dal dialetto mantovano nonostante che questo si aprisse a influenze cremonesi ecc., o anzi proprio a causa di ciò (in quanto esso, confinando con brutti dialetti e risentendone, non poteva essere che brutto): ma allora la formulazione dantesca risulterebbe perlomeno curiosa, e sfuggirebbe la pertinenza dell'esempio di Sordello alla tematica complessiva del contesto.
Un altro poeta mantovano, Gotto (della cui produzione non ci resta traccia), è citato in VE II XIII 4 come autore di " molte e pregevoli canzoni " note a D. dalla viva voce del poeta stesso (nobis oretenus intimavit) e contrassegnate dalla costante presenza di un verso irrelato nella stanza che egli chiamava " chiave ". Per quanto qui sia questione di liriche verosimilmente di tenore elevato, la menzione di Gotto riesce omogenea a quanto sappiamo sulla partecipazione del centro mantovano a una cultura poetica settentrionale, generalmente polarizzata verso i toni ‛ mediocri ' della ballata e affini, indipendente dall'elaborazione siciliana e poi toscana e dai successivi sviluppi emiliano-romagnoli (cfr. V. De Bartholomeis, in " Studi Romanzi " VIII [1912] 219-238; Contini, Poeti I 785-786; I. Baldelli, in " Studi Filol. It. " XVIII [1966] 19-20; id., in D. e la cultura veneta, Firenze 1966, 117-127).
Bibl. - F. D'Ovidio, Sul trattato De vulg. Eloq. di D.A., in Versificazione romanza. Poetica e poesia medievale (= Opere di F.D'O., IX II), Napoli 1932, II 314-317 nota; C. De Lollis, Vita e opere di Sordello di Goito, Halle a.S. 1896, 111 ss.; ID., Sordello di Goito, in " Nuova Antol. " 1895 (e ora in Scrittori d'Italia, a c. di G. Contini e V. SALATOLI, Milano-Napoli 1968, 110 ss.); Zingarelli, Dante 574; Marigo, De vulg. Eloq. 124-126; Sordello, Le poesie, a c. di M. Boni, Bologna 1954, CVIII-CX; T.G. Bergin, D.'s Provençal Gallery, in " Speculum " XL (1965) 27; G. Favati, Sordello, in " Cultura e Scuola " 13-14 (genn.-giu. 1965), 553-554. Per la posizione del mantovano antico in rapporto al giudizio di D., cfr. G. Ghinassi, Nuovi studi sul volgare mantovano di Vivaldo Belcalzer, in " Studi Filol. It. " XXIII (1965) 78; ID., in D. e la cultura veneta, cit., 87, 93.