DE DOMINIS, Marcantonio
Nacque ad Arbe, capoluogo dell'omonima isola dalmata, nel 1560 o agli inizi del 1561. Era figlio di Girolamo, che taluni identificano con Girolamo di Cristoforo, avvocato e scrittore satirico; la madre era veneziana, della famiglia Vellutelli.
Sul suo casato vi è la testimonianza di Fulgenzio Micanzio, in una lettera a W. Cavendish del 24 febbr. 1617: "là nato da una delle principali famiglie della Dalmazia, chiamata nella sua lingua Dominich e nella nostra De Dominis". La liamiglia appare collegata fin dal secolo XV con la Corona ungheresecroata, avendo ottenuto dall'imperatore Sigismondo lo stemma gentilizio e il titolo ereditario di conti palatini. Il legame fu mantenuto anche nel Cinquecento, come dimostrano i vari membri della famiglia designati dagli Asburgo, per diritto di presentazione, al vescovato di Segna, la città croata posta idurimpetto ad Arbe. Allo stesso tempo i De Dominis rivestirono cariche importanti anche sotto l'amministrazione veneziana.
A 12 0 13 anni il D. entrò nel collegio illirico di Loreto, retto dai gesuiti, dove compì gli studi di grammatica e retorica. Il 10 dic. 1579 venne accolto nella Compagnia di Gesù a Novellara, nella casa di noviziato della provincia veneta. Proseguì gli studi nel collegio di Verona, col triennio del corso filosofico, iniziando nello stesso tempo l'insegnamento letterario nelle classi inferiori. Intorno al 1587-88 prese a frequentare i corsi teologici nel collegio di Padova, nel quale fu anche lettore di matematica e si segnalò come strenuo difensore dell'istituzione gesuitica nel conflitto sorto sul finire del 1591 con l'università. Chiuso il collegio di Padova, si trasferì in quello di Brescia, dove fu ordinato sacerdote (1592) e completià gli studi teologici.
Sul finire del 1595 ottenne d'essere inviato a Roma, per svolgervi il cosiddetto terz'anno di probazione, il periodo di speciale preparazione al ministero spirituale che seguiva il completamento degli studi. Alloggiò presso la casa dei gesuiti di S. Andrea al Quirinale, attendendo in particolare alla predicazione. Il 15 giugno 1596 ebbe licenza di ritornare in Dalmazia per portar soccorso a "monsignor vescovo di Segna suo fratello", che era stato preso prigioniero dai Turchi. In realtà Antonio De Dominis, che altri documenti definiscono cugino o zio del D., vescovo di Segna dal 1590, era stato ucciso in battaglia il 28 maggio precedente, mentre partecipava alla spedizione di soccorso alla fortezza di Clissa, assediata dai Turchi. Il D. tenne a lungo nascosta la notizia ai propri superiori e intanto passava dalla Dalmazia a Graz, presso il governo dell'Austria Interiore. Da questa città scriveva a Roma nel maggio 1597, comunicando che l'imperatore Rodolfo II l'aveva designato amministratore della diocesi di Segna; insieme faceva istanza di poter uscire dalla Compagnia di Gesù. La richiesta venne accolta: il 14 giugno 1597 il padre generale gli spediva ad Arbe la relativa patente di dimissioni.
Nel settembre 1598 il D., dopo un viaggio a Roma, otteneva da Clemente VIII l'incarico di tentare una mediazione tra Venezia e gli Asburgo sul problema degli Uscocchi, le milizie irregolari croate che avevano per base principale Segna e che rappresentavano una continua minaccia per i vicini domini veneziani. Egli in effetti ideò un piano per risolvere la questione: si doveva collocare a Segna una guarnigione tedesca, trasferendo gli Uscocchi in alcune piazzeforti dell'interno, da costruire con il ricavato dell'appalto per lo sfruttamento dei boschi circostanti la città. Nel novembre 1599 il vescovo si recò a Praga per illustrare il progetto a Rodolfo II: nel frattempo però si metteva segretamente in contauo con le autorità veneziane. Il 22 luglio 1600 si presentava in persona davanti al Collegio, per assicurare la propria lealtà alla Signoria e deprecare gli "eccessi barbari et inhumani" degli Uscocchi.
Il 13 ag. 1600 il D. ebbe la conferma papale della nomina a vescovo. Intanto a Segna il commissario imperiale Giuseppe Rabatta aveva dato avvio al trasferimento forzato degli Uscocchi, dopo averne fatto impiccare i principali capi. Nell'autunno 1601 il D. si recava nuovamente a Praga per vincere le ultime difficoltà all'esecuzione del suo progetto. Era sulla via del ritorno allorché, il 31, dic. 1601, gli Uscocchi insorsero e uccisero il Rabatta. Per domare la rivolta gli Asburgo acconsentirono senza difficoltà a lasciare quei loro sudditi sulla costa, revocando le operazioni di trasferimento. L'impopolarità della proposta ricadde così unicamente sul vescovo, che non poté più metter piede nella sua diocesi.
Il caso trovò ben presto soluzione, grazie ai buoni uffici dell'arcivescovo di Zara Minuccio Minucci e dell'ambasciatore veneziano a Roma: il 10 ag. 1602 lo stesso Clemente VIII proponeva per il D. l'arcidiocesi di Spalato, resasi vacante da pochi giorni. L'ostacolo maggiore alla nomina fu interposto dal cardinal Pietro Aldobrandini, che per la carica aveva un proprio candidato, il canonico udinese Marzio Andreuzzi: ma l'Andreuzzi, zelante sostenitore degli interessi pontifici, era malvisto dalla Signoria. Il D. si recò personalmente a Roma per sostenere la propria elezione: finalmente il titolo gli fu conferito nel concistoro del 15 novembre. Il 20 successivo Clemente VIII gli imponeva il pallio di metropolita della Dalmazia e Croazia. Su richiesta di Pietro Aldobrandini le rendite dell'arcidiocesi vennero però gravate di una pensione di 500 ducati annui a favore dell'Andreuzzi.
Il D. prese possesso della carica nel marzo 1603. Contemporaneamente al suo insediamento vi fu a Spalato e nelle diocesi suffraganee la visita apostolica di Michele Priuli, vescovo di Vicenza, già da tempo disposta da Clemente VIII.
Con la sua collaborazione l'arcivescovo cercò di metter ordine nella vita della propria Chiesa, in primo luogo riducendo drasticamente le prerogative dei canonici della cattedrale. Ne nacque una lunga contesa, con appello a Roma e sentenza conclusiva a favore dei canonici. Maggior fortuna ebbe l'opera del presule nella predicazione e nell'istruzione dei clero, per il quale tenne personalmente corsi di logica, scienze e teologia.
Un continuo motivo di preoccupazione restava in ogni modo la pensione che doveva venir pagata all'Andreuzzi, pari a un quarto delle normali rendite della diocesi. Già alla prima scadenza l'impegno non venne onorato, con il pretesto della povertà della Chiesa spalatina. L'Andreuzzi protestò presso la Curia papale, che intimò al D. di pagare, sotto pena delle censure zanoniche. Il canonico friulano godeva di ottimi appoggi a Roma, tanto che il 19 luglio 1604 veniva nominato vescovo di Traù, diocesi suffraganea e confinante con Spalato, nonostante le perplessità del governo veneziano. Il 18 agosto successivo, perdurando l'insolvenza, il D. veniva sospeso dalle sue funzioni: si rese così necessario un nuovo viaggio a Roma.
La vertenza con l'Andreuzzi fu composta Solo il 20 luglio: venne tolto l'interdetto al D., ma egli in sostanza dovette cedere a tutte le pretese del concorrente. Nel frattempo a Spalato era sorto un aspro conflitto giurisdizionale tra il vicario del D. e il vescovo di Lesina, con reciproco scambio di scomuniche. Rientrato in sede, l'arcivescovo aveva tentato di far valere le proprie prerogative di metropolita e la disputa era proseguita fino al marzo 1606, quando la Curia romana diede definitivamente ragione al titolare di Lesina. Poche settimane dopo scoppiava la grave crisi fra Paolo V e Venezia, e veniva intimato l'interdetto alla Repubblica. Il D. si schierava apertamente contro Roma e prendeva le difese delle tesi veneziane col dialogo, Martellino, cui, seguirono una risposta latina alla Paraenesis del Baronio e un breve consulto in italiano.
Negli scritti non solo si respingeva l'ingerenza pontificia in materia civile e l'efficacia delle scomuniche, ma era anche negata a Roma ogni facoltà d'intervenire nella vita delle singole diocesi; inoltre veniva messa in dubbio la validità dei decreti tridentini e giudicata simoniaca e contraria ai canoni l'elezione di Paolo V. Erano affermazioni troppo radicali anche per le accese polemiche del 1606: e difatti le tre operette non furono stampate.
Dopo il viaggio a Roma nel 1605 il D. per lungo tempo risiedette stabilmente nella propria diocesi. Nel corso del 1606 effettuò la visita pastorale delle località sottoposte alla sua giurisdizione spirituale; promosse anche lunghi lavori nella chiesa cattedrale, per renderla più ampia e decorosa. Il 5 dic. 1607 emanò una nuova serie di provvedimenti di riforma per il capitolo dei canonici: ma le disposizioni più severe, come l'esclusione dalle rendite per quelli che s'assentavano arbitrariamente, furono invalidate dalla Curia romana. Nel luglio 1608 il D. chiese al pontefice che fosse unita a Spalato la vicina diocesi di Dalma (Dalminium, ora Duvno), compresa nella Bosnia soggetta ai Turchi. Si trattava ormai di poche migliaia di cattolici, in mezzo a una popolazione per lo più greco-scismatica, affidati dal tempo della conquista ottomana ai francescani bosniaci. Anche se Dalma tradizionalmente era suffraganea di Spalato, le autorità veneziane furono contrarie a ogni cambiamento nella zona, per non suscitare imprevedibili reazioni da parte turca: in tal senso si pronunciò in un consulto Paolo Sarpi (Arch. di Stato di Venezia, Cons. in iure, b. 7, cc. 92-94).
La vertenza con l'Andreuzzi intanto riprendeva vigore. La peste che aveva afflitto Spalato nel 1607 fu considerata dall'arcivescovo una ragione valida per la sospensione dei pagamenti: il 29 luglio 1609, invece, egli venne nuovamente colpito dalle censúre canoniche e l'anno seguente privato della carica. La Signoria propose la mediazione dei patriarchi d'Aquileia e di Venezia, Francesco Barbaro e Francesco Vendramin: il 17 dic. 1611 fu raggiunto un accordo che riconosceva il D. debitore di 2.300 ducati e lo vincolava al pagamento, sia pur rateale, mentre l'Andreuzzi consentiva alla revoca delle censure.
Risolta sul piano economico, la controversia tra i due prelati riesplose subito sul terreno della giurisdizione ecclesiastica. A differenza, dei suo antagonista, l'Andreuzzi non osservava l'obbligo della residenza e il D., forte delle sue prerogative di metropolita, poteva facilmente ingerirsi nelle questioni di Traù: agli inizi del 1613 fece allontanare lo stesso vicario del vescovo, che con grande scandalo era stato riconosciuto ammogliato. Agli inizi del 1614 l'Andreuzzi ritornava in sede e nel clero diocesano si formarono due partiti opposti, con scambio reciproco di scomuniche; il 2 febbraio il D. scomunicava lo stesso Andreuzzi e la soluzione dell'intricata faccenda fu ovviamente rimessa a Roma. Intanto anche le autorità veneziane cominciavano a prendere le distanze dall'arcivescovo.
Nel novembre 1613 il D., per l'età e la cattiva salute, aveva chiesto la nomina di un coadiutore con diritto alla successione. A Roma una simile soluzione non piaceva, ma la trattativa in tal senso proseguì per tutto il 1614, con la mediazione di Berlingerio Gessi, nunzio a Venezia. Nell'aprile di quell'anno l'arcivescovo fu invitato personalmente a Roma, per discutere la questione: ma egli rifiutò di mettersi in viaggio. Intanto s'erano già, diffuse a Venezia voci sulla sua scarsa ortodossia. Fin dal 15 apr. 1612 il nunzio aveva informato la Curia papale che il D. "pensava alla stampa d'un libro ripieno di concetti e propositioni contrarie alla sede apostolica et heretiche", anche se il 28 aprile seguente comunicava d'aver ricevuto assicurazione dall'interessato che si trattava soltanto di uno scritto relativo alla vertenza con l'Andreuzzi (Arch. Segr. Vat., Dispacci del Nunzio a Venezia, b. 42, cc. 407v e 417v). Le cose in realtà non andarono così. Il 15 maggio dello stesso anno Dudley Carleton, ambasciatore inglese a Venezia, riferiva in cifra a Giacomo I che il D. gli aveva mostrato "a large volume" di scritti contro il primato papale (Londra, Publ. Record Office, State Papers 99, b. 9, c. 256). I rapporti tra il D. e l'ambasciata inglese a quell'epoca dovevano essere appena iniziati: assai più stretti appaiono due anni dopo, nella primavera del 1614. In una lettera del 15 maggio l'arcivescovo parlava diffusamente della sua opera, delle macchinazioni papali nei suoi confronti e del desiderio di porsi sotto la protezione di Giacomo I. Il 29 agosto scriveva ancora, in latino, sul proprio desiderio di vedere l'unione delle Chiese; sulla partenza per l'Inghilterra erano d'acccirdo tanto il re quanto l'arcivescovo di Canterbury, George Abbot (ibid., b. 16, c. 2; b. 17, c. 78). In effetti il 15 dic. 1614 l'Abbot comunicava al Carleton che il D. poteva aspettarsi in Inghilterra una sistemazione decorosa all'università e una pensione annua di 200 sterline. Il 30 genn. 1615 accettava l'offerta, inviando da Venezia messaggi latini al re e al primate inglese (ibid., b. 18, cc. 249-256).
Di questi contatti epistolari le autorità, sia ecclesiastiche sia civili, non dovettero aver sentore, almeno sul momento. L'arcivescovo però si era fatto assai meno prudente, tanto nelle conversazioni private quanto nelle prediche. Ormai egli trascorreva molto tempo a Venezia, in casa del nipote Giovanni Bartoli: poté anche ottenere dal papa l'esonero dall'obbligo della residenza, a causa della guerra tra Venezia e gli Asburgo per la questione uscocca, che rendeva pericoloso il suo soggiorno a Spalato. Il 12 genn. 1616 indirizzava ai fedeli, da Venezia, una lettera pastorale in cui respingeva le accuse mosse nei suoi confronti, e si dichiarava disposto a lottare fino alla morte in difesa della fede cattolica. Era in sostanza un commiato, perché aveva deciso di rinunciare alla carica vescovile in favore del canonico cividalese Sforza Ponzon, nipote acquisito, ben accetto anche a Roma. Nel maggio seguente, attraverso la mediazione dell'ambasciatore veneto, Paolo V dava il consenso alla successione.
Sempre nel maggio 1616 l'Andreuzzi, in precinto di "passare in Italia" (verisimilmente alla volta di Roma), raccoglieva a Spalato varie testimonianze scritte su affermazioni compromettenti del D. (Udine, Bibl. civ., ms. 467, cc. 32-33). Ma ormai tutto era pronto per il passaggio dell'arcivescovo in Inghilterra. Il prelato si metteva in viaggio a metà settembre, portando con sé il nipote Matteo Ponzon, fratello dei successore, al quale aveva detto che si recava nelle Fiandre. Il 7 ottobre a Chiavenna il D., che vestiva abiti civili e si faceva passare per raguseo, fu riconosciuto dagli agenti veneti nei Grigioni, i quali cercarono invano di dissuaderlo dal proseguire: solo il nipote si fermò a Coira. Ai due rappresentanti della Repubblica l'arcivescovo lasciò una lettera per il doge, in cui denunciava le insidie romane e ribadiva la propria fedeltà a Venezia. Proseguì con un gentiluomo inglese inviatogli dall'Abbot, probabilmente Robert Barnese che l'attendeva ormai da una settimana. Passando per Basilea raggiunse Heidelberg, ciove pubblicò il manifesto Causae profectionis suae ex Italia, con l'indicazione "Venezia, 20 sett. 1616".
In esso il D., ripercorrendo in breve la storia della sua vita, faceva iniziare il proprio distacco da Roma al tempo dell'interdetto, quando aveva constatato che la Chiesa sotto il pontefice era solo "una repubblica humana"; condannava gli abusi e gli errori papali, ma dichiarava allo stesso tempo di voler rimanere nella comunione cattolica, sotto la qu e anzi intendeva promuovere "l'unione di tutte le chiese di Christo". Annunciava infine di aver pronta l'opera in dieci libri De republica ecclesiastica, di cui offriva un riassunto analitico. Il 22 ottobre, scrivendo da Heidelberg al nipote arcivescovo e ad altri parenti, inviava a Venezia e a Spalato diversi esemplari dell'opuscolo.
Il viaggio proseguì il 2 novembre, in barca sul Reno, passando sotto le piazzaforti spagnole. Il 18 il D. era a L'Aia, dove si fermò per qualche tempo ospite del Carleton, ora ambasciatore inglese presso le Province Unite. Fu ricevuto dal principe Maurizio di Nassau e a Rotterdam ebbe un incontro con Ugo Grozio. Il 14 dicembre sbarcava a Dover, e il 20 seguente veniva accolto a Londra dall'arcivescovo Abbot, che lo ospitò a Lambeth Palace: pochi giorni dopo l'arrivo il primate d'Inghilterra gli conferiva il titolo di decano di Windsor e una rendita annua di 600 sterline; ai primi di gennaio lo stesso sovrano lo riceveva in udienza, dandogli la precedenza rispetto ai vescovi inglesi.
Il 12 nov. 1616 la Congregazione romana dell'Indice aveva intanto condannato come "eretico, erroneo e scismatico" il suo manifesto e i dieci libri De republica ecclesiastica ancora inediti. Il giorno 17 a Venezia il S. Uffizio apriva l'inchiesta sul vescovo fuggiasco, non a titolo proprio, ma per raccogliere "informationes pro Urbe" (Arch. di Stato di Venezia, Sant'Uffizio, b. 71).
Vennero in primo luogo esaminati i parenti, a cominciare dal successore Sforza Ponzon, che consegnò le lettere ricevute dallo zio e proclamò la propria estraneità alla vicenda; Matteo Ponzon fece invece una lunga .relazione sul viaggio fino a Coira, riferendo tra l'altro che lo zio portava con sé "sei libri scritti a penna in foglio... de' quali ne haveva cura grandissima". Il 3 novembre in casa di Giovanni Bartoli fu sequestrata la notevole biblioteca lasciata dal fuggitivo, ricca di testi patristici e di teologi contemporanei, nonché di una collezione di scritti sull'interdetto: pochi i libri proibiti, tra i quali l'Apologia pro iuramento fidelitatis di Giacomo I. Dai successivi interrogatori di alcuni abitanti di Spalato si venne a sapere che l'arcivescovo, già vari anni prima, aveva difeso nelle sue prediche le prerogative dello Stato in materia ecclesiastica e negato il magistero papale; in colloqui privati si era anche dichiarato favorevole al matrimonio dei preti. In dicembre le testimonianze e i documenti raccolti furono trasmessi a Roma.
A Londra nel 1617-18 il D. si dedicò a un'intensa attività di scrittore, servendosi in genere dell'ottima tipografia reale di John Bill. Il suo manifesto del 1616 fu tradotto nelle più diffuse lingue europee; nel 1617 l'autore ne curò la versione italiana: già in luglio vari esemplari dell'opera, "legati in forma di officiuolo" venivano sequestrati a Spalato. Nell'autunno 1617 apparirono; con dedica a Giacomo I, i primi quattro libri del De republica ecclesiastica, che trattano rispettivamente la forma della "repubblica ecclesiastica", le diverse funzioni del clero, la gerarchia dei vescovi e le prerogative della Chiesa di Roma, con il rifiuto di ogni supremazia pontificia e dei privilegi del Collegio cardinalizio. Nella primavera 1618 le principali idee del D. venivano compendiate negli Scogli del christiano naufragio, uno scritto di carattere popolare, apparso senza il nome dell'autore e i dati tipografici per poter sfuggire meglio la censura: ma già nel maggio di quell'anno le autorità romane ne erano al corrente. Non sembra invece opera del D. l'anonimo Papatus romanus: liber de origine, progressu atque extinctione eius (Londini 1617), di prevalente impostazione giuridica, che gli viene spesso attribuito.
L'intensa attività pubblicistica corrispondeva pienamente alle attese che la partenza dei D. dall'Italia aveva suscitato negli ambienti protestanti: ormai egli era considerato un'autorità di rinomanza europea in campo religioso. Alla fine del 1617 Ugo Grozio gli chiedeva d'intervenire in Inghilterra a favore del partito arminiano; il 6 sett. 1618 il patriarca d'Alessandria Cyrillos Loukaris, dopo aver letto il primo volume del De republica ecclesiastica, gli scriveva dall'Egitto una lettera piena d'entusiasmo, proponendo una comune azione antiromana. Il re d'Inghilterra non mancava d'esprimere all'ospite italiano stima e considerazione. Da parte sua il D. sembrava rivolgersi con pari fiducia a tutti gli oppositori del Papato, qualunque confessione professassero. Nel dicembre 1617, predicando la prima domenica dell'Avvento nella chiesa degli Italiani, dedicava le sue preghiere ai sovrani inglesi, all'elettore palatino e alla Repubblica veneta: il sermone fu subito stampato nell'originale e in varie traduzioni. Sempre nel dicembre di quell'anno l'arcivescovo consacrava, alla presenza dei più alti ecclesiastici inglesi, due nuovi vescovi anglicani. Nel marzo 1618, accanto al decanato di Windsor, gli veniva conferita la sovrintendenza del Savoy, l'istituzione londinese a beneficio dei viandanti: il decreto di deroga alle leggi che vietavano la concessione di rendite ecclesiastiche a sudditi stranieri faceva esplicito riferimento ai suoi libri in difesa della verità evangelica.
Gli scritti del D. in effetti lasciavano il segno e le autorità romane, fin dal loro primo apparire, avevano promosso una imponente serie di confutazioni e risposte. Il centro di quest'attività fu a lungo la nunziatura di Bruxelles, la più informata su quanto avveniva in Inghilterra: già nell'aprile 1617 il nunzio Ascanio Gesualdo disponeva di alcuni fogli a stampa del De republica ecclesiastica destinati ai teologi di Lovanio, che poterono così iniziare a scrivere contro il libro prima della sua diffusione. In seguito attacchi e confutazioni, queste spesso di gran mole, apparvero anche in Germania, Francia e Italia. L'interessato replicò una volta soltanto, sotto il nome di Daniel Lohet, suo preteso scrivano, col Sorex primus oras chartarum primi libri de republica ecclesiastica... corrodens (London 1618), indirizzato contro il "teologastro coloniense" Leonhard Marius.
Nei primi mesi del 1619 il D. curava la stampa, presso la consueta tipografia, dell'Istoria del concilio tridentino di Paolo Sarpi, che era arrivata in Inghilterra senza il suo intervento. Vi premetteva una dedica a Giacomo I, datata il 1° genn. 1619, molto aspra nei riguardi di Roma, come del resto il lungo titolo da lui stesso ideato: Historia del Concilio Tridentino. Nella quale si scoprono tutti gl'artifici della Corte di Roma, per impedire che né la verità di dogmi si palesasse, né la riforma del Papato, et della chiesa si trattasse, di Pietro Soave Polano (anagramma di Paolo Sarpi Veneto). Prefazione e titolo, più che le poche correzioni in senso anglicano apportate dall'editore, spiacquero al Sarpi: a suo nome se ne lamentava il 13 febbr. 1620 Fulgenzio Micanzio, con una lettera molto seccata. Agli inizi del 1620 usciva intanto il secondo volume dei De republica ecclesiastica, checontiene i libri quinto e sesto, dedicato l'uno al potere spirituale della Chiesa e ai sacramenti (ridotti a due, battesimo ed eucarestia), l'altro alla potestà civile e ai suoi rapporti con il potere ecclesiastico. Un'appendice difende la legittimità del giuramento imposto da Giacomo I ai suoi sudditi.
Nel corso del 1620 i rapporti del D. con i suoi protettori inglesi si guastarono progressivamente. Al decanato di Windsor era annessa la parrocchia di Langly, con un reddito di 120 sterline annue: ma nel luglio 1619 l'arcivescovo Abbot si oppose a che venisse conferita a uno straniero che non conosceva l'inglese e quindi non poteva svolgere attività pastorale. Le proteste del D. al riguardo sollevarono l'indignazione del clero inglese. Eguale impopolarità creò il suo tentativo di aumentare gli affitti a quanti avevano in locazione le proprietà del Savoy. Il prelato dalmata faceva continue richieste di denaro, ma allo stesso tempo conduceva una vita da gran signore: circolavano ormai vari aneddoti sulla sua avidità.
Molto più grave, in ogni modo, era il concrasto che divideva il D. dai suoi ospiti sul piano dottrinale: la lontananza di alcune sue posizioni dall'anglicanesimo era stata notata già subito dopo il suo arrivo. Egli tra l'altro mostrava una chiara propensione per le idee arminiane ed era molto preoccupato di quanto avveniva in Olanda: all'inizio del 1618 era intervenuto a sostegno di Grozio e di una pacificazione religiosa presso il re d'Inghilterra e gli stati generali delle Province Unite. Sia il Carleton che l'Abbot aderivano invece a posizioni calviniste e dei resto al sinodo di Dordrecht i rappresentanti inglesi si schierarono tutti a favore del partito intransigente. In Inghilterra il D. aveva constatato la prevalenza dei puritani tra la nobiltà e il clero; tutiavia legò poco anche con gli esponenti dell'ala moderata dell'anglicanesimo.
Non ci furono problemi fin quando l'arcivescovo esule attaccò nei suoi scritti la Chiesa dì Roma: ma già nel gennaio 1620 a Parigi si diceva che egli non si trovava più bene a Londra, tanto da pensare di trasferirsi in Francia. La crisi si manifestò a metà del 1621: il 2 giugno il D. dichiarava nella chiesa degli Italiani di sospendere la predicazione, perché aveva compreso che i cattolici romani non potevano venir accusati d'eresia, nonostante i loro errori, e annunciava d'aver scritto al nuovo papa, Gregorio XV, per felicitarsi della sua elezione. In una lettera a Venezia del 31 luglio seguente, forse indirizzata al Micanzio, egli spiegava le ragioni del suo comportamento: aveva ricevuto, a nome del pontefice e del re di Spagna, l'invito a lasciare l'Inghilterra. A Londra i puritani l'avevano ormai in odio, in quanto s'era sempre mostrato "capital nemico de li rigori e sciocherie di Calvino"; l'arcivescovo Abbot si era opposto alla pubblicazione del terzo volume del De republica ecclesiastica. L'anziano prelato soggiungeva d'aver desiderato la riforma della Chiesa di Roma, "non mai la sua esterminatione", e rinnovava la speranza di promuovere la riunione degli anglicani con essa (Udine, Bibl. arcivescov., Y.XII. 3, cc. n.n.).
I contatti per il ritorno del D. in Italia erano stati presi dall'ambasciatore spagnolo Diego Sarmiento de Acuña, conte di Gondomar, che alla corte di Londra era tenuto in grande considerazione: proprio in quegli anni stava trattando le nozze dell'erede di Giacomo I con la figlia di Filippo IV. Il 26 ag. 1621 Gregorio XV comunicava all'ambasciatore il proprio compiacimento per l'azione intrapresa. Il 9 ottobre lo stesso D. si rivolgeva a Gregorio XV, chiedendo di "ritornar col corpo là, di dove con lo spirito" non si era mai staccato; il papa gli fece rispondere con molta benignità, assicurando il perdono (Bibl. Ap. Vat., Barb. lat. 7813, cc. 10 s.). In novembre Micanzio con una lunga lettera lo scongiurava di non partire, ammonendolo che l'odio della Curia papale nei suoi confronti non era venuto meno: con l'abiura avrebbe potuto aspettarsi solo "risa, fischiate, opprobii" (State Papens; 99, b. 243 cc. 214-19).
Le voci sul ritorno dei D. in Italia investirono anche la persona di Giacomo I: si sosteneva che, attraverso la mediazione dell'arcivescovo, il re volesse tornare al cattolicesimo e ricomporre lo scisma con Roma. Considerati i progetti del matrimonio spagnolo e l'influenza del Gondomar, la notizia poteva apparire credibile. A Londra furono intercettate lettere che ne parlavano e l'ambasciatore sabaudo trattò l'argomento direttamente col sovrano, con sua grande irritazione. Invano il D. scriveva a Giacomo I il 16 gennaio e il 3 febbr. 1622, protestando la sua estraneità alle voci correnti e chiedendo il permesso di partire soltanto per motivi di coscienza. Nei suoi confronti veniva promossa una commissione d'inchiesta che doveva stabilire quali fossero le sue reali intenzioni e se veramente avesse avuto contatti di natura politica col pontefice. Intanto egli predicava nuovamente in senso favorevole a Roma. La commissione acquisì molti documenti e sottopose all'indiziato una lunga serie di domande alle quali eglì rispose per iscritto: rivendicò la propria lealtà al sovrano, espresse i consueti auspici di riunione della Chiesa anglirana con Roma, precisò le sue idee su scisma ed eresia, confermando di ritenere cattolica la confessione anglicana; mostrava infine grande fiducia in Gregorio XV (gli atti dell'inchiesta in State Papers 14, b. 128, n. 103). In febbraio il decano Joseph Hall, uno dei teologi anglicani che gli erano più vicini, cercò ancora di farlo desistere dai suoi propositi, scrivendogli che a Roma avrebbe incontrato "la morte sicura del corpo e dell'anima". Il D. gli rispose con una lunga epistola De pace religionis, che venne divulgata sotto la data del 1° marzo (stile inglese), ma che forse fu scritta qualche settimana più tardi: in essa venivano riprese le tesi della sua lettera a Venezia del luglio precedente ed erano pubblicati alcuni documenti relativi all'inchiesta. Sempre nel marzo 1622 a Hannover usciva il terzo volume del De republica ecclesiastica, comprendente i libri settimo, sulla tradizione ecclesiastica, e nono, sui beni temporali della Chiesa: i libri ottavo e decimo non erano arrivati al tipografo (la ristampa di Francoforte, 1658, è identica all'edizione originale). Il settimo libro trattava anche il problema degli scismi e della loro ricomposizione: ad esso veniva aggiunto, quasi a sostituire le parti mancanti, il trattato De officio pii viri in hoc religionis dissidio di Georg Cassander, uno dei più significativi testi cinquecenteschi sulla pace religiosa.
Il 30 marzo la commissione terminò i suoi lavori, intimando al D. di lasciare l'Inghilterra entro 30 giorni. La soluzione era già attesa dall'interessato, che il 23 marzo aveva dato le dimissioni dalla sovrintendenza del Savoy. Gondomar aveva interceduto per lui presso il re e la sua partenza veniva considerata una vittoria degli ambienti filospagnoli. L'arcivescovo partiva il 27 aprile, alla volta delle Fiandre, in compagnia dell'ambasciatore imperiale. Prima che lasciasse l'Inghilterra le autorità sequestrarono tutte le sue carte, su richiesta dell'ambasciatore inglese a Venezia; dietro a questa richiesta c'era il timore di Micanzio che documenti sui passati rapporti suoi e del Sarpi cadessero in mani papali.
Il 13 maggio 1622 il D. arrivò a Bruxelles e prese alloggio presso la nunziatura di Fiandra. Il 17 abiurava i passati errori davanti al nunzio, al notaio e a due testimoni, come aveva stabilito Gregorio XV. Si trattenne in Belgio sino al 24 agosto, per ristabilirsi in salute, ossequiato e adeguatamente finanziato dalle autorità spagnole; il nunzio però gli impedì di pubblicare lo scritto che aveva già pronto, verisimilmente l'Epistola di risposta a J. Hall. A Roma arrivò il 5 novembre, in gran pompa e con quattordici servitori, passando per la Lorena, Lucerna e Milano; una settimana dopo fece una nuova abiura nelle mani del cqrdinal Bandini, capo del S. Uffizio. Era libero di andare dove voleva e il pontefice gli assegnò subito una buona rendita: tutti lo trattavano con gran deferenza.
Nell'abiura il D. si era impegnato a confutare le opere che aveva scritto contro la Chiesa romana. Nella primavera del 1623 apparve, con la data del 24 novembre precedente, il Sui reditus ex Anglia consilium (Roma, ex typogr. Camerae Apostolicae), in cui ritrattava le "pestiferas cogitationes" del suo manifesto del 1616 e degli Scogli del christiano naufragio, proclamando la sua rinnovata fedeltà al primato papale. Nell'opera ribadiva anche la piena validità del concilio trideritino, contro le tesi dell'Istoria edita per sua cura a Londra: dell'autore non faceva cenno. Dava infine un quadro assai critico della situazione religiosa in Inghilterra, dove dominavano gli errori di Lutero e Calvino, mentre gli anglicani, colpevoli di un ingiusto scisma, non mostravano alcuna volontà di riunione con Roma. Queste dichiarazioni furono accolte assai male dai conoscenti inglesi, mentre Fulgenzio Micanzio, in un consulto, raccomandò che la ritrattazione non fosse ristampata a Venezia, perché lesiva degli interessi della Repubblica, aggiungendo parole molto dure nei confronti dell'autore, anche nel caso che egli parlasse "sforzatamente".
In effetti l'arcivescovo intendeva pubblicare altro genere di libri: gli venne però negata l'autorizzazione a stampare l'opera che aveva pronta a Bruxelles. Fu probabilmente l'insistenza in questo senso che fece aprire una nuova inchiesta nei suoi confronti, dopo che con la morte di Gregorio XV (luglio 1623) aveva perduto il maggior protettore. Il D. esprimeva ormai con piena libertà i suoi antichi auspici di un'unione delle Chiese; erano state anche intercettate sue lettere in Inghilterra. Il 18 apr. 1624 egli venne arrestato e trasferito in Castel Sant'Angelo: secondo il cardinal Francesco Barberini non aveva dato segni di ravvedimento e c'era rischio che tentasse una nuova fuga. Anche in carcere Urbano VIII garantì al vecchio arcivescovo un buon trattamento e 100 scudi al mese. Il suo caso però si metteva assai male: il 10 maggio Micanzio confidava per lettera a lord Cavendish di prevedere una fine infausta per l'arrestato, fosse colpevole o no delle nuove accuse.
Davanti al S. Uffizio il D. confermò ancora una volta le proprie idee sulla riunione tra Roma e le Chiese separate. Bisognava lasciar da parte le dottrine controverse che non erano fondamentali: tra queste egli sembrava collocare l'intercessione dei santi, il culto delle immagini, le indulgenze, il numero dei sacramenti, la transustanziazione, il purgatorio, il primato papale. Disse anche d'approvare tutto quanto aveva scritto nell'epistola a Joseph Hall. In un memoriale di quel periodo, rivolto a un ecclesiastico tedesco, egli precisava di condividere i dogmi della Chiesa, ma che per ricòndurre gli eretici all'obbedienza romana si doveva provvisoriamente "tolerare in loro qualche errore", secondo l'insegnamento della Chiesa antica. Rivendicava inoltre la completa spontaneità, "senza patti o cautele particolari", del suo ritorno a Roma e riferiva d'aver da tempo cominciato a scrivere "per via di Retrattationi" contro il De republica ecclesiastica (State Papers 99, b. 24, cc. 236 s.). Ci è in effetti pervenuto un grosso manoscritto di Retractationes, iniziato il 12 febbr. 1624 con dedica a Urbano VIII, che copre i nove capitoli iniziali del primo libro dell'opera maggiore. In esso l'autore si propone però non tanto di mostrare i propri errori, quanto di spiegare in senso esatto ciò che poteva venir malamente interpretato (Bibl. Ap. Vat., Barb. lat. 969).
Agli inizi del settembre 1623 le condizioni di salute del D. peggiorarono di colpo. Il 5 "abgiurò giudicialmente" ai suoi errori, si confessò e ratificò nel testamento quanto aveva scritto nel Sui reditus ex Anglia consilium. La notte tra l'8 e il 9 morì, dopo aver ricevuto i sacramenti; l'autopsia eseguita alla presenza di sette medici, italiani e stranieri, confermò le cause naturali.
La salma fu depositata presso la chiesa dei Ss. Apostoli, secondo la volontà del defunto, ma senza effettuare la sepoltura. Trattandosi del caso di un eretico relapso, la procedura voleva che l'inchiesta continuasse. Furono convocati i parenti, perché assumessero la difesa dello scomparso: ma essi rifiutarono. La sentenza fu pronunciata il 21 dic. 1624, nella chiesa della Minerva, davanti alla bara e al ritratto dell'arcivescovo: il collegio inquisitoriale aveva ritenuto provata la sua colpevolezza ed emise la condanna definitiva: "Scacciamo la sua memoria, il suo corpo qui presente in deposito, la sua imagine et i suoi scritti dalla chiesa". Nello stesso giorno in Campo dei fiori il carnefice dava fuoco al corpo, al ritratto, agli scritti.
Opere: Oltre agli scritti citati nel testo, il D. compose due opere scientifiche: il De radiis visus et lvcis in vitris perspectivis et iride tractatus, Venetiis 1611, sulle leggi della rifrazione, pubblicato dal nipote Giovanni Bartoli e risalente agli anni d'insegnamento tra i gesuiti, e l'Euripus seu defluxu et refluxu maris sententia, Romae 1624, con dedica al cardinal Barberinì. Postuna uscì la De pacereligionis epistola ad venerabilem virum Iosephum Hallum, Vesuntione Sequanorum [Besancon] 1666: vari codici testimoniano una precedente circolazione manoscritta. Gli opuscoli antipapali del 1606 sono ora pubblicati negli Scritti giurisdizionalistici inediti, a cura di A. Russo, Napoli 1965. Ancora da studiare l'autografo del De republica ecclesiastica, della Bodleian Library di Oxford, Mss. Tanner 462-63 (= 10291-92).
Fonti e Bibl.: Per la corrispondenza cfr. Londra, Public Record Office, State Papers 14 (James I), bb. 71-129; 99 (Venice), bb. 9-18 e 24; Bibl. Ap. Vaticana, Barb. lat. 7813, cc. 4-16; Udine, Bibl. arcivescovile, Stampati, Y.XII.3 (varie copie di lettere raccolte da G. Fontanini e rilegate col De rep. eccl., I); Ibid., Bibl. civica, 467, cc. 11-33. Copiose indicazioni su documenti romani e veneziani nelle fonti edite. Per un primo orientamento nell'Arch. Segr. Vaticano cfr. Schedari Garampi 61, c. 189v; 62, c. 164; 74, c. 120r; 116, c. 96v; 123, c. 34r. Documenti e lettere relative agli ultimi anni sono conservati in molte miscellanee secentesche, spesso uniti a copie dell'Epistola de pace religionis: cfr. Cambridge, University Library, Mm. 1.49 (Baker Mss. 38), cc. 263-304; Ibid., Caius coll. Library, 393, cc. 1-73; Londra, Lambeth Pal. Libr., 495, cc. 1-89; 595, cc. 19-26, 50; Oxford, Bodleian Libr., 16.064; Parigi, Bibl. de l'Arsenal, 4111 (Rec. Conrart, VI), cc. 2-84; Ibid., Bibl. Nationale, Baluze 188, cc. 23-33, e Dupuy 371; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. Lat. cl. XIV, 285 (= 4301), cc. 98-127; Vienna, Nationalbibl., 8868. Per il ricco materiale raccolto nel fondo Tanner della Bodieian Library cfr. Catalogi cod. mss. Bibl. Bodl., IV,Oxonii 1860, ad Indicem. Le lettere di F. Micanzio a W. Cavendish, in versione inglese, sono a Charsworth House, Devonshire Collections, ms. 73 Aa. Lettere, documenti, testimonianze in: Praestantium ac eruditorum virorum epistolae ecclesiasticae et theologicae, Amsterdam 1704, pp. 482-90; T. Rymer, Foedera, conventiones, literae et cuiuscumque generis acta publica, VII,3, Hagae Comitis 1741, pp. 56, 62, 67; G. Bentivoglio, Lettere diplomatiche, Torino 1852, I, pp. 63 s., 75 s., 100, 112, 208, 233, 243; II, pp. 243 s., 275 s., 385 s., 406 s.; Calendar of State Papers, Domestic Series of the Reign of Yames I, II-III, (1611-1623), London 1858, ad Indicem, sub voce Spalato; S. 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