Carné, Marcel
Regista e sceneggiatore francese, nato a Parigi il 18 agosto 1909 e morto a Clamart (Hauts-de-Seine) il 31 ottobre 1996. Le peculiarità stilistiche del suo cinema sono nella veridicità descrittiva della vita urbana e nella sua trasfigurazione 'mitologica', unite all'effetto poetico e luministico che conferisce irrealismo all'azione, nel gusto del dettaglio quotidiano che si amplifica nell'evocazione delle atmosfere d'ambiente, e nella sottigliezza della descrizione dei tipi e dei caratteri, che si stempera nell'astrazione emblematica del destino tragico. Nel 1979 la French Library di Boston gli dedicò un museo permanente, e nello stesso anno ottenne il premio César, primo di una serie di riconoscimenti alla carriera, seguito dal Leone d'oro speciale alla Mostra del cinema di Venezia nel 1984 (dove già nel 1953 era stato attribuito il Leone d'argento al suo Thérèse Raquin, Teresa Raquin).
Scoprì molto presto la sua vocazione cinematografica frequentando i corsi di fotografia all'École technique de photographie et de cinéma, dove conseguì nel 1928 un diploma di assistente operatore. Orfano di madre, C. crebbe nel quartiere dei Batignolles dove, adolescente, assorbì l'atmosfera di vita popolare, osservò l'umanità minuta, si immerse in quel clima che era stato colto magistralmente dai pittori impressionisti, e frequentò assiduamente le sale cinematografiche, formandosi con la visione dei film dell'Espressionismo tedesco e dei noir americani, e appassionandosi al gusto artefatto del teatro di music hall. Ancor più che nella definizione di realismo poetico (v. realismo), in cui peraltro lo stesso C. non si riconosceva, è in una particolare miscela di fantasticheria e verosimiglianza, di tipizzazione sociale e di stilizzazione immaginaria che può ritrovarsi la costante dei suoi film: in altri termini quel fantastique social di cui scrisse P. Mac Orlan (1926). Su questo particolare mélange di favola moderna, di eternità tragica e di umori quotidiani si è costruito (soprattutto nei film realizzati tra il 1936 e il 1946), intorno al suo cinema, una sorta di marchio di fabbrica contraddistinto dal sodalizio tra C. e alcuni suoi stretti collaboratori. Anzitutto lo sceneggiatore poeta Jacques Prévert, con il suo anarchismo e il gusto per l'allegoria venata di surrealismo; poi lo scenografo Alexandre Trauner, con la sua capacità di cristallizzare negli ambienti un'aura fatale e sognante; quindi i compositori Maurice Jaubert e Joseph Kosma, abili nel racchiudere in un tema musicale il nucleo poetico o tragico del film (come per Les feuilles mortes, celeberrimo 'tema del destino' in Les portes de la nuit, 1946, Mentre Parigi dorme); gli operatori Eugene Schufftan e Henri Alekan con l'iridescenza malinconica della loro luce; e Jean Gabin, attore simbolo di quel clima sospeso tra romanticismo e quotidianità. Fu grazie a una celebre attrice degli anni Trenta, Françoise Rosay, moglie del regista Jacques Feyder, che C., prima come assistente operatore di Georges Périnal e poi come assistente personale del regista, mosse i primi passi su un set, quello di Les nouveaux messieurs (1929) di Feyder. Spalleggiato dall'amico Michel Sanvoisin, nel 1929 girò en plein air secondo i moduli della concatenazione ritmica di immagini cari all'avanguardia degli anni Venti e con una cinepresa portatile acquistata in proprio, il cortometraggio Nogent, Eldorado du dimanche, elegia impressionista della domenica trascorsa dalla gente comune sulle rive della Marna. Scrisse su varie riviste cinematografiche e fu redattore capo di "Hebdo-film", che dovette lasciare perché accusato di bolscevismo per aver difeso City lights (1931) di Charlie Chaplin. In alcuni articoli, C. esortava a scendere per le strade con la macchina da presa o individuava in quest'ultima un personaggio del dramma, elaborando fin da allora l'idea di una messa in scena calata nel sociale e trasfigurata negli archetipi drammatici.
Dopo il servizio militare in Renania, e dopo essere stato assistente operatore di Jules Kruger per Cagliostro (1929) di Richard Oswald, e secondo assistente alla regia, in Sous les toits de Paris (1930; Sotto i tetti di Parigi) di René Clair, C. fu di nuovo a fianco di Feyder sui set di Le grand jeu (1933; La donna dai due volti), Pension Mimosas (1934; Pensione Mimosa) e La kermesse héroïque (1935; La kermesse eroica): ne assimilò la perizia nella direzione degli attori e il minuzioso descrittivismo naturalista. Fu sotto la supervisione di Feyder, e per intercessione della Rosay, che ne impose il soggetto e volle interpretarlo, che nel 1936 C. esordì, con Jenny (Jenny, regina della notte), storia di perdizione e redenzione che ruota intorno alla figura tormentata di una maîtresse, in una Parigi notturna ed equivoca. In quegli anni la Francia e Parigi erano attraversate da tensioni etico-politiche cui C. non rimase estraneo: alla stagione del Fronte popolare e alle istanze populiste fu particolarmente sensibile, e in questa contingenza, che univa impegno artistico e passione civile, maturò la sua amicizia con J. Prévert, nel comune coinvolgimento con le attività del Group octobre, dove il poeta drammaturgo propugnava un teatro agit-prop e antimilitarista. Nel 1937 il binomio con Prévert, nato per Jenny, continuò con Drôle de drame (Lo strano dramma del dottor Molyneux), in cui le venature surrealiste e il gusto libertario del nonsense dello scrittore trovano complicità nell'eleganza con cui il cineasta orchestra un piccolo teatro dell'assurdo in una Londra posticcia da vaudeville, ricavando dal romanzo His first offence di J. Storer Clouston una commedia degli equivoci dai toni irriverenti e caustici, con la magistrale intesa di tre superlativi, autoironici interpreti: Jean Louis Barrault, Michel Simon e Louis Jouvet.La trilogia composta da Quai des brumes (1938; Il porto delle nebbie), Hôtel du nord (1938; Albergo Nord) e Le jour se lève (1939; Alba tragica) saldò il binomio con Prévert, capace di creare un effetto di particolare fascino cinematografico giocato sull'atmosfera lirico-romantica, fatalistica e struggente, e sulla minuziosa resa dell'ambiente e dei personaggi, spesso sradicati e ai margini della società. Tre storie di solitudini e di amori fatali e contrastati, dall'esito tragico: l'idillio tra un disertore e una ragazzina nelle caligini fisiche e morali dell'ambiente losco di un porto, due giovani amanti in fuga decisi a togliersi la vita nello squallore di un alberguccio, un operaio braccato per un delitto e asserragliato nella memoria di un amore infelice. Nell'unità tragica di luogo e di azione, C. orchestra i tempi narrativi e la musicalità soffusa e avvolgente dei movimenti di macchina, il ritmo dei dialoghi che riverbera sul quotidiano gli accenti poetici, l'amplificazione quasi astratta e metafisica dei paesaggi; i cieli plumbei e le livide albe, le periferie misere e i malinconici canali, gli interni fatiscenti e gli anfratti equivoci vengono spostati dal codice della mimesi naturalistica all'echeggiare immaginario del mito tragico. Più tardi, C. cercò, con la storia di amore e morte di Les portes de la nuit, di ritornare a quei climi, ma l'artificiosità della ricostruzione in studio, la sentenziosità artefatta del dialogo, l'accentuazione allegorica scontano il tentativo di restituire il senso di sbandamento del dopoguerra nella derivazione posticcia da una pantomima di Kosma e Prévert; fu questa l'ultima collaborazione con lo scrittore preceduta da Les enfants du paradis (1945; Amanti perduti, distribuito in Italia in edizione ridotta), faticosamente girato durante la guerra presso gli studi Victorine di Nizza, dove C. aveva ricostruito quel boulevard du crime che titola la prima parte (la seconda era L'homme blanc). Una 'fantasia', sullo spunto offerto dalla vita del celebre pantomimo Baptiste Debureau al tempo di Luigi Filippo, in cui il gusto funambolico, l'enfasi sentimentale, l'accuratezza pittorica imbastiscono una tessitura fitta di evocazioni. Il mito della passione fatale si traspone nella metafora della vita e della strada come 'gran teatro' e viceversa, dei palcoscenici e dei loggioni come microcosmo di destini umani, l'alone romantico da vecchia stampa della Parigi dei Funamboles si dipana nell'intrigo da feuilleton. Una riflessione sui meccanismi dello spettacolo, sulla verità e la finzione, sul valore sublimante della maschera, sulla commedia della vita vista come commedia dell'arte: indimenticabili lo struggente volto truccato da Pierrot di Jean Louis Barrault nei panni di Baptiste e la grazia stregante della Garance di Arletty. Nel film riecheggia anche quell'elemento fiabesco, su cui C. aveva puntato nel 1942 in Les visiteurs du soir (L'amore e il diavolo), anche per sottrarsi ai dettami propagandistici del governo collaborazionista di Vichy. Nella vicenda degli emissari del diavolo irretiti dall'umana passione, il gusto del meraviglioso di C. ricrea la preziosità di un arazzo gotico, dove le cadenze da ballata medievale sospendono il tempo, mentre la perizia dei trucchi visivi conferisce magia alle azioni. La conferma della predisposizione di C. per il fantastico la si ritrova nella variazione sul tema medievaleggiante della 'donna del sogno' che fu poi Juliette ou la clé des songes (1951). Estremo approdo in questo senso saranno i suoi due ultimi film, La merveilleuse visite (1974), dal racconto di H.G. Wells, e La Bible (1977): nell'uno il paesaggio bretone incornicia la didascalica allegoria di un angelo caduto sulla Terra e nell'altro gli affreschi del duomo di Monreale ricompongono documentaristicamente il racconto biblico. L'andamento illustrativo scarno di questi film sembrerebbe render conto dell'esito di un progressivo svuotamento d'enfasi 'poeticista' del cinema di C., almeno a partire dai film La Marie du port (1950; La vergine scaltra) e Thérèse Raquin, vivido ritratto, il primo, di una giovane provinciale e secca vivisezione, il secondo, della fatalità crudele di un tradimento: due donne che sembrano essere il rovescio delle trasognate eroine dei film precedenti. L'air de Paris (1954; Aria di Parigi), in cui C. ritrovò un invecchiato e amaro Jean Gabin, scandisce, secondo l'implacabilità dei rounds di un incontro di boxe, l'educazione sentimentale di un giovane pugile, pupillo di un vecchio allenatore, e rintraccia in ambiente operaio il tema del rapporto con le nuove generazioni. Tema su cui C. tornò periodicamente: dal film incompiuto del 1947, La fleur de l'âge, sulla fuga da un riformatorio, fino alla trilogia sulla devianza e il malessere giovanile composta da Les tricheurs (1958; Peccatori in blue-jeans), Terrain vague (1960; Gioventù nuda) e Les jeunes loups (1968; I giovani lupi), dove la pretesa scabrosità delle situazioni in cui C. implica i giovani sbandati, le bande di blousons noirs, i cinici beatniks, denunzia uno sguardo in fondo viziato da moralismo. A partire dalla fine degli anni Cinquanta nel lavoro di C. si affievolì la tensione espressiva, e la piana evidenza del suo stile divenne spesso ovvietà corriva. Fatua appare la levità ironica di Le pays d'où je viens (1956; Il fantastico Gilbert), fuori registro la satira di Du mouron pour les petits oiseaux (1963; Dietro la facciata), niente più che onesto l'intento di denuncia in Les assassins de l'ordre (1971; Inchiesta su un delitto della polizia). Solo in Trois chambres à Manhattan (1965; Tre camere a Manhattan) si ritrova l'eco sommessa di quella densità d'atmosfera che aveva caratterizzato il suo cinema. Negli ultimi anni stava lavorando al progetto di un film tratto dalla novella di G. de Maupassant Mouche, che non sarebbe stato realizzato; ma la carriera di C. era già stata costellata da molti progetti cancellati e interrotti, come lui stesso ricorda nel libro di memorie La vie à belles dents: souvenirs (1975; trad. it. Gusto di vita, 1982, ripubblicato come Io e il cinema, 1990).
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