Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La straordinaria fascinazione che la figura di Mao Zedong e la rivoluzione culturale cinese esercitano negli anni Sessanta-Settanta del Novecento tra gli intellettuali e le masse giovanili in Europa, va ricercata nella diversità del comunismo cinese rispetto al modello sovietico. L’accento posto sul volontarismo, sulla eticità dell’agire sociale esercitano un fascino trascinante tra i giovani intrappolati in una società che nel consumismo sfrenato vede il motore primario dell’evoluzione sociale. Oltre tutto, per quanto concerne la rivoluzione culturale, essa ha goduto di una sorta di impunità critica dovuta alla scissione tra storia e utopia. Un’utopia radicata in un luogo reale che cancella il significato stesso del termine, un “non luogo”, che trova spazio e agisce in un luogo: la Cina di Mao nel decennio 1966-1976.
Il 10 novembre del 1965 un quotidiano di Shanghai, il “Wenhuibao”, pubblica un articolo di critica teatrale dal titolo A proposito del nuovo dramma storico Hai Rui deposto dalla sua carica, firmato da un giovane intellettuale, allora poco noto, di nome Yao Wenyuan. Gli osservatori di professione occidentali di cose cinesi – residenti per lo più a Hong Kong – abituati a cogliere qualsivoglia segnale proveniente dalla vicina ma impenetrabile (allora) Repubblica popolare, al fine di elaborare scenari possibili e rintracciare linee politiche, rimangono non poco stupiti e incuriositi dal suddetto articolo. Che senso può mai avere, si domandano, dedicare un lungo articolo, violento e spesso astioso, a un dramma storico per quanto “nuovo”, scritto, tuttavia, cinque anni prima da Wu Han, un mandarino-accademico stimato e famoso nonché, in quel periodo, vicesindaco di Pechino? Gli intellettuali cinesi più accorti e attenti, in Cina e fuori, ai quali sono ben note le raffinate tecniche di critica politica apparentemente neutre e spesso stravaganti (ma non per questo meno violente e devastanti per chi le riceve) proprie della tradizione confuciana prima e marxista-leninista dopo, che vengono chiamate in cinese con una espressione tragicamente spiritosa, “pennello storto” (qu bi), intuiscono allarmati che qualcosa di grosso si profila (minaccioso?) sull’orizzonte politico-ideologico della Cina.
Difatti, l’argomento del dramma di Wu Han – contro cui erano indirizzati gli strali avvelenati del giovane polemista di Shanghai – è al contempo bizzarro e sospetto. In esso si riprende in forma di dramma un famoso episodio storico occorso durante la dinastia Ming: un onesto, leale e coraggioso funzionario imperiale di alto rango, Hai Rui, viene ingiustamente deposto dalla sua carica dal tirannico e odioso imperatore per essersi opposto apertamente alla confisca delle terre a danno dei contadini e a vantaggio di latifondisti e burocrati corrotti, voluta dal crudele tiranno. Quegli intellettuali cinesi più accorti e attenti, in Cina e fuori, di sicuro aiutati dalla serrata critica di Yao Wenyuan che definisce il dramma “un’erba velenosa” (du cao), non faticano gran che a rendere attuale il messaggio politico sotteso e a rintracciare nel tirannico e odioso imperatore le fattezze di Mao Zedong e, nell’onesto e coraggioso funzionario di alto rango che osa opporsi apertamente a un editto imperiale ritenuto ingiusto, il maresciallo Peng Dehuai. Cerchiamo di capire perché. Peng Dehuai è una figura prestigiosa e popolare di eroe della rivoluzione e, alla fine degli anni Cinquanta, in una assai turbolenta riunione del Comitato centrale del Partito Comunista Cinese (Lushan, luglio-agosto 1959), critica senza reticenze di sorta l’avventura disastrosa del “Grande balzo in avanti”, che denuncia come un clamoroso fallimento, e dà giudizi assai negativi sulla riorganizzazione delle campagne cinesi secondo il sistema delle comuni popolari appena instaurato, sia l’uno che le altre voluti con caparbia determinazione da Mao Zedong. Il risultato di queste coraggiose prese di posizione da parte di Peng Dehuai non si fa attendere: alla fine dei lavori di quel Comitato centrale egli “viene deposto da tutte le cariche” che ricopre nel partito e nel governo.
Dubito, tuttavia, che persino quegli intellettuali cinesi accorti e attenti, in Cina e fuori, fossero in grado, in quel novembre del 1965, di immaginare e prevedere che con quell’articolo era stato messo in moto il più radicale sconvolgimento mai verificatosi in un paese socialista: quella Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (Wuchanjieji Wenhua Dageming) che avrebbe soffiato come un vento di guerra, per quasi un decennio, in ogni angolo della pur sconfinata Repubblica Popolare Cinese e non solo.
In un libro fin troppo famoso e citato dei primi anni Settanta, gli autori affermano in modo perentorio e provocatorio, tra le molte altre cose, che due sono i grandi fallimenti del XX secolo, nell’ordine (cronologico presumo): il complesso d’Edipo e la rivoluzione d’ottobre. L’affermazione si rivela alla luce della Storia, senz’altro vera e persino profetica per quanto concerne la rivoluzione d’ottobre, avendo previsto, con un anticipo di oltre un decennio, l’inevitabile implosione dell’Impero sovietico; mentre rimane soltanto una boutade (intelligentemente) provocatoria per ciò che riguarda l’ancora vitalissimo e operante complesso d’Edipo. Quegli stessi autori non includono, tuttavia, tra i fallimenti storicamente vistosi del XX secolo la figura di Mao Zedong e la rivoluzione culturale cinese – fenomeni probabilmente più imbarazzanti e ardui da difendere di quanto non siano Freud e la psicoanalisi. Cerchiamo dunque di dare una risposta possibile a questa mancata condanna di un personaggio e di un avvenimento storico che oggi suscitano soltanto giudizi negativi nei circoli accademici e giornalistici in Cina come nel resto del mondo.
Una delle molteplici e probabilmente contraddittorie spiegazioni del fenomeno per cui in Occidente e soprattutto in Europa il mito di Mao e della rivoluzione culturale hanno goduto (e forse ancora godono) di una impeccabile reputazione, va rintracciata in una combinazione che difficilmente si accompagna ai fenomeni storici: essa è il godere di una sorta di impunità critica dovuta a una scissione intercorsa tra Storia e Utopia. Mao e la rivoluzione culturale in Europa – tra la metà degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta – rappresentano una Utopia operante e reale paradossalmente liberata dalla storia. Numerose sono le concause che hanno determinato questa scissione e prodotto, per la prima volta nella Storia del XX secolo, un’Utopia (la Cina cultural-rivoluzionaria della seconda metà degli anni Sessanta) radicata in un luogo reale, cancellando dunque il significato stesso del termine: un “non-luogo” (utopia questo significa) che trova finalmente spazio e agisce in un luogo: la Cina di Mao nel decennio 1966-1976.
Di tali concause la principale, probabilmente, è che dalla Cina cultural-rivoluzionaria di quegli anni non arrivano immagini, in un mondo in cui i reportage televisivi cominciano a inondare le case dell’Occidente con gli orrori quotidiani di guerre, massacri, disastri naturali in tempo reale. Il giornalismo televisivo si afferma proprio in quegli anni e il primo tragico evento che invade quotidianamente gli schermi televisivi di tutto il mondo è la guerra del Vietnam. Come ha osservato Ryszard Kapuscinski: “i reporter dell’immagine e del suono cambiano il nostro modo di guardare il mondo e di raccontarlo. Gli operatori delle videocamere cercano nell’avvenimento non il senso storico o politico, ma lo spettacolo, il radiodramma, il teatro. Sotto il loro influsso la history viene sempre più spesso sostituita dalla story: quel che conta, per loro, non è il senso dell’avvenimento ma la sua drammaturgia”. In questo passaggio che l’immagine televisiva opera nello spettatore, la Storia che diventa semplicemente racconto, va ricercata la straordinaria emozione popolare suscitata dalle immagini della guerra in Vietnam: la bambina con il corpo nudo parzialmente bruciato dal napalm che corre piangendo disperata lungo il limitare di una risaia, produce in chi la guarda orrore per chi ha provocato l’evento e totale compassione e solidarietà per chi lo subisce. In quell’immagine non c’è soltanto il dolore di vittime inermi in un Paese in guerra, ma l’inevitabile sconfitta di chi ha provocato quell’evento, ovvero prodotto quell’immagine. Pertanto, in Europa, tra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, non bisogna necessariamente essere “maoisti” o militanti “marxisti-leninisti” per essere schierati – indignati e sicuri – con il popolo vietnamita che subisce una sporca guerra imperialista e con i viet-cong che difendono la propria terra e riescono alla fine a sconfiggere l’esercito più tecnologicamente avanzato del mondo, ricorrendo anche a trappole artigianali come frecce di bambù imbrattate di una poltiglia di sterco e urina di bufali d’acqua. Ancora una volta una breve sequenza dallo schermo televisivo fa il giro del mondo e visualizza la sconfitta finale degli Americani: un gigantesco marine con le braccia alzate in segno di resa ha alle spalle una minuscola ragazza vietnamita, con l’usuale pigiama di seta nera, che imbraccia un fucile apparentemente meno minaccioso dell’imponente stazza del soldato americano appena fatto prigioniero.
La Cina della rivoluzione culturale è una Cina ancora chiusa al mondo, da cui filtrano poche immagini e nessun reportage televisivo, solo narrazioni di (pochi e assai ben scelti) scrittori e giornalisti considerati da Pechino “amici della Cina” e simpatetici osservatori di quanto accade. Ciò produce pertanto un’utopia operante che, paradossalmente, non diventa racconto e fa a meno della Storia. Eppure dalla Cina sono disponibili, tradotti nelle principali lingue straniere a prezzi incredibilmente bassi, libri (i quattro volumi delle Opere Scelte di Mao, oltre ai classici della letteratura cinese fino alle opere del più grande scrittore cinese della prima metà del XX secolo, Lu Xun), pamphlet di ogni genere sul marxismo-leninismo, una rivista settimanale (“Peking Review”, di cui escono le versioni anche in francese, tedesco e spagnolo) e alcuni mensili – sempre nelle principali lingue straniere – che si occupano di letteratura classica e contemporanea e d’arte. Per cercare di capire, oggi, la fascinazione che suscita tra i giovani europei quel nuovo marxismo in progress, che appare tanto diverso da tutto ciò che la Russia sovietica ha attuato da Stalin in poi, bisogna cercare di evidenziare che cosa rende quel marxismo così unico agli occhi di una generazione che di lì a poco avrebbe dato vita al Maggio francese e alla contestazione studentesca in tutta Europa.
Nelle parole di Maurice Meisner: “uno dei grandi paradossi della storia del marxismo in Cina è che il successo politico dei rivoluzionari marxisti cinesi e i loro successivi sforzi per la realizzazione di mete socialiste marxiste richiesero l’abbandono di molte delle premesse più fondamentali della teoria marxista [...]. L’idea centrale marxista di un processo storico oggettivo che in ultima analisi condiziona il pensiero e l’azione sociali, e in conformità al quale i rivoluzionari devono agire, viene rimpiazzata nel maoismo da un’estrema fiducia volontaristica nella stessa coscienza umana come fattore ultimo e decisivo nello sviluppo storico-sociale in generale e nella pratica della rivoluzione in particolare”.
Le radici del volontarismo maoista si possono rintracciare in una antica leggenda cinese che costituisce la base teorica dell’agire politico nel corso della rivoluzione culturale in Cina e che nutrirà il ribellismo politico del 1968 europeo. È Mao stesso a utilizzare questa favola l’11 giugno del 1945, a Yan’an, nel suo discorso di chiusura del VII Congresso del Partito Comunista Cinese. “Una antica favola cinese, intitolata Come Yu Kong rimosse le montagne, racconta di un vecchio che viveva tanto, tanto tempo fa nella Cina settentrionale ed era conosciuto come il ‘vecchio sciocco delle montagne del nord’. La sua casa guardava a sud e davanti alla porta due grandi montagne gli sbarravano la strada. Yu Kong decise di spianare, con l’aiuto dei figli, le due montagne a colpi di zappa. Un altro vecchio, conosciuto come il ‘vecchio saggio’, quando li vide all’opera scoppiò in una risata e disse: ‘Che sciocchezza state facendo! non potrete mai, da soli, spianare due montagne così grandi’. Yu Kong rispose: ‘Io morrò, ma resteranno i miei figli; morranno i miei figli, ma resteranno i nipoti, e così le generazioni si susseguiranno all’infinito. Le montagne sono alte, ma non possono diventare più alte; ad ogni colpo di zappa, esse diventeranno più basse. Perché non potremmo spianarle?’ Dopo aver così ribattuto l’opinione sbagliata del vecchio saggio, Yu Kong continuò il suo lavoro un giorno dopo l’altro, irremovibile nella sua convinzione. Ciò impietosì il Cielo, il quale inviò sulla terra due esseri immortali che portarono via le montagne sulle spalle. Oggi due grandi montagne opprimono con tutto il loro peso il popolo cinese: una è l’imperialismo, l’altra il feudalesimo. Il Partito Comunista Cinese ha deciso da lungo tempo di spianare queste due montagne. Dobbiamo essere perseveranti e lavorare senza tregua, e noi pure commuoveremo il Cielo, e questo Cielo non è altro che il popolo di tutta la Cina. Se esso si solleverà per spianare con noi le montagne, perché non potremmo riuscirci?”
I giovani studenti universitari europei della metà degli anni Sessanta, che si sentono presi in trappola tra una società (occidentale e capitalistica) che pone il consumismo sfrenato come motore della evoluzione sociale da una parte, e il modello sovietico che ha prodotto una società che sembra una parodia totalitaria dell’Occidente capitalistico dall’altra, trovano finalmente una possibile via d’uscita nel volontarismo maoista, radicale e ottimista, come strumento per dar vita a un reale cambiamento sociale, ora e subito, in senso anticapitalistico e genuinamente rivoluzionario.
Un ulteriore elemento di fascinazione potente che viene dalla Cina della rivoluzione culturale, è l’accento veemente che viene posto sulla cultura come strumento di lotta politica e di trasformazione delle mentalità individuali in senso rivoluzionario. La novità teoretica del maoismo va probabilmente rintracciata nella asserzione che anche in una società socialista, una volta che il proletariato ha saldamente preso il potere e instaurato rapporti di produzione socialisti, è di fondamentale e primaria importanza intervenire in senso rivoluzionario a livello delle sovrastrutture per renderle consone e funzionali alle nuove strutture socialiste: così facendo si ottiene il duplice risultato di evitare la possibile restaurazione del capitalismo e di promuovere lo sviluppo della società socialista. L’esempio negativo in tal senso dell’Unione Sovietica sta a dimostrare di come sia possibile, qualora si trascuri l’aspetto sovrastrutturale nella costruzione di una società genuinamente socialista, la restaurazione del capitalismo e la trasformazione di un Paese socialista in una potenza minacciosamente social-imperialista. Oltretutto, il modo in cui la cultura, i saperi, vengono trasmessi non è affatto neutrale: di qui la necessità di trasformare sia il metodo di insegnamento che i contenuti dei corsi.
Infine, un terzo elemento, che attraversa costantemente tutti gli scritti di Mao dagli anni Venti alla fine degli anni Sessanta, esercita una irresistibile per quando paradossale attrazione tra i giovani europei che hanno iniziato a Parigi, a Berlino, a Milano, a Roma a contestare violentemente i sistemi universitari di quei Paesi, ed è il costante richiamo alla necessità di creare un’etica socialista – questa sì nuova e rivoluzionaria – che costituisca la base morale dell’agire politico. Tutto ciò è sintetizzato in uno slogan che si legge in tutti gli stendardi che accompagnano i cortei studenteschi nelle capitali europee: “servire il popolo”. Il riferimento è a un breve scritto di Mao del settembre del 1944, in cui egli commemora la morte accidentale di un soldato dell’esercito popolare di liberazione, mentre svolgeva il suo umile lavoro di carbonaio: “tutti devono morire, ma non tutte le morti hanno uguale valore. Un antico scrittore cinese disse: ‘tutti gli uomini muoiono, ma la morte di alcuni ha più peso del monte Tai, e la morte di altri è più leggera di una piuma’. La morte di chi si sacrifica per gli interessi del popolo ha più peso del monte Tai, ma la morte di chi serve i fascisti, di chi serve gli sfruttatori e gli oppressori, è più leggera di una piuma. Il compagno Zhang Side è morto per gli interessi del popolo; la sua morte ha più peso del monte Tai [...]. Dovunque c’è lotta c’è sacrificio, e la morte è un caso comune. Ma noi abbiamo a cuore gli interessi del popolo, le sofferenze della grande maggioranza del popolo, e quindi morire per il popolo significa morire di una morte degna”. Le masse giovanili dell’occidente ricco, della società dei consumi senza limiti, della liberazione sessuale (prima dell’AIDS), trovano in Mao e nei loro coetanei cinesi che ne applicano gli insegnamenti per costruire una nuova Cina, un modello di eticità pedagogica rassicurante e potente allo stesso tempo: il fascino del sogno di poter costruire una società migliore, perché essa è anche eticamente e moralmente migliore di quella che li circonda.
La Cina della rivoluzione culturale diventa in pochi anni estremamente popolare grazie soprattutto alle numerose corrispondenze giornalistiche, diari di viaggio di scrittori spesso assai noti, ma sempre scarsamente accompagnati da immagini: il mito della Cina di Mao, almeno in Europa, è privo di iconografia reale (foto, documentari), mentre è ricchissimo di una iconografia ufficiale affidata a manifesti di strepitoso impatto visivo. È mia opinione che siano questi manifesti – presto disponibili in Europa attraverso i canali semi-ufficiali delle varie Associazioni d’Amicizia Italia-Cina, Francia-Cina, Regno Unito-Cina – a fissare l’immagine di una Cina pulita e vitale: un sogno che fa volentieri a meno della Storia. I manifesti cinesi di quegli anni sono il risultato di una invenzione estetica senza precedenti per ciò che concerne un Paese socialista. Gli artisti cinesi inventano esattamente il contrario dell’uggioso, triste e pedante “realismo socialista” che l’Unione sovietica aveva tentato invano di esportare anche in Cina. Gli artisti cinesi danno vita a una sorta di “irrealismo socialista”: dipingono il sogno vivacemente e allegramente colorato di una società socialista in costruzione da cui eliminano (per scelta estetica più che per imposizione politica) sporcizia, sudore, miseria, fame e dolore. Si rimane letteralmente incantati davanti alle immagini di contadini, soldati, studenti, operai, massaie, bambini con quelle camicie bianche e immacolate, stirate alla perfezione; quelle giacche impeccabili, scarpe di pezza senza un barlume di sporco, pantaloni di cotone che cadono perfetti. Il tutto all’interno di fabbriche scintillanti e accoglienti, oppure circondati da campi di grano stilizzati e magnifici, da alberi dai frutti meravigliosi, o in camere maniacalmente pulite e arredate con gusto sapientemente minimalista.
Tra la fine gli anni Sessanta e primi anni Settanta il mito di Mao ha la sua consacrazione ufficiale dal creatore dei miti iconici del XX secolo per eccellenza: Andy Warhol. L’artista americano si appropria del ritratto ufficiale di Mao, lo spalma di incantevoli colori acrilici su tele piuttosto grandi (cm 208.3 x 155) e ci tappezza le pareti del Kunstmuseum di Basilea nell’ottobre del 1972.
Persino il cinema popolare non sfugge alla stregatura di Mao e della rivoluzione culturale. Nel 1971 Sergio Leone crea il primo spaghetti-western “maoista” della storia del cinema occidentale: Giù la testa. Il film inizia con una citazione popolarissima di Mao, tratta dall’ormai popolarissimo, anche in Europa, Libretto Rosso: “la Rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo [...]. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra”. Il più raffinato cineasta europeo, Jean-Luc Godard, si converte al maoismo a cui dedica una serie di film, il più importante dei quali, esplicito fin dal titolo, La Chinoise, è un atto d’accusa alla società dei consumi, ai miti falsi e ipocriti della società borghese contemporanea. In esso affida alla nipote del più grande scrittore cattolico francese vivente, François Mauriac, il ruolo della protagonista che si aggira per tutto il film leggendo e commentando le citazioni del presidente Mao su un onnipresente Libretto Rosso.
Che resta oggi, a distanza di quarant’anni, del mito di Mao e della rivoluzione culturale? Di certo il mito sopravvive alla Storia perché fin dall’inizio, come abbiamo visto, ha fatto a meno della Storia. Eppure un tentativo di risposta si può ricavare da una pagina memorabile di Italo Calvino tratta da Le città invisibili, scritto in quegli anni, che forse è eccessivo definire un libro “maoista” ma di sicuro è cinese. “Kublai domanda a Marco: – Quando ritornerai al Ponente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai a me? – Io parlo parlo, – dice Marco – ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio. – Alle volte mi pare che la tua voce mi giunga da lontano, mentre sono prigioniero di un presente vistoso e invivibile, in cui tutte le forme di convivenza umana sono giunte a un estremo del loro ciclo e non si può immaginare quali nuove forme prenderanno. E ascolto dalla tua voce le ragioni invisibili di cui le città vivevano e per cui, forse, dopo morte, rivivranno”.
Pertanto: chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio. Forse al mito di Mao e della rivoluzione culturale, come viene trattenuto oggi da un orecchio europeo, si addice un aforisma taoista che si trova in Zhuangzi (IV-III sec. a.C.), che di sicuro sarebbe piaciuto sia a Marco Polo che a Calvino: “tutti conoscono l’utilità di ciò che è utile, ma ignorano l’utilità di ciò che è inutile”.