Maometto e la prima espansione dell'islam
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La comparsa dell’islam nel VII secolo a Mecca costituisce un evento sorprendente a causa delle scarse conoscenze che si avevano dell’Arabia. La sua affermazione è certo il risultato di un’intensa opera di proselitismo ma anche, e non secondariamente, di numerose azioni belliche con le quali i musulmani si impongono in tempi rapidissimi su pagani, ebrei, cristiani e mazdei della penisola arabica e, con i primi califfi, sulle popolazioni dell’intero Vicino Oriente e della Persia.
L’islam muove i suoi primi passi nel secondo decennio del VII secolo nel grosso borgo arabo di Mecca, che Tolomeo chiamava Macoraba, abitato dalla tribù dei Quraysh e sviluppatosi intorno al suo cubico santuario urbano della Ka’ba.
È senza precedenti la straordinaria celerità con cui esso si afferma: poco più di venti anni per assoggettare religiosamente e militarmente la regione araba del Higiaz; ulteriori tre anni per imporsi nell’intera penisola arabica e sette anni ancora per conquistare stabilmente la Siria e l’Egitto bizantini, la Mesopotamia e la parte occidentale della Persia, annichilendo nel 651 la dinastia sasanide che vi regnava dal 226.
Tale rapidità rappresenta una totale sorpresa in Asia, Africa ed Europa. Ciò anche perché le informazioni riguardanti l’Arabia e i nomadi o i sedentari che l’abitavano erano insignificanti e spesso fantasiose. Ecateo, Erodoto, Nearco, Aristone, Agatarchide di Cnido, Diodoro Siculo, Eratostene e Strabone non avevano saputo dire molto di più del fatto che nell’eremós dell’Arabia Deserta erano presenti Skeniti (“che vivevano sotto le tende”), vale a dire beduini, in linea di massima impegnati in irrilevanti razzie e guerricciole coi vicini, anch’essi perlopiù allevatori di ovini, asini o dromedari.
Maometto – italianizzazione medievale di Muhammad – nasce proprio a Mecca, uno dei piccoli centri urbani del Higiaz. Come molti suoi concittadini, si dedica al commercio e viaggia in Siria e in Yemen, da cui provengono prodotti pregiati, dalle stoffe ai ricercatissimi aromata, tra cui l’incenso, il nardo, la mirra o il balsamo. Le carovane che li trasportano fungono da lievito culturale non meno che economico, collegando aree assai distanti e diverse. A gestirle sono le popolazioni dell’Arabia meridionale, dai Sabei agli Himyariti, mentre i Nabatei curano da ultimi, fino all’Arabia Petrea, il tratto più settentrionale di tali rotte.
Fin dal II millennio a.C. chi abitava nell’Arabia Felix yemenita s’era organizzato in monarchie e federazioni di stati, originando una lingua scritta e un complesso sistema religioso, edificando grandi strutture palaziali e irreggimentando con intelligenza le acque per dar vita a una florida agricoltura; l’Arabia è in contatto non episodico con terre di antica cultura materiale e spirituale, al di là di stretti bracci di mare, comunque facilmente navigabili. A ovest del Mar Rosso s’erge infatti il potente regno abissino cristiano di Aksum, a est del Golfo Persico s’eleva l’altopiano iranico, a nord infine la Siria e la Mesopotamia costituiscono le immediate propaggini della penisola arabica. In ognuna di queste terre, da secoli, prosperano ebraismo, cristianesimo orientale, mazdeismo.
È in un terreno culturalmente ricco, dunque, che germina, verso il 610 della nostra epoca, l’islam. Suo profeta è l’ormai agiato Muhammad che, convinto d’essere stato investito da Dio (Allah), per il tramite dell’angelo Gabriele, della missione di convertire i suoi concittadini politeisti alla “vera” fede, impegna tutto se stesso in un apostolato difficile e non privo di rischi, che risulterà però infine vincente.
I rischi derivano dal sovvertimento sociale che l’islam comporta. Il Quran (Corano) – il “Libro da salmodiare”, direttamente ascrivibile a Dio – non chiama solo al monoteismo assoluto, ma sollecita la nascita di una nuova comunità di credenti (umma) in cui gli antichi vincoli familiari e tribali devono cedere il passo a quelli di fede, in un marcato egualitarismo cui non difettano forti venature antisuntuarie e una spiccata solidarietà. Tutto ciò non può non irritare i gestori del vecchio potere, i Quraysh, i cui privilegi e poteri sono assai concretamente messi a repentaglio. Inevitabile, quindi, la loro ostilità, malgrado essi non possano spingersi troppo in là nel loro contrasto, a causa della vincolante legge consuetudinaria tribale e del radicato senso dell’onore che assicura incolumità a ogni suo componente, tanto da vanificare persino un tentativo di boicottaggio del clan di Muhammad nel 615.
L’azione di proselitismo – che non può essere agevole in patria, dove per 40 anni Muhammad aveva svolto i suoi commerci, alle dipendenze dapprima dello zio e tutore Abu Talib, poi della ricca vedova meccana, Khadija bint Khuwaylid e infine da felice sposo di costei – diviene possibile allorché, nel 622, a tre anni dalla morte dei suoi importanti protettori (lo zio e la moglie), Muhammad si trasferisce segretamente coi suoi accoliti nella più settentrionale oasi di Yathrib, dopo accordi presi con i suoi abitanti. Compie così un’“emigrazione” (egira) che comporta la rottura dei vincoli di solidarietà tribale e la perdita dei diritti all’incolumità.
Nella cittadina – presto chiamata dai musulmani Madinat al-Nabi, “Città del Profeta” o, più semplicemente, Medina – le sparute file dei Muhagirun (“Emigranti”) meccani si ampliano notevolmente grazie alle conversioni nel corso degli anni dei suoi abitanti arabi pagani (Ansar, ossia “Ausiliari”, del Profeta), ma non di quelli israeliti che, da secoli, vivono e prosperano nell’oasi. Verso questi ultimi Muhammad effettua incessantemente un’azione di apostolato, nella vana speranza di farsi accettare come l’ultimo anello di una catena profetologica in gran parte veterotestamentaria, che mostra comunque quanto marcata fosse l’acculturazione subita, non solo in quelle prime fasi, dalla fede islamica nei confronti dell’ebraismo.
Non diversamente da quest’ultimo, anche l’islam afferma se stesso con pacifiche forme di proselitismo ma anche con cruente azioni belliche, con la medesima giustificazione di dover attuare una precisa “volontà divina”.
A Badr nel 624, a Uhud nel 625 (dove i musulmani patiscono una dura disfatta) e a Medina nel 627 si dipanano le vicende armate della umma, che nel 630 riesce a piegare la ricca e orgogliosa Mecca e, a Hunayn, i beduini del Higiaz. Tutto ciò s’accompagna a crescenti misure coercitive contro i gruppi ebraici medinesi, l’ultimo dei quali – quello dei Qurayza – vede addirittura l’intera sua componente maschile adulta sterminata, mentre impuberi e donne sono venduti come schiavi.
L’8 giugno 632 il Profeta muore a Medina, dove aveva seguitato a vivere, non dimentico che senza la provvida accoglienza di quella cittadina l’islam non avrebbe avuto modo di affermarsi.
La successione alla guida politica della umma è frutto della geniale creatività dei musulmani. Senza indicazioni coraniche e senza istruzioni del profeta che possano guidarli, essi danno vita in poche ore a un’istituzione che sopravvive per circa tredici secoli, sei dei quali sotto dinastie arabe. Del califfato (da khilàfa, “luogotenenza”) è investito Abu Bakr, il miglior amico e collaboratore del Profeta, di cui era coetaneo, oltre a essere stato il primo adulto maschio a credere a Muhammad (comunque dopo la moglie Khadigia).
Nei tre anni scarsi di califfato (632-634) egli porta, o riporta, all’obbedienza di Medina e della fede islamica le tribù dell’intera penisola arabica, alcune delle quali, convertitesi in precedenza, s’erano ritenute libere da impegni dopo la morte del Profeta.
Con esse il nuovo califfo (o “comandante dei credenti”) ‘Omar b. al-Khattab avvia nel decennio 634-644 l’epica stagione delle conquiste fuori d’Arabia e la prima trasformazione delle primitive strutture patriarcali della umma.
Conquistate senza soverchie difficoltà la Siria-Palestina e l’Egitto (in cui la fedeltà a Costantinopoli s’è notevolmente deteriorata dopo decenni di guerre che l’Impero bizantino aveva combattuto contro quello persiano-sasanide), viene piegata anche la Mesopotamia (ormai aggiogata al carro sasanide) e la stessa Persia occidentale, malgrado l’assai più forte resistenza dei suoi eserciti. La sua capitale, Seleucia-Ctesifonte è conquistata nel 637, appena cinque anni dopo la morte di Muhammad. Già sotto ‘Omar la umma riceve un primo abbozzo di sistemazione amministrativa, con la creazione dei registri delle imposte pagate dai sudditi musulmani e non musulmani (ebrei, cristiani e zoroastriani) e dei ruoli dell’esercito, con le sue paghe e l’ammontare delle pensioni di cui avrebbero goduto gli eredi dei caduti.
L’assassinio del califfo porta alla nomina di Uthman ibn Affan, al potere dal 644 che ha il merito di far mettere per scritto il Corano che, fino ad allora, per l’assenza di un affidabile canone scrittorio, era stato imparato a memoria.
La sua politica di nepotismo – non troppo esagerato e comunque spesso giustificato dalle superiori capacità del suo clan dei Banu Umayya (uno dei più in vista già nella Mecca preislamica) – suscita contro di lui crescenti rancori che, uniti alla inadeguata conduzione della umma negli ultimi anni del suo governo, sfociano infine nel suo omicidio. Non si scoprirà mai con certezza chi avesse ordito il complotto ma il fatto che, nei torbidi mesi che seguirono l’assassinio, fosse eletto il cugino e genero del Profeta, Alì ibn Abi Talib, attira fatalmente su di lui sospetti del tutto ingiustificati.
Dopo un marginale scontro nel 656 con due antichi compagni di lotta, nella cosiddetta battaglia del Cammello – dall’alto di uno dei quali la più famosa vedova del Profeta, Aisha bint Abi Bakr, vuole assistere, nella speranza che Alì sia sconfitto –, si muove contro il nuovo califfo, l’omayyade Mu‘awiya b. Abi Sufyan, eletto al governatorato di Siria fin dai tempi di Omar. Lo scontro che ne segue, a Siffin (657), non è risolutivo ma la spaccatura che provoca nella umma non viene mai più composta e costituisce anzi la base per le successive contrapposizioni fra i filoalidi sciiti e i sunniti, senza trascurare i cosiddetti kharigiti che a entrambi da allora in poi si contrapporranno violentemente.
L’assassinio di Alì nel 661 da parte di un kharigita, che intende vendicare una precedente strage di suoi correligionari da lui perpetrata, precipita nel caos il primitivo califfato, fin troppo ottimisticamente definito “ortodosso”, e porta del tutto irritualmente al potere la nuova dinastia degli Omayyadi.