MICHIEL, Marcantonio
MICHIEL, Marcantonio. – Nacque a Venezia nel 1484 dal patrizio Vittore di Michiel e Paola di Silvestro Pessina, di famiglia non ascritta al patriziato.
Ebbe come fratelli, quanto meno, Giacomo (1480-1539); Francesco che, nato nel 1483, non va confuso con l’omonimo Francesco o Zanfrancesco Michiel che, podestà di Rovigno nel 1555-56, fu accusato di violazione del digiuno quaresimale; Alvise (1489-1546), combattente nella guerra cambraica, sopracomito di galea, consigliere «per denari» di S. Polo, senatore, censore nonché – coi suoi acquisti di terreni a Bruson, Carpendo, Piove di Sacco – decisamente propenso all’investimento fondiario.
D’un certo rilievo pubblico il padre del M., Vittore: senatore, esecutore delle delibere senatorie, provveditore alla «doana da mar» e «sopra il marenar», del Consiglio dei dieci, provveditore e capitano a Bergamo, provveditore all’Armar, dei 41 elettori del doge nel 1523 e dei 14, tra questi, ostinatissimi a non voler doge Andrea Gritti, aveva suscitato un certo scalpore una sua veemente intemerata in Senato, l’8 maggio 1512, contro l’abbigliamento e i costumi delle donne.
Il M. fu allievo, nella scuola a S. Marina, di Battista Egnazio (G.B. Cipelli), il quale lo avviò all’apprendimento del greco, che avrebbe padroneggiato tanto da beneficiare, in età matura, del prestito dei codici Marciani. Presentato alla balla d’oro il 26 ott. 1504, più che impaziente d’iniziare la carriera politica all’interno di palazzo ducale, bramava di vedere «locorum facies», di conoscere «hominum mores». Di qui, il 30 marzo 1510, il suo partire per visitare la Dalmazia, il suo portarsi da Zara – dove frequenta l’intellettualità locale – a Corfù, donde raggiunse Venezia a fine agosto.
Il 2 ott. 1513 figurò nella scorta dell’ingresso a Padova del provveditore generale in campo Cristoforo Moro. E poco prima, nel dicembre 1512, era stato eletto ufficiale della Ternaria vecchia. Ammalatosi, nell’agosto 1515, il rettore di Bassano Alessandro Badoer, il M. fu designato vicepodestà; tuttavia, morto Badoer, non assunse la supplenza ma subentrò come nuovo rettore Pietro Antonio Morosini.
Politicamente, dunque, il M. non riusciva a decollare. Podestà e capitano a Mestre (sempre che la notizia sia esatta, dato che non figura nell’elenco dei rettori veneti in [B. Barcella], Notizie … di Mestre …, I, Venezia 1839, pp. 303-317) pel resto, ancorché tra i ballottati a questa o quella carica, non ottenne mai i voti sufficienti alla designazione.
Né giovò al suo prestigio la «violentia» colla quale – morto il 23 febbr. 1525 uno zio materno lasciando la metà dei beni a lui e al fratello Alvise – s’avventò sul cugino Andrea Pessina, anch’esso beneficiario nelle disposizioni testamentarie del defunto, malmenandolo e strappandogli di mano uno scrigno zeppo di «danari e scritture». Dal processo, che ebbe luogo in giugno, ottenne una sentenza sfavorevole – redatta congiuntamente dai consiglieri, i capi della Quarantia, gli avogadori – il 18 settembre: escluso per un anno dagli «officii e beneficii», fu astretto al versamento di una penale di 200 ducati nonché alla consegna del maltolto e, inoltre, ammonito a non molestare più il cugino querelante.
Dietro il prestito di 500 ducati nel 1527 rientrò – all’inizio senza diritto di voto – in Senato, alle cui sedute partecipò sino al 1533. Il 5 maggio 1532 fu tra quanti, in bucintoro, attorniavano il doge Andrea Gritti nell’incontro con il duca d’Urbino Francesco Maria I Della Rovere, dovendosi accontentare nelle sue ambizioni politiche alla presenza nelle fastose cerimonie d’accoglienza.
Sposatosi, ormai varcata la quarantina, il 23 maggio 1528, con Maffea di Maffeo Soranzo, l’amico Pietro Bembo – opportuno precisare che quel Marcantonio Michiel, un patrizio sodomita e omicida bandito e ribandito nel 1516-18, pel quale questi chiese, il 4 luglio 1529, il salvacondotto, ritenendolo meritevole della pubblica grazia, non va assolutamente confuso con il M. – lo ritrasse, in una lettera dell’11 febbr. 1531 a Giacomo Sadoleto, quale uomo soddisfatto e appagato: con una moglie bella, allietato da prole, vive agiatamente fasciato dal benessere di chi possiede una res familiaris «satis amplam et commodam» poggiante sulla rendita terriera e sugli affitti d’immobili a Venezia.
Se scialbo politicamente il M., in compenso sin inciso nel frattempo il suo profilo intellettuale, sin accreditato negli ambienti colti e a Venezia e fuori il suo prestigio d’intenditore d’arte maturato dal diletto giovanile alla successiva valutazione più affinata e sicura della figurazione, antica e moderna, nell’accezione più lata, dall’architettura alla glittica, dai marmi alle porcellane, dai dipinti ai bronzi. Un testimone cronista di cose artistiche e, insieme, critico e storico dell’arte, cui Sebastiano Serlio riconosce un sapere professionalizzato, una competenza «consumatissima in le antiquità», un’intelligenza «molto intendente d’architettura», mentre Pietro Aretino – in una lettera del novembre 1545 indirizzata al M. – gli attribuisce una capacità eccezionale di «giudicio» dalle «avertenze […] acutissime».
La passione per l’arte lo spinse, nel 1514, a un soggiorno di tre settimane a Firenze e lo indusse – ritrovandosi a Bergamo, nel 1516 brevemente e nel 1517 un po’ meno brevemente, al seguito del padre ivi provveditore e capitano – ad avvertire la mano dello scultore Giannantonio Amadei nella cappella Colleoni, sì da scriverne nella pur sua stringata (ciò non toglie sia la più efficace fissazione della città prima della radicale traformazione delle mura) Agri et urbis Bergomatis descriptio (in appendice a F. Bellafini, De origine et temporibus urbis Bergomi, Venezia, G.A. Nicolini, 1532; ripubblicato, al pari del testo di questo, in J.G. Groevius, Thesaurus antiquitatum romanarum …, IX, 7, Lione 1723, coll. 27-32). Seguì, nel luglio-settembre 1518, una sorta d’indagine cognitiva tra i manufatti artistici di Crema e Cremona, di Parma e Milano, per poi, come annota Sanuto il 27 settembre, portarsi a Roma col cardinale Francesco Pisani.
Durante il soggiorno registrò nelle sue lettere la canonizzazione di s. Francesco di Paola, l’avversione dei letterati romani per Christophe de Longueil, peraltro protetto da Bembo, l’impazzare del carnevale, la scomparsa del banchiere Agostino Chigi; seguì con interesse soprattutto quel che stavano facendo Sebastiano del Piombo e Michelangelo; e restò turbato dalla repentina scomparsa di Raffaello. La permanenza a Roma fu interrotta dal soggiorno, dal 3 al 18 marzo 1519 a Napoli, dove incontrò Iacopo Sannazaro e Pietro Summonte, che proprio al M. avrebbe indirizzato il 20 marzo 1524 una lettera riassumente la vicenda artistica napoletana degli ultimi due secoli, mentre è d’un disegno del palazzo reale trasmessogli dal M. che si sarebbe avvalso Serlio.
Partito il 7 nov. 1520 da Roma il M., fatta sosta a Firenze, rientrò a Venezia, dove – almeno a detta di Francesco Sansovino –, in occasione del giubileo del 1525 avrebbe redatto un Itinerario da Venezia a Roma.
Portava avanti, intanto, il da tempo iniziato censimento dell’offerta figurativa – pubblica e privata, in chiese e palazzi, a tutti squadernata o solo agli intimi dischiusa – di Padova e Milano, di Venezia e Crema, di Cremona, di Pavia, di Bergamo.
Sette centri dell’Italia settentrionale ispezionati dal M. che, con occhio vigile, trascorre dalle pitture alle «figure di bronzo», dagli «angeli di marmo» ai cori intarsiati, dai «quadretti» alle statue equestri, dai monumenti sepolcrali alle superfici affrescate, dalle pale agli epitaffi, dai bassorilievi agli altorilievi, dai ritratti alle terracotte, dalle medaglie ai teleri, dai Cristi alle Madonne, dalle Pietà alle Passioni, dai nudi ai vasi, dai frammenti ai guazzi, dai «libretti» illustrati alle «piadene». Un censire lungo il quale s’incontrano Giorgione e Tiziano, van Eyck e Memling, antichi rilievi classici o presunti tali. Tutto questo e altro ancora confluì nella Notizia d’opere di disegno, il cui autografo Marciano, adespota e anepigrafo, fu appunto pubblicato anonimo da Jacopo Morelli (Bassano 1800 e Venezia 1820). Via via da Daniele Francescani, Cesare Bernasconi e Cicogna, l’autore fu individuato e il testo stampato quale del M. (a cura di G. Frizzoni, Bologna 1884). Però Der Anonimo Morelliano s’intitola la pur successiva edizione critica a cura di T. Frimmel (Vienna 1896); solo nella ristampa a cura di C. De Benedictis (Firenze 2000) viene riconosciuta l’autoralità del M., mentre l’affezione all’anonimato persiste coriacea se The Anonimo (London 1903) della traduzione inglese di P. Mussi, a cura di G.C. Williamson, viene ristampato ancora così intitolato (New York 1969).
Fatto sta che, una volta pubblicata, la Notizia s’è imposta quale imprescindibile piattaforma (e non solo di partenza, ma anche di ritorno) informativa e attributiva – ancorché, ovviamente, rettificabile laddove, per esempio, dà per autentica l’antichità di un rilievo in marmo con centauri nella dimora patavina di Niccolò Leonico Tomeo o assegna ad Andrea Riccio (Andrea Briosco) il sepolcro d’Antonio Trombetta nella basilica del santo sempre a Padova – nel proliferante e lussureggiante procedere delle indagini storico-artistiche e sul collezionismo del primo Cinquecento veneto. È pilotata dalle 13 opere di Giorgione indicate dal M. la faticata e tormentata costruzione del corpus giorgionesco. E timbrate dal suo primo descrittore l’intitolazione e l’esegesi, tanto per dire, della Tempesta. Il «paesetto […] cum la tempesta», appunto, «cum la cingana et soldato».
Ragionatamente elencante, sistematicamente inventariale l’approccio topografico – di città in città e, in ognuna di queste, di sede in sede, di collezione in collezione – del M., colla puntuale percezione d’uno sguardo pronto a tradursi in annotazione concisa però densa di contenuti informativi, con date, con attribuzione alla mano di questo o quell’artista. E ciò con lessico non sbrigativamente impressionistico, ma meditato, terminologicamente avvertito, mirato nell’aggettivazione. Un procedere annotando, questo del M. – uomo al centro d’un crocevia intellettuale nel quale spicca Bembo, dedicatario d’una foglia della Zucca di A. Doni e degli Amorum libri V (Venezia, G. Giolito, 1549) di Pierio Valeriano (G.P. Dalle Fosse), amico d’artisti e di collezionisti, titolare personalmente d’una oculata e calibrata collezione collocata nella sua villa a Paluello presso Strà –, quasi a costituire l’organizzato promemoria donde puntare alla stesura d’un «valente libro molto grande e pieno» che, in tal caso, sarebbe stata scoraggiata dalla notizia della prossima uscita delle Vite vasariane.
A tanto impegno – se mai c’è stato – il M. rinunciò, coltivando nel frattempo il proprio interesse per la storia quasi tentato dal realizzare in quest’ambito un’opera di respiro.
Le annotazioni di suo pugno al manoscritto in suo possesso della cronaca estesa d’Andrea Dandolo (di cui avrebbe tenuto conto Pinelli per annotare a sua volta il proprio manoscritto della stessa), lo studio del De origine urbis Venetiarum … di Bernardo Giustinian, che possiede in forma di manoscritto, l’ammissione alla consultazione, negli archivi della Serenissima, della documentazione antecedente il 1500 (concessagli dietro sua richiesta il 29 apr. 1545 dal Consiglio dei dieci) autorizzano a congetturare il proposito del M. di un’estesa narrazione delle vicende di Venezia lungo i secoli e, insieme, quello d’una sorta di monografia sui rapporti veneto-pisani, in merito ai quali s’è messo ad adunare notizie. Ma, in entrambi i casi, nessun esito appurabile.
In compenso è riscontrabile un Michiel, autore di Diarii che, anonimi nel manoscritto, saranno a lui assegnati con sicurezza da Cicogna, memorialista e cronista della contemporaneità. Anche se non informato come Sanuto, anche se ignaro delle «cose» trattate «secretissimamente» dal Consiglio dei dieci, registra dal gennaio 1511 all’ottobre 1545, sia pure non continuatamente, delitti e condanne, incendi e risse di frati, arresti e falsificazioni di monete, decisioni e vociferazioni con, talvolta, qualche sussulto di personale giudizio come quando depreca gli eccessi carnevalizi o biasima la vendita degli uffici o condanna le assoluzioni ottenute «per denari» anche nel caso di «delitti enormi».
Il M. morì il 9 maggio 1552 a Venezia, nella sua abitazione nella «contrada» di S. Marina nel «confin» di S. Maria Formosa e fu sepolto – con l’accompagnamento dei confratelli della Scuola di S. Teodoro – nella chiesa di S. Lorenzo.
Di lì a poco Tintoretto lo ritrasse nella Scomunica di Barbarossa, opera posta nella sala del Maggior Consiglio che sarebbe andata distrutta nell’incendio del 1577. Subito dopo la sepoltura, fu steso l’«inventario particolar delli marmi, bronzi e quadri» della collezione – di 20 pitture, 5 sculture marmoree e 19 bronzee –, che egli, appassionato amateur e affinato connaisseur («patriarca dei conoscitori italiani», non esiterà a definirlo Roberto Longhi), aveva costituito.
Almeno 5 i figli maschi avuti dalla moglie (che sarebbe morta nel febbraio 1577): Vittore, nato nel 1529, che, rettore nel 1560-61 a Clusone, quivi viene ritratto da Moroni (cfr. G.B. Moroni, a cura di S. Facchinetti, Milano 2004, pp. 32 s., 150 s., 289); Aurelio (1531-76) dei 38 rimasti alla balla d’oro il 4 dic. 1551, avvocato per le corti, giudice del piovego, della quarantia civil; Giulio (1532-98), della Ternaria vecchia, giudice al Cattaver, rettore a Bassano nel 1564-66, senatore nonché, al pari dello zio paterno Alvise, particolarmente interessato all’acquisto di campi; Alvise (1535-89); Valerio (1543-70), troppo presto scomparso per lasciar traccia di sé, però padre di quel Marcantonio (1568-1621) commissario in campo nella guerra di Gradisca da cui discende il Marcantonio Michiel marito, nel 1775, di Giustina Renier.
Ma è senz’altro il quartogenito del M., Alvise, nato a Venezia nel 1535 – da non confondere con l’omonimo (1513-82) figlio di Maffio Michiel arcivescovo di Spalato malversante esecutore testamentario pel quale la S. Sede si mobilita a proteggerlo dalla giustizia dello Stato marciano – quello che, tra i suoi figli, più è fedele alla sua memoria essendo, insieme, personalità di rilievo politico. Sposato, nel 1572, con Elisabetta Corner vedova di Nicolò Corner e risposatosi, nel 1583, con Maria Cappello, vedova d’Alvise Gritti dalla quale ebbe tre figlie, godeva d’un reddito annuo di 1366 ducati – e ben 1260 ducati gli vengono dagli affitti d’immobili sparsi in tutta Venezia, mentre solo 106 ducati gli fruttano i campi nel Trevigiano – e viveva in una casa ricca di libri. Propenso anche a frequentazioni intellettuali, fu tra i fondatori e protettori degli Uranici esorditi, il 10 giugno 1587, col discorso loro rivolto da Faustino Tasso; fu pure dedicatario, da parte del curatore Guglielmo Rinaldi del Giornale delle historie … di Ludovico Dolce (Venezia 1572), nonché, da parte dello stampatore Giordano Ziletti, del terzo volume delle Lettere di principi … raccolte da Girolamo Ruscelli (Venezia 1577). Grazie a lui Francesco Sansovino – che lo chiama proprio protettore, che a lui indirizza una lettera, stampata a Venezia nel 1570 (e ristampata nel 1580 e 1584 ne Il secretario, cc. 179v-190r) sulle preditioni assicuranti il successo nella guerra del Turco – poté consultare, avvalendosene in almeno un paio di punti, il manoscritto della Notizia paterna da lui custodita. E, laddove compilatore di Annali delle cose … di Venezia dal 1578 al 1586 e di Diarii veneti dal 1580 al 1586 (entrambi nella Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia, Codd. Cicogna, 2555-2556, 2562-2565), prosecutore Alvise Michiel dell’impegno memorizzante già del padre. Ma ben più del M., si affermò politicamente: avvocato per le corti, del Maggior Consiglio, avvocato dei prigionieri, avogador di Comun, rettore, nel 1573-74 a Treviso – e qui Sansovino gli indirizzò una lettera del 22 giugno 1573, in cui comunica che si sta accingendo all’«historia volgare» di Venezia che, poi, mutando impostazione sarebbe diventata la guida della città –, correttore alle Leggi, sovrintendente alle Decime del clero, savio del Consiglio, savio di Terraferma. Autorevole in Senato, si schierò – nell’accentuarsi della divaricazione tra gli intransigenti colla S. Sede e con i transigenti; ed egli, negli Annali, chiama «cartaginesi» i primi e «romiti» i secondi – con questi ultimi, propugnando una mitigazione, se non altro nei toni, dell’animosità antispagnola e perorando – specie in una «renga» del 19 ag. 1588 – una maggior disponibilità all’ascolto delle rimostranze romane pei danni inferti ai sudditi pontifici dalla rigida applicazione della giurisdizione adriatica. Sempre più preoccupato Alvise d’una linea di condotta foriera di più aspri contrasti colla corte romana. Morì in Senato il 21 apr. 1589.
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G. Benzoni