DE CECCO, Marcello
Marcello de Cecco nacque a Roma il 17 settembre 1939.
È stato un economista, storico e pubblicista tra i più noti e rispettati nella seconda metà del XX secolo, sia in ambito nazionale sia internazionalmente. Di cultura laica e umanista, la sua attività scientifica ha spaziato in numerosi ambiti di ricerca, influenzando generazioni di studiosi che condividevano con lui l’aspirazione di fornire analisi e interpretazioni alternative rispetto al mainstream neoclassico dominante e stabilire collegamenti più stretti fra l’economia politica e la realtà della società contemporanea.
Figlio di Vincenzo, ingegnere al Comune di Lanciano (Chieti), e di Antonietta Sangiovanni, casalinga, studiò al liceo classico Vittorio Emanuele II della cittadina abruzzese, dove frequentò le lezioni di Vincenzo Bellisario, poi senatore della Repubblica per la sinistra DC. Vincitore di una borsa di studio destinata ai figli dei dipendenti comunali, si iscrisse all’Università di Parma, residente del Collegio Bernini, dove si laureò in giurisprudenza nel 1961 con una tesi su La politica monetaria inglese del dopoguerra, relatore l’economista Franco Feroldi. Nel corso degli studi universitari iniziò una collaborazione con il settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio e, su consiglio dell’amico di famiglia, il banchiere Raffaele Mattioli, trascorse un’estate a Cambridge (UK), dove frequentò la casa di Alice Roughton, psichiatra, pacifista e benefattrice di artisti e intellettuali, incontrando un ambiente stimolante e anticonformista.
Tornato a Cambridge dopo la laurea per specializzarsi in economia, ottenne nel 1963 il Master of arts in economia al Pembroke College, sotto la supervisione di Richard Kahn, allievo e collaboratore di John Maynard Keynes, e Michael Posner, lecturer di economia internazionale. Entrambi esercitarono un’importante influenza sulla sua formazione di economista politico, incoraggiandone gli interessi per l’economia politica internazionale, la storia economica e le scienze sociali. Un periodo di studi trascorso all’Università di Chicago (Illinois) nel 1968, dopo aver vinto una borsa di studio della National Science Foundation (NSF), gli permise di collaborare con alcuni fra i maggiori economisti americani del tempo, quali Robert Mundell e Milton Friedman, che lo spinsero ad avviare ricerche sulla storia, il funzionamento e le crisi dei sistemi monetari internazionali, su cui avrebbe fornito contributi influenti e originali.
Il suo primo incarico di insegnamento fu presso la University of East Anglia (Norwich) nel 1967, dove conobbe il grande storico economico Alan Milward e la research assistant Julia Bamford, che poi sarà sua moglie.
Rientrato in Italia nel 1968, fu fra i fondatori della facoltà di Scienze economiche e bancarie dell’Università di Siena, dove insegnò fino al 1979, contribuendo all’affermazione di un modello di istruzione universitaria innovativo, caratterizzato da una grande apertura internazionale e da una particolare modernità negli indirizzi curriculari. In pochi anni, Siena diventò un polo di attrazione per giovani economisti provenienti da tutte le parti d’Italia, nonché il primo esempio di ateneo nazionale capace di reclutare stabilmente economisti stranieri di fama mondiale, quali Richard Goodwin, Frank Hahn e Samuel Bowles. Dal 1979 al 1986 fu componente e poi guida del dipartimento di economia dell’Istituto universitario europeo (IUE) a San Domenico di Fiesole, dove collaborò alla costituzione di un centro di ricerca post universitario di alta specializzazione per le scienze sociali. In quegli anni, il suo apporto all’IUE si distinse per la ricerca di una forte contaminazione fra gli studiosi di scienze sociali e per una particolare attenzione all’approfondimento di tematiche legate al nuovo corso del processo di integrazione europea.
Nel 1986, grazie all’intervento di un altro illustre economista abruzzese, Federico Caffè, venne chiamato all’Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove occupò per oltre 15 anni la cattedra di politica economica. La sua carriera accademica terminò con l’incarico alla Scuola normale superiore di Pisa, dove venne chiamato nel 2003 a ricoprire la nuova cattedra di storia della finanza e della moneta, rivitalizzando una tradizione di studi e di alta formazione nel campo della storia economica che a Pisa si era interrotta con Carlo Cipolla. Nel 2010 la Normale gli conferì il titolo di professore emerito. In quasi cinquanta anni di vita universitaria ebbe esperienze di insegnamento e di ricerca presso prestigiose università e istituti di ricerca internazionali, fra i quali Harvard, Chicago, Oxford, Berkeley (la Amedeo Giannini Chair), Johns Hopkins (Bologna Center), l’École normale d’administration (ENA) di Parigi, il Wissenschaftkolleg di Berlino, la Luiss di Roma, l’Institute for new economic thinking di New York. È stato fellow presso il Royal institute for international affairs (Chatham House), dove ha collaborato a lungo con l’economista politica internazionale Susan Strange, e l’Institute for advanced studies di Princeton (New Jersey), su invito dell’economista e scienziato sociale Albert Otto Hirschman.
La sua attività scientifica, prevalentemente dedicata allo studio della moneta, del credito e dei mercati finanziari, si arricchì di numerose occasioni di collaborazione e consulenza con importanti istituzioni attive in questi ambiti: il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca dei regolamenti internazionali, la Banca d’Italia (con una lunga affiliazione presso l’ufficio ricerche storiche), la Banca nazionale del lavoro (membro del consiglio di amministrazione nel 1997-98) e il Monte dei Paschi di Siena (membro del consiglio di amministrazione dal 1975 al 1981). La sua permanenza nella Deputazione del Monte dei Paschi coincise con una fase di grande ascesa anche internazionale della banca senese, capace di restare relativamente immune dalla crisi economica e finanziaria degli anni Settanta e di svolgere una funzione di volano nella trasformazione produttiva dell’economia italiana, favorendo, anche in Toscana, l’affermazione della cosiddetta terza Italia dei distretti produttivi e delle piccole imprese. Anche sul piano scientifico, de Cecco operò per consolidare le numerose attività di promozione culturale della banca con la partecipazione ai comitati editoriali delle riviste del gruppo – Economic notes e Note economiche –, che svolsero in quegli anni un’importante funzione di stimolo per nuove ricerche teoriche su temi monetari e creditizi e di economia applicata allo studio dello sviluppo dei territori. In ambito editoriale, con Pierluigi Ciocca e Gianni Toniolo, dal 1984 contribuì alla ripresa della Rivista di storia economica, fondata da Luigi Einaudi nel 1936.
All’impegno accademico e scientifico unì anche un crescente impegno pubblico. Negli anni Novanta partecipò al Consiglio degli esperti economici dei governi Prodi e D’Alema e, successivamente (2007), fu tra i fondatori ed estensori dello statuto del Partito democratico. Dal 1992 fu editorialista di punta del quotidiano la Repubblica, con una rubrica settimanale ospitata dall’inserto Affari e finanza dedicata principalmente a commentare le cause del declino dell’economia italiana e gli episodi di crisi dell’economia mondiale.
Nel panorama del pensiero economico italiano del dopoguerra, de Cecco si affermò per un’originale versatilità metodologica, che combina la predilezione per un approccio storico all’analisi economica, l’avversione per un’eccessiva specializzazione del sapere e una grande apertura internazionale non esclusivamente diretta alla cultura anglo-americana. In decenni fortemente dominati dal consolidamento dell’ortodossia neoclassica, rappresentata dai modelli di equilibrio economico generale con aspettative razionali, fu strenuo difensore del pluralismo scientifico, in radicale opposizione a una visione dell’economia come scienza ‘pura’, fondata su assiomi logici e astratti, avulsi dai contesti politici, sociali e istituzionali in cui si colloca. Per de Cecco, il compito principale di un economista è quello di interpretare la realtà, cercando al tempo stesso di incorporare nel proprio bagaglio teorico e nei propri strumenti di analisi quelle trasformazioni che la realtà offre al suo sguardo. In questo, scontate alcune differenze specialmente di linguaggio e di definizione, i dibattiti e gli avvenimenti del passato rappresentano una fonte di straordinaria importanza per la comprensione del mondo contemporaneo.
L’impostazione keynesiana appresa a Cambridge lo rese osservatore attento del funzionamento dei mercati e delle istituzioni finanziarie, delle peculiarità dei contesti in cui operano e delle differenti tradizioni nazionali da cui provengono. Un approccio che, anche per l’attenzione ai grandi processi dinamici e di cambiamento, si richiamò anche alla tradizione classica del pensiero economico e contribuì alla ripresa dell’economia delle istituzioni. Nei suoi scritti, molti fenomeni – che erano aprioristicamente trascurati da chi pratica l’iper-specializzazione accademica e si dedica alla costruzione di complessi modelli empirici e quantitativi – trovarono un posto centrale, come per esempio i grandi scenari della geopolitica mondiale; i cambiamenti nell’ordinamento giuridico; i conflitti istituzionali; i comportamenti e le culture prevalenti nelle grandi burocrazie, nei corpi intermedi e nel mondo imprenditoriale; gli echi della stampa quotidiana. Prevalentemente interessato ad analizzare questioni relative ai grandi aggregati macroeconomici e al funzionamento delle istituzioni, fu convinto sostenitore che i problemi di un’economia nel suo complesso fossero qualcosa di ben diverso dalla somma dei problemi delle singole unità economiche che la compongono. In anni in cui la teoria economica, sull’onda della penetrante critica metodologica di Robert Lucas, perseguiva il programma della micro fondazione della macroeconomia, de Cecco difese il progetto di una «macro fondazione della microeconomia», volta a mettere in luce l’importanza dei fenomeni sistemici nell’interazione fra i soggetti economici, che, per usare una parabola a lui cara ripresa da Albert Einstein, rendono la foresta del mondo economico cosa ben diversa dalla somma dei suoi alberi.
A livello scientifico la sua fama si legò soprattutto agli studi sul sistema monetario internazionale, argomento che restò a lungo al centro dei suoi interessi e delle sue ricerche, dal gold standard (sistema aureo) a Bretton Woods, dalla nascita del sistema monetario europeo fino alla creazione e all’introduzione della moneta unica europea. Il volume Moneta e impero (Torino 1979) fornì una radicale smitizzazione del sistema aureo, attraverso un uso bilanciato e originale di analisi teorica, evidenze empiriche e nuove documentazioni archivistiche di grande rilevanza storiografica. Fra queste ultime, in Moneta e impero, pubblicò, valorizzandole, le Crisis conferences tenute dal primo ministro inglese, David Lloyd George, in occasione della crisi bancaria del 1914.
Al centro della sua critica, de Cecco pose una lunga stagione di pensiero e di storia economica e politica che aveva interpretato il sistema aureo come un insieme di semplici regole capaci di garantire automatismo e simmetria negli aggiustamenti degli squilibri internazionali nonché una disciplinata neutralità nei comportamenti di governi e banche centrali. Nella visione degli economisti e nella mentalità di molti osservatori, il sistema aureo era quindi assurto a una splendida costruzione intellettuale, che esaltava le virtù benefiche di un governo limitato e delle forze spontanee di mercato, capaci di autoregolarsi senza interferenze politiche. Al contrario, nell’interpretazione di de Cecco, l’epoca del sistema aureo si caratterizzò per la sua intrinseca instabilità, le crisi ricorrenti, nonché una accentuata discrezionalità negli interventi di politica monetaria da parte dei Paesi leader, alla continua ricerca di posizioni di potere e di influenza nell’ambito di relazioni internazionali sempre più complesse e conflittuali. La storia del sistema aureo dimostrava che non erano tanto i meccanismi spontanei di mercato a garantire l’aggiustamento degli squilibri, quanto i rapporti gerarchici fra nazioni che si creavano negli scenari politici internazionali. Anticipando la tesi del «free trade imperialism», secondo de Cecco il sistema aureo si era presto trasformato in uno «sterling standard», utile a sostenere gli interessi del Paese egemone (l’Inghilterra) a svantaggio di economie satelliti meno sviluppate (in primo luogo, l’India). La sua diffusione era dunque coincisa con il massimo fulgore dell’economia britannica e la sua fortuna persistette fin quando l’impero di Sua Maestà fu in grado di imporre ai propri Dominions l’assorbimento di merci e titoli del debito pubblico inglesi, centralizzando nella City una massa crescente di riserve in oro e argento. Al tempo stesso, la crisi del sistema aureo era già ampiamente maturata per il rapido declino dell’egemonia britannica ancor prima dell’attentato di Sarajevo, quando gli eventi della prima guerra mondiale ne accelerarono gli esiti.
Su questo periodo storico, e sulla stretta relazione fra economia e geopolitica, resta mirabile la sua rilettura delle Conseguenze economiche della pace di Keynes (Torino 1983): se non mancò di manifestare la propria ammirazione per le denunce contro le clausole del Trattato di Versailles e per gli stimoli che il libro aveva offerto alla nascita della teoria macroeconomica fra le due guerre, egli corresse il giudizio di Keynes sui veri obiettivi che muovevano le trattative tra i quattro grandi: «quello che avveniva al tavolo della pace non era dettato dalla stupidità o dalla cattiveria dei protagonisti, quanto dalla necessità di fornire alle masse, coinvolte nella guerra dalle proprie classi politiche, la prova che i loro sacrifici non erano stati inutili, che la guerra era servita a qualcosa» (p. 19). A ben vedere, notò, le clausole imposte alla Germania erano solo apparentemente punitive: «ci si guarda bene dallo specificarne l’importo preciso, perché non si ha alcuna intenzione di rispettarle. Così si placa l’opinione pubblica dei Paesi vincitori, si firma la pace, e si assolda la Germania come cane da guardia degli alleati contro la rivoluzione bolscevica» (p. 18). Come si vede, de Cecco non disgiunse mai l’analisi economica dall’osservazione delle relazioni di potere tra diversi attori a livello nazionale e internazionale. Così mostrò come, anche prima della guerra, l’affermazione internazionale del sistema aureo aveva paradossalmente contribuito ad accrescere – e non a ridurre come sostenevano i nostalgici – il ricorso a strumenti di controllo monetario e l’esercizio dell’egemonia del Paese leader. Il sistema aureo aveva rappresentato un passo verso il dirigismo e l’accentramento delle decisioni di politica economica in organismi, quali le banche centrali, caratterizzati da un elevato bagaglio di conoscenze tecniche e di autonomia politica, piuttosto che il contrario, come gli economisti liberisti predicavano a gran voce.
Sin dagli anni Sessanta, i suoi studi giovanili sul sistema aureo e la profonda conoscenza delle relazioni finanziarie internazionali lo portarono ad attribuire grande importanza al ruolo dei movimenti internazionali dei capitali nel generare crisi e condizionare le prospettive di sviluppo economico delle nazioni, e soprattutto delle aree più periferiche. Sono i flussi di capitale a giocare un ruolo determinante nella formazione degli squilibri commerciali; ad alimentare e diffondere i sintomi dell’incertezza e dell’instabilità sistemica; a generare i fallimenti dell’economia reale e i fenomeni del contagio; a rappresentare un vero e proprio canale di trasmissione delle strategie politiche attraverso anomale alleanze di interessi fra gli organi di governo e i centri della finanza internazionale. Da questo punto di vista, fu a lungo un convinto sostenitore della proposta di Keynes e di molti suoi seguaci di mantenere elevati e vigili i controlli sui movimenti internazionali dei capitali, utilizzando divieti e restrizioni. Al tempo stesso, in alcuni studi dedicati alla tumultuosa crescita della finanza transnazionale, mostrò come sin dagli anni Cinquanta il fragile compromesso rappresentato dagli accordi di Bretton Woods avesse indebolito l’efficacia delle prescrizioni keynesiane, sotto il peso dei prevalenti interessi rappresentati dalla finanza americana, desiderosa di svincolarsi dai regolamenti restrittivi imposti dalla FED (Federal Reserve System). In questo ambito, particolarmente acuta e originale fu la sua interpretazione sugli effetti prodotti dal burrascoso sviluppo del mercato dell’eurodollaro a seguito del ritorno alla convertibilità delle monete europee nel 1958. Attraverso l’improvvisa creazione di un mercato finanziario fino ad allora inesistente, con la gigantesca creazione di depositi in dollari al di fuori dei confini americani, la finanza transnazionale aveva inferto un duro colpo all’operatività del sistema di Bretton Woods, rendendo più ardue le capacità di controllo degli aggregati monetari e creditizi da parte delle autorità monetarie e di governo.
Le critiche nei confronti della globalizzazione finanziaria restarono una costante della sua attività scientifica e, a partire dagli anni Ottanta, guardò con crescente preoccupazione alla indiscriminata apertura e traumatica crescita dei movimenti internazionali dei capitali, auspicando il ritorno a forme condivise di vigilanza e di controllo a livello sovranazionale.
Nelle sue colte e raffinate analisi dedicate alla storia del credito e della finanza (antica e contemporanea), individuò nella moneta uno dei principali beni pubblici di cui l’economia dispone per avviare percorsi di crescita del reddito, diffusione del benessere e una più estesa partecipazione all’attività produttiva. Insieme al lavoro e all’investimento, la moneta è parte integrante delle fondamenta di un sistema economico, capace di modificare i suoi destini e le prospettive di sviluppo. Attraverso le sue numerose e delicate funzioni e, soprattutto, attraverso le innovazioni finanziarie che il mercato e le istituzioni che la governano continuamente producono (o riscoprono, come de Cecco spesso riuscì a dimostrare), la moneta influenza lo stato generale di fiducia e di stabilità da cui dipendono le relazioni economiche, la propensione a consumare o investire, la formazione delle aspettative di investitori e consumatori. Richiamando le lungimiranti rappresentazioni della cultura greca, la moneta fu assimilata da de Cecco a una particolare forma di linguaggio, che svolge una funzione indispensabile nel trasmettere messaggi, intrecciare relazioni, creare simboli e occasioni di scambio. Come tutte le forme di espressione umana, una moneta poteva affermarsi o decadere nel tempo, acquisire una posizione dominante o declinare rapidamente.
Per de Cecco, la moneta trova la sua origine in un accordo cooperativo fra soggetti o, più frequentemente, seguendo la tradizione aristotelica, è un’istituzione direttamente prodotta e garantita dal sovrano o dallo Stato. Attraverso la creazione di moneta e i processi di trasformazione delle sue funzioni e modalità di impiego che banche e mercati finanziari rendono possibile, si viene a determinare lo stato di fiducia, di stabilità e di progresso delle relazioni economiche interpersonali e internazionali. Nei suoi studi sulla storia economica mondiale, dall’impero romano all’introduzione dell’euro, la moneta non prese mai le sembianze esclusive di uno strumento neutrale, di un ‘velo’, di un’invenzione che facilita lo scambio e genera efficienza e opportunità. Al contrario, con la creazione di circuiti creditizi e finanziari che contribuiscono a modificare le sue caratteristiche quantitative e soprattutto qualitative, la moneta gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo economico delle nazioni.
de Cecco aderì a una concezione endogena della moneta, dove le attività liquide vengono create dal sistema economico indipendentemente dai legami che la legge stabilisce fra il segno monetario e la sottostante base monetaria a valore intrinseco positivo. Anche in epoche antiche, la moneta endogena svela la sostanziale poca importanza degli aspetti più quantitativi degli aggregati monetari, dimostrandosi capace, attraverso il credito, di allungare i cicli di produzione, di portare a maturazione le economie di scala, ma anche di generare squilibri e criticità sistemiche. Le caratteristiche tipicamente ‘non neutrali’ della moneta richiedono dunque l’esistenza di istituzioni pubbliche, tecnicamente capaci e possibilmente coordinate fra loro, in grado di garantire e mantenere – anche con l’uso protratto della repressione finanziaria – fiducia e stabilità.
I suoi scritti di teoria monetaria furono sempre intrisi di un continuo dialogo fra la storia dei fatti e la storia delle idee. In quest’ultimo ambito, fornì contributi importanti per la conoscenza del pensiero di giganti quali Keynes o John Hicks, ma anche per la riscoperta di autori relativamente meno noti quali, nell’Europa continentale, Albert Hahn e Karl Schlesinger o, negli Stati Uniti, Charles Conant e John H. Williams. Banchieri, giornalisti, economisti non propriamente al vertice della professione che, tuttavia, meglio di altri, avevano saputo cogliere elementi che rendevano la teoria più aderente alla realtà e al funzionamento dei mercati, mostrando l’importanza di fenomeni come la speculazione o lo sviluppo di innovazioni finanziarie che la teoria ortodossa faceva fatica a incorporare nei propri modelli. La sua autentica passione per le fonti e per la salvaguardia delle tradizioni di pensiero lo portarono a realizzare, insieme a Ciocca, una collana dedicata agli economisti abruzzesi, che vide la pubblicazione presso l’editore Carabba di Lanciano, con volumi dedicati, fra gli altri, a Federico Galiani, Umberto Ricci, Raffaele Mattioli, Claudio Napoleoni e Federico Caffè.
Sin dal suo primo libro Saggi di politica monetaria (Milano 1968), gli studi sulla storia e sul funzionamento del sistema monetario internazionale si accompagnano da vicino a un’acuta ricostruzione e interpretazione del sistema bancario e finanziario italiano del secondo dopoguerra. Molteplici sono i contributi originali che dedicò ai principali protagonisti di questo sistema: la Banca d’Italia, per cui è autore e curatore di più volumi e saggi monografici dedicati alla sua storia fra il 1860 e il 1945; le grandi banche commerciali come la Banca nazionale del lavoro; le banche di affari (Mediobanca e Istituto mobiliare italiano); gli istituti di credito speciale (Consorzio di credito per le opere pubbliche - Crediop e Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità - ICIPU); il circuito del risparmio postale (Cassa depositi e prestiti) e quello dominato dalle casse di risparmio o dalle piccole banche locali. In questi lavori fornì un contributo importante alla comprensione del ruolo ricoperto dal sistema bancario nella storia economica italiana, esaminando il comportamento di istituzioni e classi dirigenti in un Paese che si stava progressivamente spostando dalla periferia al centro dell’economia mondiale («e ritorno», come ebbe a prevedere nel 1995).
Nei suoi lavori di storia bancaria mise in luce fenomeni che il dibattito scientifico stava solo limitatamente e raramente cogliendo, quali, ad esempio, la politica delle autorizzazioni e degli sportelli bancari che favorì un’eccessiva crescita di piccole banche locali, fortemente ‘contaminate’ dal potere politico e partitico, a scapito delle grandi banche milanesi maggiormente orientate alla realizzazione di innovazioni finanziarie e al conseguimento di economie di scala e di diversificazione. Le sue analisi contenevano critiche nei confronti di un eccessivo decentramento finanziario, che aveva provocato inefficienza, impedito lo sviluppo dei mercati mobiliari, generato un forte aumento nei costi attraverso il mercato interbancario e un anomalo circuito di doppia intermediazione. Questi processi di cambiamento strutturale portavano con sé, fra le conseguenze indesiderate, una crescente ingerenza dei potentati politici locali nella gestione del credito e forti resistenze a una maggiore concorrenza e modernizzazione nell’operare dei mercati dei capitali. La frammentazione eccessiva del credito in circuiti separati rendeva più difficile il collegamento fra risparmio e investimento.
Della storia finanziaria fra le due guerre mondiali rivalutò l’originalità del circuito elaborato da Alberto Beneduce per collegare il risparmio minuto degli italiani alla realizzazione di investimenti produttivi a lungo termine, capaci di generare opere pubbliche, impianti di pubblica utilità e programmi di investimenti in infrastrutture. In un mercato dei capitali reso asfittico dalla mancanza di un’autentica borghesia imprenditrice e privo del sostegno delle grandi banche di investimento, le emissioni delle ‘obbligazioni Beneduce’ seppero generare, per la prima volta nella storia d’Italia, processi di industrializzazione diffusa in settori di base e di riequilibrio sul piano infrastrutturale e territoriale. Gli istituti di credito speciale, sostenuti a lungo da quel polmone di risorse finanziarie tradizionalmente rappresentato dal risparmio postale, riuscirono dunque a costituire la base della modernizzazione e dello sviluppo economico di un Paese che si sarebbe pienamente realizzato negli anni del ‘miracolo’, attraverso la realizzazione di massicci investimenti in progetti ad alta intensità di capitale e redditività protratta nel tempo.
La crisi del ‘sistema Beneduce’, che si verificò a partire dagli anni Sessanta per un complesso di ragioni legate sia alla politica (nazionale e internazionale) sia ai cambiamenti nella struttura produttiva e tecnologica, rappresentò per de Cecco un passaggio cruciale per spiegare l’abbandono di un modello stabile e virtuoso di economia mista e il più generale declino dell’economia italiana. A queste tendenze non erano peraltro estranee le grandi banche pubbliche, colpevoli di aver privilegiato l’affermarsi di un approccio esclusivamente patrimoniale e assicurativo del contratto di credito (con le pratiche del multi-affidamento e la bassa propensione verso rapporti privilegiati e duraturi con le imprese), svilendo il contenuto informativo e relazionale e incidendo negativamente sulle capacità di crescita tecnologica e dimensionale della nostra struttura produttiva.
Convinto europeista, denunciò spesso i limiti del processo di integrazione e gli errori compiuti dalle classi dirigenti nazionali ed europee, incapaci di adottare strategie favorevoli alla crescita e rispettose di un autentico spirito comunitario.
Sin dagli anni Sessanta, individuò nella costruzione europea un progetto ambizioso e decisivo per la crescita postbellica, in particolare per quei Paesi periferici che, come l’Italia, erano caratterizzati da profonde disparità regionali e disfunzioni istituzionali. Il perdurante dualismo economico fra Nord e Sud, la crescente minaccia del debito pubblico, la scarsa qualità delle istituzioni e il tramonto della grande impresa innovativa rendevano necessario un grande progetto esterno a cui ancorarsi e, ancor più, la presenza di «esperti timonieri» – come scrisse – capaci di ispirare o condizionare le grandi scelte di politica economica.
Sostenitore del rapporto Delors e del progetto di unione monetaria, individuò nella convergenza dei tassi di interesse il principale vantaggio che i Paesi con squilibri finanziari avrebbero conseguito dalla partecipazione a processi di integrazione più forti e ambiziosi. L’euro poteva rappresentare l’occasione migliore e più indolore per fare i conti, in tempi di pace e di democrazia, con la spada di Damocle di un debito pubblico accumulato nei difficili anni Settanta e negli spericolati anni Ottanta. La mancata capacità mostrata dalle classi dirigenti di cogliere questa straordinaria opportunità contribuì ad accrescere il suo scetticismo.
Nella lunga fase di transizione prevista dal trattato di Maastricht, non mancò di denunciare le profonde contraddizioni che caratterizzavano la costruzione tecnica dell’euro, la frequente prevalenza degli interessi nazionali nel determinare le condizioni di accesso e permanenza, e l’eccessiva influenza tedesca nella definizione e nell’applicazione di regole, statuti e parametri. L’assenza di una politica fiscale comune o di un autentico spirito federalista al più elevato livello decisionale finivano per indebolire fortemente la capacità della moneta unica di generare produttività, sviluppo economico e benessere condiviso. In occasione del passaggio dalle monete nazionali all’euro, il prevalere degli interessi nazionali riuscì a distorcere irrimediabilmente, agli occhi di de Cecco, il processo di transizione. Egli fu fra i pochi economisti a prevedere e denunciare i pesanti effetti redistributivi prodotti dal processo di conversione e la complice connivenza delle autorità di governo che, soprattutto nei Paesi più periferici e squilibrati come l’Italia, avevano mancato di svolgere le necessarie funzioni di controllo e di verifica sul corretto operare dei mercati a tutto vantaggio della propria base elettorale.
Col tempo, l’entusiasmo nei confronti dell’Unione monetaria si trasformò e gli scritti di de Cecco divennero sempre più critici nei confronti della classe dirigente europea e, soprattutto, delle politiche economiche della Germania. L’approccio neomercantilista tedesco, che si estendeva dal commercio, all’investimento e alla finanza, fu frequente oggetto delle sue analisi critiche. In un passaggio cruciale della storia europea, la Germania era risultata incapace di svolgere un’autentica funzione di leadership, attraverso una redistribuzione degli oneri legati all’aggiustamento degli squilibri e l’approvazione di politiche espansive della domanda aggregata in modo tale da sostenere gli investimenti, i guadagni dovuti all’integrazione e la crescita delle economie più deboli. Richiamando la lezione di Ragnar Nurkse sui fallimenti degli anni Trenta, sin dai primi anni Novanta, anche a seguito del processo di riunificazione tedesco, mise in luce come la Germania fosse colpevole di non adempiere adeguatamente al proprio ruolo di Paese leader dell’Unione attraverso forti importazioni dal resto d’Europa e l’organizzazione di una rete di prestiti internazionali a sostegno della liquidità complessiva del sistema. La storia dei sistemi monetari insegnava quanto fragili fossero quei progetti che prevedevano regole e istituzioni costruite da (e intorno a) un Paese leader strutturalmente esportatore e costantemente preoccupato di drenare, piuttosto che creare, liquidità internazionale. L’ambizioso progetto dell’euro rischiava dunque di naufragare come tutte le unioni monetarie incomplete che lo avevano preceduto nella storia. Esso rimaneva monco di una necessaria politica fiscale e tributaria comune e reso più fragile per la liberalizzazione di un mercato finanziario e dei titoli pubblici sempre più transnazionale e globale.
Pur da sempre favorevole a politiche espansive della domanda aggregata, anche con investimenti pubblici in opere infrastrutturali e nella scuola, individuò nel doppio meccanismo di svalutazione della moneta e aumento del debito pubblico il fenomeno che aveva minato le prospettive di stabilità e di crescita dell’economia italiana. Sin dai primi anni Novanta ne colse le implicazioni di lungo periodo, prevedendo una fase di inesorabile declino all’interno di un mondo globale che tornava a guardare a Oriente. Fra i fattori scatenanti del declino dell’economia italiana, richiamò l’esaurirsi della capacità innovativa da parte delle imprese, eccessivamente dominate da micro unità specializzate in produzioni spesso di alta qualità, ma a bassa tecnologia e alta intensità di lavoro; il decadimento della scuola, dell’università e della ricerca applicata; il basso livello di civismo e di educazione pubblica che degenerava nei fenomeni dell’evasione fiscale e dell’economia sommersa e criminale.
In un mondo sempre più dominato dal ritorno dei nazionalismi e dal confronto aggressivo fra grandi potenze economiche e commerciali, dalla mutevole riorganizzazione delle strutture industriali su scala globale e da una finanza sempre più pervasiva e opaca, la lezione di Marcello de Cecco, sul piano della metodologia della ricerca e dell’analisi dei fenomeni economici, rimane oggi, e rimarrà a lungo, di grande attualità.
La forte vocazione internazionale della sua produzione scientifica e del suo impegno intellettuale si intrecciarono continuamente con un’opera di rivendicazione e valorizzazione delle proprie radici territoriali. L’amore e l’attaccamento nei confronti del suo paese di origine, Lanciano, è un tratto che emerge spesso e in modi diversi nella sua biografia, a cominciare dal suo inconfondibile accento lancianese. Dopo la sua scomparsa, avvenuta a Roma il 2 marzo 2016, il Comune di Lanciano gli dedicò il palazzo di corso Trento e Trieste, antica sede del liceo classico da lui frequentato, che è diventato Palazzo degli studi Marcello de Cecco. Nel settembre 2016, si è costituita l’Associazione Marcello de Cecco, che opera con l’obiettivo di mantenere vivo il ricordo e la lezione dell’economista abruzzese, sostenendo la promozione e la diffusione della conoscenza economica come fattore di crescita civile.
Ha lasciato la moglie Julia Bamford, già docente di lingua e letteratura inglese all’Università Orientale di Napoli; i figli Vincenzo, regista e documentarista cinematografico, Francesco, professore di diritto europeo all’Università di Newcastle, e tre nipoti.
Saggi di politica monetaria (Milano, 1968); Money and Empire. The International Gold Standard, 1890-1914, Oxford 1974 (trad. it. Moneta e impero. Economia e finanza internazionale dal 1890 al 1914, a cura di A. Gigliobianco, Roma 2017); L’Italia e il sistema finanziario internazionale, 1919-1936, Roma-Bari 1993; Storia del Crediop. Fra credito speciale e finanza pubblica. 1920-1960, Roma-Bari, 1994 (con P. F. Asso); Le banche d’affari in Italia, Bologna 1994 (con G. Ferri); L’economia di Lucignolo. Opportunità e vincoli dello sviluppo italiano, Roma 2000; Ma cos’è questa crisi. L’Italia, l’Europa e la seconda globalizzazione (2007-2013), Roma 2013; Origins of the Postwar Payments System, in Cambridge journal of economics, III (1979), 1, pp. 49-61; Introduzione, in J. M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Torino 1983; Monetary theory and roman history, in The journal of economic history, XLV (1985), 4, pp. 809-822; Splendore e crisi del sistema Beneduce, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, a cura di F. Barca, Roma 1997.
P. Paesani, Marcello de Cecco 1939-2016, in Rivista di storia economica, 2016, n. 3, pp. 417-426; R. Bellofiore, La lezione di de Cecco, 29 novembre 2016, https://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/8548-riccardo-bellofiore-la-lezione-di-de-cecco.html (13 marzo 2020); E. Felice - U. Pagano, Il declino dell’economia italiana. Una riflessione che parte dal pensiero di Marcello de Cecco, in L’Industria, 2019, n. 2, pp. 185-196.